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Il vero arbitro è il cuore
Nella Sicilia degli anni trenta, come in tutta l'Italia dell'epoca, il regime si vantava del fatto che i propri cittadini potessero dormire sonni tranquilli anche lasciando aperte le porte di casa. Ciò era il risultato dell'inflessibile ed implacabile lotta alla criminalità messa in atto dalle camicie nere, in nome della quale il governo, nella persona del ministro Alfredo Rocco, reintrodusse la pena di morte nel codice penale, a dimostrare che il fascismo non scherzava nei confronti di assassini e disonesti. Con questi presupposti, poteva un semplice ragioniere palermitano, reo confesso di un triplice omicidio nei confronti della propria moglie, dell'uomo che lo aveva scalzato dal suo posto di lavoro e del suo superiore che ne aveva chiesto ed ottenuto il licenziamento, scampare all'inevitabile patibolo? Se in più consideriamo che in casa dell'assassino era stato trovato il ritratto di Matteotti e che una delle vittime, l'esimio, stimato e integerrimo Avv. Comm. Giuseppe Bruno oltre che Segretario del Sindacato Forense era Presidente dell'Unione Provinciale Fascista Artisti e Professionisti, rimanevano ben poche speranze all'imputato di evitare una sorte ormai scritta. Quale giudice, quale giurato, quale individuo che teneva alla propria carriera, alla propria vita, alla sua serenità personale e a quella della propria famiglia avrebbe potuto mettersi contro una decisione dettata da un codice scritto nonché da importanti motivazioni politiche? Sciascia ci riporta indietro di qualche anno, a quella che rimane una delle epoche più nere della storia del nostro paese. Lo fa con la sua penna scaltra e incisiva, disegnando un perfetto ritratto della società dell'epoca, in un periodo in cui il regime tira fuori gli artigli per cercare di recuperare un consenso che va via via scemando. "Non si erano mai posto il problema di giudicare il fascismo nel suo insieme, così come non se lo erano posto nei riguardi del cattolicesimo...Ma tante cose disapprovavano della chiesa cattolica. E tante del fascismo. Cattolici, fascisti. Ma mentre il cattolicesimo stava ancora lì, fermo e massiccio come una roccia, per cui sempre allo stesso modo potevano dirsi cattolici, il fascismo no: si muoveva, si agitava, mutata e li mutava nel loro sentirsi sempre meno fascisti. Il che accadeva in tutta Italia e per la maggior parte degli italiani. Il consenso al regime fascista, che per almeno dieci anni era stato pieno, compatto, cominciava ad incrinarsi e a cedere". Se il clima pesante della dittatura aleggia sul libro dalla prima all'ultima pagina, non è esclusivamente nei suoi riguardi che si concentra l'atto di denuncia dell'autore. Il reale imputato, in quest'opera che ha i veri e propri connotati del processo, è la pena capitale. Sciascia si fa avvocato dell'accusa e, attraverso i pensieri e il comportamento di un coraggioso e intelligente "piccolo giudice", mette in atto un'eccellente requisitoria nei confronti della pena di morte, importante per i contenuti e interessante per lo stile letterario e per le argute e pertinenti citazioni che spaziano da Vitaliano Brancati a Stefan Zweig, fino ad arrivare all'immenso Tolstoj. "Quando vidi come la testa si staccava dal corpo e come l'una e l'altro, separatamente, andavano a sbattere nella cassa, allora capii, non con l'intelligenza, ma con tutto il mio essere, che non vi è alcuna teoria della razionalità dell'esistente e del progresso che possa giustificare un simile atto e che quand'anche tutti gli uomini al mondo, fin dalla sua creazione, basandosi su teorie quali che siano, trovassero che ciò fosse necessario, io so che ciò non è necessario, che ciò è male e che, quindi, arbitro di quel che è bene e necessario non è quel che dicono e fanno gli uomini, e neppure lo è il progresso, ma lo sono io, con il mio cuore" (Le confessioni - Lev N. Tolstoj).
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