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Il dopo
La quarta di copertina chiarisce già lo scopo del libro, laddove riporta: “Il peso dello zaino é la naturale integrazione e il necessario completamento di Centomila gavette di ghiaccio, con il quale costituisce un unico blocco narrativo.”. Tutto semplice, quindi, ma ciò è vero solo in parte. I superstiti dell’armata italiana in Russia si trovano finalmente in Italia in un’epoca che va dalla primavera del 1943 al settembre dello stesso anno. Feriti nel corpo e nell’anima, tangibile rappresentazione di una guerra voluta da un regime in sfacelo, sembrano tante pedine in attesa di un evento epocale. Infatti la narrazione li coglie in un arco di tempo in cui ormai è certa la sconfitta dell’Asse, ma questi alpini, indomabili, appena si ristabiliscono vogliono tornare al reparto, dove, per un breve periodo, saranno impiegati lungo la frontiera orientale in funzione di contrasto ai partigiani iugoslavi. Ritroviamo personaggi di Centomila gavette di ghiaccio, come il capitano Reitani, il conducente Scudrera e anche il tenente medico Serri, in cui si identifica l’autore. Quest’ultimo, però, che nel precedente romanzo era protagonista di primo piano, ora si va defilando, lasciando più ampi spazi ad altri che sulle nevi russe erano dei comprimari. Peraltro, della tragica ritirata è talmente vivo il ricordo che spesso e volentieri, come incisi, ancora se ne parla, determinando dei flash back che non di rado mi hanno indispettito. Del resto è la struttura stessa dell’opera che non è ben impostata e lineare come la precedente, come se di quel periodo Bedeschi avesse un ricordo confuso; inoltre, mentre dapprima aveva sempre evitato i toni retorici, magari pure avvicinandoli, qui invece diventano la norma. Scene come la fidanzata che dopo un lungo viaggio va a trovare l’amato in ospedale e che resta sconvolta nel vederlo ridotto a un tronco, senza braccia, né gambe, sembrano messe lì per impressionare il lettore, ma sono statiche, a sè stanti, e non offrono un risultato migliore di quello di provocare un turbamento. Anche la confusione creatasi con l’armistizio dell’8 settembre, che avrebbe meritato un accelerazione del ritmo appare fortemente rallentata, quasi che l’autore avesse timore di parlare delle difficili scelte che allora furono operate: combattere i tedeschi o continuare al loro fianco. Evidentemente il fatto che lui abbia optato per la seconda ha posto delle remore, benchè nel libro il tenente medico Serri preferisca eclissarsi per raggiungere i familiari. Quest’ultima soluzione, cioè sparire, è probabile che sia stata vista da Bedeschi come la migliore e in effetti anche lui si diede alla macchia, rifugiandosi in Sicilia, ma dopo la fine della guerra. Non mi piace leggere un libro conoscendo la vita del narratore, ma in tal caso ciò appare indispensabile poiché si tratta di esperienze vissute. In tal senso mi appare ancora ben poco comprensibile la sua scelta di aderire al Partito Fascista Repubblicano, a meno che, e non è del tutto improbabile, non abbiano prevalso motivazioni di carattere economico, rivelando però ancora di più in tal caso la modesta personalità di quest’uomo e lasciando supporre che quanto raccontato della ritirata di Russia, più che una testimonianza a futura memoria, sia finalizzato solo a ottenerne introiti con la pubblicazione. Comunque, al di là di queste mie riflessioni, il libro in se stesso non è male, se pure inferiore a Centomila gavette di ghiaccio, e pertanto ritengo che sia da leggere.
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Ho apprezzato parecchio "Centomila gavette di ghiaccio" , per cui sapere che la sua ideale continuazione non ne prosegue il livello letterario è una mezza delusione.