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Dal gioco alla realtà
Ormai non sono pochi i romanzi che ho letto di questo autore, opere che, per la loro struttura, possono apparire storiche, biografiche e di pura creatività, senza che tuttavia sia possibile identificare esattamente ognuno di questi tre aspetti, essendo fusi, compenetrati l’uno all’altro in modo del tutto perfetto.
Eppure, le vicende istriane, le descrizioni di questo territorio ai margini orientali del confine italiano appaiono sempre in una luce viva, propria di chi là ha vissuto per poi preferire espatriare, con impressa tuttavia una nostalgia che di volta in volta si fa malinconia e addirittura dolore.
Questo terzo romanzo di Tomizza è ovviamente ambientato in Istria e si svolge nel corso della seconda guerra mondiale, all’incirca dai giorni immediatamente antecedenti l’8 settembre 1943 fino alla fuga dei tedeschi, incalzati dall’avanzata degli alleati e dei partigiani titini.
E’ un periodo insolito, perché agli inizi la guerra è ancora lontana, per poi apparire improvvisamente e sconvolgere un microcosmo di gente che ha sempre vissuto in un’immobilità temporale, proprio della civiltà contadina, pur nell’avvicendarsi
di dominatori. E per quanto le etnie siano così diverse, resistono in un equilibrio, per quanto fragile, ma cementato dal comune destino, dal ricorso a un plurilinguismo, da un reciproco rispetto di cui si perderà la memoria con l’avvento del regime del maresciallo Tito.
Di quest’uomo nel libro si accenna appena, è presente, ma è pur lontano, una novità di cui si avvertono forse i pericoli, ma che in quel periodo è solo una lontana eco, perché ciò che veramente preoccupa è l’occupazione tedesca e con essa il volto tragico e disumano di un conflitto bellico di cui in precedenza c’era stato solo un vago sentore e magari qualche segno doloroso, come il ritorno di un reduce privo di entrambe le gambe.
In questo contesto i ragazzini giocano alla guerra, quasi temono di non prendervi parte, tanto è lontano il rombo dei cannoni, ma poi l’orrore arriverà a toccare anche quei luoghi, romperà fili intessuti da uomini che avevano trovato nella loro diversità un motivo per convivere in pace. E dopo non sarà tutto più come prima, si spezzerà un incantesimo e la protervia e la ferocia dell’occupante tedesco martorierà quelle genti, troncherà quell’immobilità sopravvissuta ad altre guerre, invariata nei secoli, determinando gli inizi della fine della civiltà contadina.
E’ strano come, al riguardo, anche nei romanzi di un altro grande scrittore, Ferdinando Camon, sia il tallone germanico a recidere radici, a scuotere alle fondamenta una comune esperienza di vita che aveva resistito inossidabile fin da epoche remote.
E se la chiave di lettura di La quinta stagione può essere molteplice (romanzo di formazione, per quanto la guerra non abbia nulla di formativo, storia di una comunità, che poi non sarebbe mai stata più quella, valore dell’amicizia, un affratellamento che fa maturare) non occorre dimenticare la bellezza delle descrizioni, la semplicità di riti primordiali quali il corteggiamento contrapposta alla solennità di una natura che per dare pretende tutto, la crudele tensione di un conflitto e alcune pagine che raggiungono, sempre senza enfasi, vette sublimi.
Tomizza ancora una volta è riuscito gradualmente a trasmettermi visioni e sensazioni a cui è impossibile resistere e giunti all’ultima pagina ci si accorge che questo territorio lontano è ora assai più vicino, impresso com’è dentro la memoria.
La lettura è indubbiamente raccomandata.