Dettagli Recensione
L'assedio di fort Apache
Se Pansa voleva scrivere una sorta di Via col vento ambientato nel periodo della Resistenza e della guerra civile, leggendo “I tre inverni della paura”, pare di notare che gli sia riuscito piuttosto di comporre una sorta di saga dell’assedio di Fort Apache.
Tutto il romanzo infatti è incentrato non solo sul personaggio femminile di Nora, ma anche nel posto in cui lei si rifugia: la sua villa di campagna, assediata da una serie interminabile di delitti e ritorsioni che perdurano durante e dopo la fine della guerra e di cui anche lei, alla fine, risulta vittima.
L’autore alla fine, pare che la voglia far morire per forza, inevitabilmente, come se fosse l’ennesima ed ultima vittima sacrificale dell’odio vendicativo rosso che non si placa nemmeno dopo che il Migliore,il gran capo, si è scomodato personalmente per dire a tutti che la stagione del sangue che nevica o scorre a fiumi, deve finire.
La cornice descrittiva e letteraria in questo romanzo ci appare piuttosto debole, almeno rispetto agli intermezzi storici con cui Pansa riprende molte delle storie già raccontate in precedenza nei suoi libri più famosi come “Il sangue dei vinti”, “Sconosciuto 1945” o “La grande bugia”. Il pezzo forte del romanzo sono infatti le narrazioni che riprendono eventi già in parte noti ai suoi lettori e che però, attraverso la chiave narrativa dei personaggi che, volta per volta si avvicendano animando il microcosmo che ruota intorno a Nora: la protagonista, trovano un più denso spessore espressivo.
Ciò che manca però in maniera evidente è una ricerca introspettiva sulla controparte, quella dei “cattivi” che sono sempre e comunque descritti come “brutti e sporchi”, senza alcuna analisi dall’interno della loro personalità o delle loro motivazioni, tutte accomunate nel gran calderone dell’odio ideologico di classe, denso di livore e preconcetto, fino al scadere nella pura criminalità estorsiva. Quasi fossero stati tutti antesignani di Al Capone anziché, come molti furono, sostenitori di una parte politica importante che contribuì validamente alla nascita della nostra democrazia e alla stesura della Costituzione. Sinceramente la descrizione di Margaret Mitchell dei nordisti e dei loro eccidi, ci appare molto più convincente e realistica, oltre che efficace.
E’ comunque un libro che si legge volentieri, forse meglio se non si è mai letto alcuno dei precedenti, e che comunque non va certo confuso con il capitolo della genesi della bibbia del vero democratico
Pansa dice di non capire chi demonizza la storia ma in questo romanzo, forse più che con gli altri, mi pare francamente che abbia lui demonizzato a rovescio la storia, dipingendo un quadro senza toni chiaroscurali, dove i buoni stanno tutti da una parte e i cattivi non escono mai dalla loro.
E guarda caso, i cattivi oltre ad essere brutti e sporchi sono sempre dipinti da Pansa come poveri, anzi, miserabili e per di più, rancorosi.
Un romanzo che appare stilisticamente scorrevole, asciutto, espressivo, ma un po’ monocorde e melenso, specialmente quando insiste nel celebrare le buone virtù del bel tempo andato della borghesia agraria della bassa padana. E poco o nulla racconta della miseria e della dignità dei poveri, se non quando, un po’ scodinzolando, si mettono al servizio dei loro padroni.
Neanche il bell’eroe morto in Russia si pone il problema di avere invaso un paese in cui i nazifascisti hanno fatto terra bruciata con milioni di morti, specialmente nella popolazione civile.
Insomma un romanzo che ci appare scritto un po’ in fretta, e che sicuramente andava meditato di più, lasciando maggiore spazio e respiro alla narrazione letteraria e poetica, all’intreccio, al paziente lavoro introspettivo, e che rischia invece di scadere a tratti nel fumettistico, specialmente nelle descrizioni degli ambienti famigliari.
Eroe anche lui perdente, un po’ come tutti, è Nelson che alla fine sposa Nora, pur avendo come ideale solo quello di poter concludere buoni affari, un sostanziale maneggione, anche se tutto d’un pezzo, che rappresenta sicuramente l’emblema di un’Italia che si salva sempre e comunque pensando gli affari propri, anzi, anteponendoli a tutte le bandiere.
Pansa pur non capendo come la storia si possa ridurre ad uno scontro tra “angeli” e “diavoli”, nella sostanza, ce la ripropone così, solo che i diavoli sono, nella sua prospettiva, cromaticamente più convincenti: tutti rossi, brutti, sporchi e cattivi.
Anche questa in fondo è una notte dove tutte le vacche sono rosse anziché nere, e producono sangue ed odio pastorizzato.