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Un tentativo di riscatto
Andrea Camilleri, di tanto in tanto, rispolvera fatti e personaggi del passato, quasi del tutto caduti nell’oblio, per trarre lo spunto per interessanti e piacevoli romanzi storici. È il caso di quell’autentico capolavoro che è Il birraio di Preston, oppure di La setta degli angeli, una sorta di bunga bunga di inizi ‘900. Il re di Girgenti é basato su un fatto accaduto realmente nella prima metà del XVIII secolo ad Agrigento, allorché un semplice contadino, uno di quelli che lavoravano a giornata, tale Michele Zosimo, più conosciuto come Zosimo, per alcuni giorni divenne re della città. Che un umile lavoratore della terra, un plebeo potesse diventare un capo popolo e assurgere, sia pure quasi nel tempo di un battito d’ali di farfalla, al trono di un improvvisato regno è materia di per sé particolarmente interessante e in cui Camilleri si getta a capofitto. In sé la vicenda, a parte lo scalpore, non sarebbe gran cosa se l’autore siciliano non ci mettesse tanto del suo, con la rappresentazione di un mondo atavico, in cui sopravvivono – quando ci riescono – migliaia di poveri diavoli, accanto alla stridente realtà dell’opulenza di nobili, la cui indolenza e protervia non viene minimamente scalfita dall’abbondanza di superfluo. Questo terreno, così spaccato, è la coltura ideale perché possa dare i natali a qualcuno che osi sollevare la testa, diventando il simbolo dei sudditi considerati dai padroni più bestie che uomini. Accanto alla figura di Zosimo, esistito veramente, la cui vita è ovviamente romanzata da Camilleri, si ritagliano un angolo di notorietà tanti altri personaggi, del tutto di fantasia, che danno una coralità all’opera tale da costituire uno dei motivi del suo successo. Ma se nell’analisi sociologica dei villani dell’epoca l’autore siciliano fa rientrare un certo alone di magia e di un empirico e rozzo esoterismo, ha la capacità tuttavia di innestare una trascendenza non di maniera, in un’opera che unisce riso e anche pianto, perché il Re di Girgenti non abdicherà, né sarà costretto a farlo; non è tanto l’attribuzione del titolo il suo reato, quanto invece quello di aver richiesto un po’ di giustizia e di umanità. Per la sua ribellione, per la ribellione di un popolo di derelitti che lo ha seguito, finirà sulla forca ed è proprio l’esecuzione forse la parte più riuscita del romanzo; in quelle pagine la parola vola alta e si tocca il sublime. Quindi tanto di cappello a Camilleri e a questo suo lavoro, a cui nuoce solo quel suo linguaggio di dialetto siciliano italianizzato che a volte è comprensibile solo a senso, impedendo così di apprezzare la bellezza della parola giusta al momento giusto.