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Quattro triglie di scoglio in brodetto
“Dominivobisco”.
“Etticummi spiri totò”.
“Itivìnni, la missa è”.
Vigata, 1877: termina la messa in latino maccheronico e inizia il romanzo, con la figura di padre Artemio Carnazza che si affretta a ritirarsi in sacrestia.
Donnaiolo e usuraio, esponente minore di un clero corrotto, don Carnazza morirà presto “sparato”, e non si può certo dire che non se la sia andata a cercare, tra mariti cornuti, amanti gelose, debitori strozzati e parenti derubati ai sensi di legge.
Alla sua morte le voci di paese si rincorrono e la verità è sulla bocca di tutti, che badano però a tenerla ben chiusa.
L'ultima sua amante è la donna più bella del paese, la vedova Trisìna Cìcero (“indubbiamente una grandissima buttana”), che si concede al prete un tanto al centimetro in base ad accordi prestabiliti:
“Una vasata senza lingua, mezzo chilo di farina; una vasata con la lingua, un chilo di pasta fina di Napoli; una vasata con la lingua e le due minne nude, tre tazzine di porcellana...”.
Trattative estenuanti, ma la carne di padre Carnazza è notoriamente debole e anche il suo spirito a dire il vero lascia abbastanza a desiderare.
Sono molte le autorità temute e disprezzate a Vigata, e questo indegno ministro di Dio non fa eccezione: le pagine che Camilleri gli costruisce attorno (spassosissime tra l'altro) sembrano la versione viziosa del don Abbondio di manzoniana memoria.
Nel suo cadavere inciamperà in senso proprio e figurato Giovanni Bovara, genovese d'adozione nato a Vigata, che in qualità di ispettore capo ai mulini della zona si ritrova in un ambiente destabilizzante e arretrato, dove gli viene riservata un'accoglienza particolare.
Le acrobazie stilistiche di Camilleri in questo libro arrivano al virtuosismo: siciliano, genovese, italiano, italiano sicilianizzato... Per non parlare dei documenti ufficiali redatti con linguaggio ottocentesco dotto o popolare, a seconda dei casi.
La narrazione è comunque scorrevole grazie all'ironia e ai dialoghi arguti tra i personaggi, e il lettore viene coinvolto in una storia intrigante, spettatore di una sfida dove si vince d'astuzia, anticipando le mosse del nemico.
Le lusinghe del capomafia locale, innanzitutto, il cui nome nessuno pronuncia senza timore reverenziale, e poi le minacce velate, le mezze frasi, le metafore che nella sua inesperienza il nuovo ispettore non riesce ad afferrare.
Del resto lui, incurante di tutto, compie con solerzia il suo dovere, turbando un consolidato sistema di corruzione che arriva ai piani alti della politica.
“Questo Bovara è uno strunzo ed uno strunzo che fa il furbo”, è l'opinione generale dei suoi diretti superiori.
Lo incastrano, ovviamente, e in maniera abbastanza approssimativa, ma poco importa visto che tutti fanno finta di crederci: peggio per chi non sa difendersi e non si adatta a certe dinamiche.
Bovara capirà per istinto che l'unico modo per stendere chi lo ha messo al tappeto è imitare la sua strategia, ed è così che dimentica il genovese e comincia a parlare e pensare in siciliano, raccontando una versione dei fatti riveduta e corretta.
E' la mossa del cavallo, l'unico pezzo della scacchiera che può scavalcare tutti gli altri.
“Quello la lezione se l'imparò e ce la sta mettendo nel culu para para”.
Vivido affresco di un'epoca lontana ma per molti versi straordinariamente attuale (emblematiche le parole del capomafia, che accusa la magistratura di asservimento al potere della sinistra), questo romanzo mette realisticamente in luce forze avverse alla giustizia e impossibili da sradicare.
E' già tanto se si riesce ad aver salva la pelle, accontentandosi di mezze verità:
“Si consolò, al ristorante, con quattro triglie di scoglio in brodetto”.
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Commenti
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1) il cavallo degli scacchi, che si muove a elle anche sulla testa di re e regina.;
2) la cover con i seggiolini volanti! Ma c'erano già a quell'epoca? E con la trama, come si collocano?
Grazie Cristina per la tua risposta sul mondo anglofono :-)
Aggiungo soltanto che le parti in genovese le ho trovate difficili da seguire: io ne ho capito solo vagamente il senso (decisamente più facile da capire il siciliano: questo forse la dice lunga sull'influsso dei diversi dialetti sulla nostra cultura nazionale). Camilleri ha forse un po' esagerato con il virtuosismo, anche se un po' era necessario, visto che il climax viene raggiunto proprio attorno a una questione di "glottologia".
Il capitolo finale, dove vegono raccontati i sogni di tutti i personaggi, mi ha invece ricordato Sogni di Sogni, nel quale Antonio Tabucchi inventò e raccontò i sogni di personaggi illustri tra cui Ovidio, Apuleio, Michelangelo, Leopardi, Rimbaud e molti altri (sì, c'è anche Pessoa c'erano dubbi?).
Complimenti Cristina per le belle recensioni che scrivi e per la qualità e chiarezza dei tuoi giudizi.
http://www.vigata.org/bibliografia/cavallo.shtml
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