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Un sogno di eternità
“E’ labile, il confine tra i sogni e i ricordi. L’immaginazione è come una grossa pianta di edera che si arrampica lungo i muri di una casa e giorno dopo giorno, in tenace, silenzioso lavorio, si propaga sino a trasformare l’edificio in qualcosa di completamente diverso. Quella casa è la nostra memoria, destinata a una modificazione perenne, così lenta da risultare impercettibile e così inarrestabile da risultare fatale. Ogni volta che rievochiamo il passato, involontariamente concimiamo l’edera vorace: anziché portare alla superficie i ricordi, rinvigoriamo il parassita che sbocconcella, insieme agli intonaci, la verità.”
Montefalco è anche oggi un piccolo paese, famoso soprattutto per la sua splendida vista sulla pianura del Topino e del Clitunno, al punto che si è meritato l’appellativo di ringhiera dell’Umbria.
Come tutti i piccoli borghi italiani ha numerosi monumenti e chiese, fra le quali quella di Sant’Agostino, lungo il corso principale, in cui sono conservati i corpi delle Beate Chiarine e del Beato Pellegrino. Ed è di quest’ultimo che ci parla Fiorella Borin con questo affascinante romanzo, frutto di un miscuglio di diversi generi letterari, da quello storico a quello filosofico-religioso, dal fantasy alla commedia, non tralasciando il sentimentale e il comico.
L’originalità, quindi, non manca di certo e mi sento di poter dire che l’autrice ha profuso a piene mani le sue doti artistiche fino a concretizzare una grandiosa opera sinfonica, in cui sono presenti spunti rossiniani, svolazzi mozartiani, ma anche richiami a note più tenui proprie di Tchaikosvsky. Così, partendo da una leggenda sorta intorno a un pellegrino morto durante la preghiera nella chiesa di Sant’Agostino, Fiorella Borin, pur non distaccandosi dal filo conduttore della stessa, imbastisce un racconto che al suo interno ne contiene altri, pur se non indipendenti, e relativi a personaggi, di assoluta fantasia, funzionali alla storia stessa. E al di là di queste vicende, più o meno interessanti, quel che conta è la caratterizzazione dei protagonisti, che, usciti dalla penna, sono tanto reali da sembrare veritieri, cioè esistiti veramente.
In particolare c’è la figura di frate Aurelio, il monaco lettore, che con la sua naturale simpatia muove anche al riso, stemperando così la tragica vicenda di un amore, casto e puro, troncato prima del tempo dalla cattiveria degli uomini. Al riguardo, se la storia del pellegrino spagnolo - a cui viene anche dato un nome, anzi il primo di una lunga serie (José) - e di Giulia, la sua ragazza e poi sposa, muove a una nota malinconica di fondo, che è sempre presente in tutti i lavori della Borin, è pronto il riscatto con eventi quasi esilaranti.
Di protagonisti ce ne sono tanti, ognuno ben caratterizzato, in un intreccio che li vede comparire sulla scena in una sorta di carosello che li alterna argutamente al fine anche di divertire:
la iettatrice Gesuina, il tonto Marcuccio (ma poi non lo è così tanto), la barbuta Tommasina, l’aitante Roccioso perseguitato dagli uccelli, e tanti altri, che appaiono, scompaiono e ancora riappaiono, un mosaico di personaggi che sarebbero certamente piaciuti a Italo Calvino.
Ma non si ride soltanto, perché filo conduttore resta la storia della relazione fra José e Giulia, un’unione fatta di pennellate sfumate, di un sentimento etereo che sembra volare in cielo e che tocca l’animo, commuove, ci fa riflettere sull’autentico significato della parola amore.
Sono pagine di grande pathos, ma non ostentato, costruito con pazienza per farlo assimilare con gradualità, nel pieno rispetto del lettore che, se vorrà essere partecipe attivo, ritrarrà poi un rimescolamento interno, una riemersione di quel naturale senso di pietà spesso soffocato e che, provato, conduce a trovare un’insperata serenità.
Il libro, quindi, è molto bello, si legge bene e con piacere ed è per questo che lo consiglio caldamente.