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Troppa carne al fuoco
“L’isola dei monaci senza nome” narra le vicende del giovane Cristiano d’Hercole, figlio di una donna cristiana e di un pirata musulmano, che passa per essere custode di un segreto in grado di mettere in crisi la cristianità. Il giovane ignaro sarà edotto dal padre Sinan solo al momento della morte di quest’ultimo, durante un’incursione volta a rapirlo. Egli abbandona il nome cristiano, torna alla vecchia religione e si imbarca alla ricerca del segreto paterno, animato più da vendetta che altro, legato volente o nolente a grandi nomi storici e alle tensioni fra Occidente e Oriente.
Chi sarà il primo ad arrivare al grande segreto, al Rex Deus? Riuscirà il giovane Sinan ad avere la sua vendetta e l’amore della bella Isabel de Vega, della quale è invaghito?
Purtroppo, quando un genere invade il mercato, decidere di scrivere un romanzo che appartenga a quella famiglia diventa rischioso. In primo luogo, avviene un’inflazione dei temi portanti che già di suo può condurre a noia il lettore assiduo. In secondo luogo, la prevedibile comparazione con altri romanzi dello stesso genere chiede un livello qualitativo medio-alto per poter soddisfare gli appassionati.
Simoni non raggiunge questo risultato. La sua proprietà di linguaggio non basta a mascherare la scarsa profondità dei personaggi e la pretestuosità della trama, che diventa un coacervo di rimandi ai temi più inflazionati del mistero storico: i Templari, il Sator, le sette segrete, i catari…
Tutto ruota attorno a questo “segreto”. Veniamo catapultati nelle sue spire fin dal principio, senza introduzione, senza possibilità di trovare più aree di interesse nella nostra lettura. Tutto e tutti si muovono in funzione del segreto che distruggerà dalle fondamenta la religione cristiana. La cosa riesce a farsi un tantino snervante già dopo cinquanta pagine, perché i continui rimandi con frasi a effetto lasciano comunque il lettore all’oscuro in un continuo stuzzicare senza offrirsi, come una carota che continui a oscillare davanti al nostro naso: tentiamo di morderla finché non cominciamo a perdere interesse.
La prosa di Simoni è stilisticamente molto buona, chiara e precisa. E’ la sua capacità narrativa che presenta delle pecche. I suoi personaggi sono molto bidimensionali. Ci vengono presentati sotto una certa ottica, mossi da determinate intenzioni e guidati da sentimenti ben precisi, e tali rimangono per tutta la durata del romanzo. Non ci sono parentesi che possano creare un’affezione verso coloro di cui si seguono le avventure e manca totalmente una crescita psicologica che conferisca loro maggiore spessore. Il giovane Cristiano/Sinan passa in poche pagine da insicuro figlio adottivo del Signore di Piombino a spietato corsaro vendicativo, uso a ogni arma, alla navigazione e all’arte dell’intrigo come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita.
Inoltre l’erudizione storica dell’autore si manifesta nel modo peggiore, vale a dire con una sequela ininterrotta di termini specifici inerenti l’arte della navigazione, l’abbigliamento, le armi e le istituzioni religiose e di governo che possono risultare ostiche al lettore medio e non danno nulla di più alla storia in sé, conferendole anzi una certa aria da saggio storico non particolarmente piacevole. Non vi sono descrizioni chilometriche, questo no, ma il tono complessivo dà l’idea di rivolgersi a un pubblico con un elevato livello di istruzione umanistica, contrariamente al tema e alla promozione della casa editrice, pensata invece per la massa.
Un romanzo d’avventura non particolarmente riuscito.
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