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All’avventura
Poeta al comando parla degli ultimi giorni dell’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio, l’unica in cui si cimentò da politico e capo di stato, senza essere tuttavia convincente sia nell’uno che nell’altro ruolo, e del resto lui stesso, il Vate, ne era consapevole. Si era gettato nell’impresa con l’impeto che gli era usuale quando riteneva di aver trovato il mezzo e il fine per suggestionare folle e accrescere il proprio mito; con lui partecipò un‘accozzaglia di reduci della Grande Guerra, per lo più Arditi, ben lieti di avviare un periodo all’insegna della massima libertà, senza che fosse necessario prendersi sul serio. Incapace di restare inattivo, D’Annunzio, nel periodo dell’occupazione della città (dal 12 settembre 1919 al 31 dicembre 1920), senza che ne prevedesse i futuri sviluppi, curò i rituali di cui poi si sarebbe appropriato il fascismo, ma scrisse anche una costituzione assai libertaria. Colto nel romanzo di Barbero nell’ultima parte dell’impresa, ormai in evidente declino, prima ancora che gli occupanti dovessero smobilitare, troviamo D’Annunzio nella sua tipicità di essere tutto e il contrario di tutto, con l’aggiunta però della malinconica consapevolezza che gli anni sono trascorsi e che quindi è già entrato nell’incerto e gramo periodo della vecchiaia. Pur nell’incoscienza di questa combriccola, che non è un’ Armata Brancaleone, ma che tuttavia si è gettata nell’impresa solo per spirito d’avventura, a Fiume si vive alla giornata in una sorta di baldoria in cui utopie, desiderio di ebbrezza e anche libero amore sembrano un anticipo di Woodstock 1969.
L’impressione che ne ho ricavato é che il mito abbia finito per travolgere il personaggio e che questo, che comincia a ricordarsi che la vita non é eterna, si immalinconisca, facendolo diventare più umano, così da scendere fra noi, comuni mortali, dal piedistallo su cui si era posto. L’idea di Barbero é geniale e porta a una lettura assai gradevole, tanto più che chi narra non é D’Annunzio , ma il suo segretario Tom Antogini, che nel 1944, in un bar di Salò ritrova dopo molto tempo e nelle vesti di ufficiale delle ausiliarie della RSI Cecilia, una ragazza più brutta che bella e che tuttavia a Fiume riuscì a irretire il poeta, divenuto da cacciatore di donne a preda. Fra l’altro, il fascino di Cecilia, che viene soprannominata da D’Annunzio Cosetta, é tale che doveva aver fatto breccia anche nel cuore dell’Antogini, tanto che a distanza di più di venti anni quella brace si ravviva e così ottiene quell’ amplesso che non gli era riuscito nei giorni dell’occupazione di Fiume.
Occorre riconoscere a Barbero la capacità non indifferente di presentarci un evento e dei personaggi in modo del tutto convincente e senz’altro gradevole, tanto che la lettura è da me consigliata.
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Mi pare una dimostrazione di come può essere il velleitarismo al potere : demagogia e caos con un presente allarmante e senza futuro. Sappiamo come è andata a finire ; è stata evitata la lunga agonia dell'implosione finale.