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La storia senza oblio
Il fatto che il signor Manfredi abiti a cinque minuti di strada da casa mia non si è mai rivelato un incentivo sufficiente per approfondire il nutrito corpus di opere da lui scritte. Dopo aver letto, anni fa, “L’ultima legione” con moderata soddisfazione avevo chiuso il capitolo con la sensazione di aver compiuto un piccolo atto doveroso nei confronti di uno scrittore celebre e generalmente apprezzato a livello internazionale.
Mi sono sempre un po’ smarrito tra trilogie, romanzi storici, saggi e racconti senza farmi un’idea definitiva e ordinata delle caratteristiche generali dell’opera dell’autore, senza indagarne punti deboli e punti di forza, senza coinvolgermi a sufficienza per essere spinto ad approfondire il vastissimo repertorio letterario che in poco meno di trent’anni ha visto la pubblicazione di decine di romanzi.
“Il mio nome è Nessuno” è un’opera suddivisa in due volumi che si prefigge di raccontare la storia di Odysseo, il celebre eroe omerico le cui gesta sono scolpite da più di duemilacinquecento anni nell’eredità culturale più ancestrale del mondo occidentale, e in seguito di tutta l’umanità. Ciò che salta immediatamente all’occhio leggendo questa tipologia di opera letteraria, nonostante le mie basi per un confronto siano tutt’altro che solide, è sicuramente l’attenzione necessaria, a livello filologico, iconografico, storico e linguistico, da porre durante tutto il percorso di ricerca e di stesura del romanzo. Tentare una rivisitazione, un sunto o un racconto ispirato ad una così altisonante pietra miliare della cultura mondiale è sempre un’impresa che merita un piccolo plauso qualora si intendano l’impegno e la competenza profusi nello studio accurato dei testi originali. E da questo punto di vista, indipendentemente dal livello di gradimento del romanzo, sento di potermi fidare della professionalità accademica accertata dello scrittore.
Per il resto la storia è sempre quella. L’Odissea con tutti i crismi. Fedele ma non pignola, accurata ma non così nitida da evocare l’ora di greco al liceo, epica ma con un occhio puntato alla modernità sintattico/narrativa. Un racconto fluente che ci porta in mezzo alla guerra di Troia, nel primo volume, e in mezzo alle tumultuose vicende di Odysseo e del suo ritorno a Itaca, nel secondo. In questo grande secondo capitolo, come nel primo, c’è tutto ciò che vogliamo sapere, tutto quello nella memoria di chiunque abbia sentito parlare dell’Odissea, i mangiatori di loto, Circe, Eolo, la discesa nell’Ade, l’isola di Calypso, le sirene ingannatrici, Scilla e Cariddi, le tempeste fragorose, l’isola felice di re Alcinoo e dei discendenti di Poseidone. Ma prima di tutto questo, prima degli attributi canonici di questo pezzo imprescindibile di epica greca, c’è il sentimento umano più reale, nostalgico e commovente, quello legato agli affetti, al proprio piccolo mondo disperso in un oceano di avversità che ci spaventano. E se anche si è favolosi, invincibili regnanti, guerrieri impavidi rivestiti di bronzo, il cimiero al vento e la lancia tesa alla brezza dell’Egeo, si è sempre piccoli uomini al cospetto di un Fato inesorabile. La piccolezza del volere singolo traspare dalle pagine di questo romanzo come quelle del testo originale, ci appare con evidenza e tenta di spiegarci anche come la forza, la tenacia fisica e mentale riescano a vincere qualsiasi tipo di ostacolo. Poco importa che queste avversità siano create da Poseidone, il dio supremo dei mari, invidioso di un uomo dalle infinite qualità, che porta un nome, Odysseo, che ispira l’odio altrui. Importa l’insegnamento cruciale del “non arrendersi” in ogni più cruda circostanza atta a metterci alla prova. E’ questo che un grande viaggio, forse IL grande viaggio, mira a trasmettere. E lo fa, in questo romanzo piacevole privo di inutili anacronismi, con il grande fascino che solo le ombre di un passato ancora più leggendario possono avere. Un trascorso mitologico che gli stessi protagonisti, successivi alla generazione dei grandi Argonauti, sentono gravare come una incedente eredità sulle proprie spalle, nel tentativo ultimo di emulare la nobiltà e il coraggio dei padri che costruirono il loro mondo a fianco degli dei. E anche questa velata malinconia che racconta la fine degli eroi supremi e invincibili come Eracle e Achille, questa amarezza che vede finire nella cenere quelli che furono gli astri splendenti di imprese senza oblio, partecipa all’architettura pregevole che regge la rievocazione di Manfredi. Tutto contribuisce a rendere questo volume e quello precedente dei romanzi godibili, in cui la terminologia garbata e “in stile” si mescola con grazia agli spezzoni tratti dai testi omerici, paletti storici che come occhi benevoli fanno spaziare lo sguardo sul nostro mondo e sul nostro modo di raccontare una vicenda che rimarrà nelle nostre memorie.
Il valore potenziale dell’opera in questione, indipendentemente dalla qualità, dalla godibilità e dall’accuratezza, è particolarmente importante. Il merito di queste trasposizioni è infatti cruciale a livello divulgativo, nel suo recondito tentativo di portare ad un pubblico meno accademico, meno sofisticato, la bellezza senza fine di una storia che altrimenti rimarrebbe inesplorata a causa della complessità del testo greco e delle sue traduzioni. E’ uno di quei romanzi che fa leggere, e, nonostante tutto, in tempi come questi non c’è libro che abbia più valore di quello che instilla nel lettore, o in chi lo diventerà, la voglia di imparare, conoscere, appassionarsi e infine ringraziare chi è stato tanto benevolo da indirizzarci sulla giusta via per la nostra Itaca del sapere.
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