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Il Risorgimento tradito
“Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo… ”.
Mi piace leggere, un po’ di tutto e, se quasi sempre preferisco andare sul sicuro, non è infrequente che la mia scelta avvenga a caso, sotto l’effetto di un titolo che sembra suonare bene o di una copertina che attrae.
In questi casi sono sovente sfortunato, cioè mi imbatto in opere o che poi non mi interessano, oppure che si rivelano di modesta qualità. Non è questo il caso di Noi credevamo, il cui titolo mi era rimasto in mente in quanto omonimo di quello del film di Martone, che appunto è basato su questo romanzo di Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, abile traduttrice e anche scrittrice di opere i cui protagonisti sono quasi sempre femminili, come nel caso di Artemisia, la vita della pittrice Artemisia Gentileschi.
Noi credevamo…è così che termina il libro con l’ultima delle 344 pagine contrassegnate da uno stile elegante, raffinato, con un linguaggio elaborato più comune nel XIX secolo, a volte anche arcaico, con una lentezza misurata che non stanca e serve meglio a comprendere le riflessioni del protagonista, con parole ricercate, che sembrano pesate con il bilancino, perché ogni verbo, ogni sostantivo, ogni aggettivo non sono lì per riempire il foglio, ma sono messaggio, comunicazione, voce silenziosa da ascoltare e da approfondire.
Il racconto è in prima persona ed è quello del protagonista, Domenico Lopresti, nonno dell’autrice, mazziniano e garibaldino. È questi un personaggio complesso, ma che a ben guardare riflette la naturale condizione umana. Da vecchio, deluso dalla vita, è ipocondriaco, detesta tutto e tutti, compresi i familiari.
Non ama l’idea di un memoriale, ma deve scriverlo per capire dove ha sbagliato, se ha sbagliato, e in fondo per fare un ultimo definitivo bilancio della propria esistenza, ora che l’ultima stagione è prossima alla fine.
Regna l’amarezza, propria di un uomo che ha ben compreso che non è riuscito nella missione che si era proposto, e cioè dare vita a una Patria moderna, abitata da gente animata da una nobile e salda identità collettiva. Per Domenico il risorgimento è stato un tradimento e per quanto concerne il Regno delle Due Sicilie si è trattato di un semplice travaso di poteri, dai Borboni ai Savoia, sempre monarchi conservatori da cui nulla di positivo usciva, né sarebbe mai uscito.
Per questo ideale Domenico ha sacrificato tutto, ha trascorso lunghi anni nelle durissime carceri borboniche, e pur vacillando più volte la fede nella sua missione, è sempre stato poi pronto a ricominciare, indomito fino all’ultimo.
E che sia rancoroso, soprattutto con se stesso, è quindi ben comprensibile.
In questo romanzo ci sono anche personaggi, fra i tanti, indimenticabili come il carceriere Gennaro, l’aristocratico Castromediano, la cognata Cleo, una sognatrice come Domenico, anche se più d’impronta romantica, il prefetto Cornero, ma tutte sono figure che, come il protagonista, si agitano sulla scena della vita come marionette i cui fili sono tirati dal destino, in un garbuglio di cui crediamo di conoscere il filo libero, ma è un’illusione, andiamo dove il vento celeste ci spinge.
Domenico sembra dirci che è inutile che crediamo di tracciare il sentiero dei nostri passi, perché non è possibile, perché questo è già segnato prima ancora che veniamo al mondo.
Noi credevamo è sicuramente un romanzo stupendo, uno di quelli che una volta letti si è spinti irresistibilmente a rileggere nuovamente.
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