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Per forze ignote che decidono di te
Per forze ignote che decidono di te.
A chi dà per scontato che gli accadimenti della Storia siano sempre forgiati dai grandi Disegni dei suoi protagonisti, Enzo Striano - formidabile scrittore morto poco dopo la prima pubblicazione del romanzo senza poter godere la gratificazione del lento ma puntuale tamtam del popolo dei lettori - propone una marchesa Eleonora Pimentel de Fonseca, "Lenòr", che è tutt'altro dalla mummificata eroina consegnataci dalla iconografia risorgimentale (bella espressione che rubo al mio amico Silvio). Egli ci restituisce, liberandolo, il ritratto di una donna che forse, all'incontro con la Storia, stava percorrendo un'altra strada, fatta di contatto panico con la natura, curiosità verso il prossimo, divertimento e amore per il teatr(in)o della vita. E che dal flusso, e poi dal tumulto, delle cose che seguono non si ritrae, proprio in virtù di quello spirito più che in risposta al richiamo della Storia.
Il racconto la coglie bambina, a Roma, ad assorbire tutta presa il brulichio gravido di odori del porto di Ripetta. La segue nel suo trasferimento con la famiglia - nobile e sfortunata famiglia portoghese - nella mitica e favoleggiata Napoli della metà del '700, lasciata all'apice del suo splendore da Carlo III di Borbone a un Ferdinando ragazzino. (Memorabile, attraverso l'occhio rapito della bambina, l'arrivo della carrozza al "largo di Palazzo" in pieno bailamme di Piedigrotta. Da Napoli non si sarebbe più mossa, seppe subito). La vita a corte e nei salotti "sconvenienti" dove germogliano o rimbalzano i primi fermenti illuministi. E poi via via gli echi della rivoluzione francese, il montare del disegno utopistico di una Repubblica Partenopea. E repubblica fu, 1799, breve e tragica stagione. Come finisse è noto. E con la repubblica si chiude anche il romanzo, all'ombra delle forche di Piazza Mercato nell'afrore di una giornata estiva al giro di boa fra due secoli.
Ma con Il Resto di Niente non siamo in presenza di un pretesto narrativo per fare storia; neanche c'è schieramento palese e aprioristico per una parte. Mi sembra piuttosto che sia la storia ad offrire un irresistibile pretesto per dipanare una vicenda umana dai vividi bagliori romantici, di un pugno di ragazzi perbene che si infiammano a un gioco più grande di loro, e lo reggono fino alle estreme conseguenze.
Eppure, se Napoli era fertile terreno di coltura dell'entusiasmo illuministico di questi neofiti, non poteva esserci luogo meno indicato per l'attuazione di un programma politico che ne incarnasse lo spirito: vi alitavano savia comprensione, indifferenza gentile, meglio ancora supremo senso della vita, in equilibrio fra pietà e disincanto. Tutto (dal grande e nobile, al futile e meschino) acquistava preziosità inestimabile ma, al tempo stesso, non valeva nulla.
Di questo Lenòr acquista progressiva, fatale coscienza, molto in anticipo rispetto ai suoi appassionati compagni d'avventura; si accorge di partecipare a un gioco inverosimile, sventato, messo su da uomini bambini. Ma è donna di cuore, e sta con loro, vuol vedere come va a finire, se ne fà lei stessa artefice.
Se Lenòr è donna di cuore, Il Resto di Niente non può non essere un romanzo d'amore. Amore per la vita, innanzitutto. Il caleidoscopio di descrizioni di mercati brulicanti, di sonnacchiose marine assolate, di notti profumate, di feste di piazza e feste di corte, il miscuglio vorticoso di alto e basso dànno la costante sensazione di vivere la vicenda con tutti e cinque i sensi.
Ci sono poi gli incontri con l'amore; a partire da quello trepidamente atteso da lei adolescente, a quello vissuto per gioco, a quello forse non riconosciuto, a quello non accettato, a quello sublimato. Su tutte, la giovane, straziante figura del principe Gennaro Serra di Cassano la cui vicenda ancor oggi a Napoli inumidisce qualche ciglio.
Il tono del racconto, la ricercatezza evocativa della prosa, sospesa fra antico e moderno come negli eleganti ghirigori di un Gesualdo Bufalino, gli esercizi di stile (la babele linguistica degli ambienti altolocati, l'ermetica parlesia tutta simboli del linguaggio malavitoso - sorta di Miserabili alla napoletana), la truculenza espressa con tratto elegante (le buffonate del boia a beneficio dei lazzari), le vivide sortite nell'alimentare (il pranzo di Fasulo), consegneranno alla vostra memoria immagini stampate a fuoco.
E dunque mi piace pensare che il bilancio di questa scrittura non sia quello, ironico e perentorio insieme, preso in prestito per il bel titolo napoletano: il resto di niente. Anzi raccogliamo - e facciamone tesoro - il messaggio implicitamente lanciato da Lenòr dagli spalti di Castel Sant'Elmo, in un momento illuminante del libro e della sua vicenda umana:
Tutti non facciamo che attendere. Mentre questa città bellissima ai nostri piedi va accendendosi di luci. Sembra sentirne vaporare l'alito, di veder la gente brulicante per strade, vicoli, piazze. Ride, mangia, prende il fresco, vive. Noi, invece, in quest'isola arcigna, fuori dal mondo banale e bello.
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Ferruccio
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Recensione molto bella e segnalazione interessante.