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Lo Stato è lontano
Nel corso della lettura delle prime pagine viene istintivo un accostamento a Fontamara, il bellissimo romanzo di Ignazio Silone. Stessa è la miserabile condizione di indigenza trattata, anche se i luoghi sono diversi (là la Marsica, qua la Lucania), identica è l’attività di sostentamento dei protagonisti (là contadini, come qua), uguale è il profondo senso di scoramento, quel sentirsi lontani dallo Stato visto come un’entità oscura e quasi sempre vessatoria. Eppue le differenze ci sono e appaiono notevoli, a iniziare dalla narrazione, poiché se Fontamara è un romanzo con una trama simbolica, Cristo si è fermato a Eboli è un’autobiografia, limitata a un determinato periodo, tale da essere considerato dall’autore un’autentica rivelazione. E poi non occorre dimenticare la diversa estrazione sociale degli scrittori, con Ignazio Silone (all’anagrafe Secondino Tranquilli) rimasto quasi senza famiglia a seguito del terremoto che colpì Avezzano nel 1915, quindi parte della stessa gente che così mirabilmente descrive nel suo romanzo, un grido di dolore di un oppresso fra gli oppressi.
Carlo Levi, invece, borghese torinese, costretto a dimorare nel luogo della sua opera come confinato dal regime fascista, coglie lo stupore che gli ingenera lo scoprire una situazione di arretratezza economica e di emarginazione sociale che gli erano sconosciute, e lo fa dapprima quasi con riluttanza, poi con sempre più viva partecipazione al punto di riconoscere in quei reietti dei sentimenti di umanità, delle capacità di accoglienza, nonostante vi imperi l’ignoranza e la superstizione.
In entrambi i casi Ignazio Silone e Carlo Levi portano alla luce, nella sua drammaticità, la questione meridionale, una vasta parte dell’Italia così dissimile dall’altra, così abbandonata da apparire staccata, una propaggine importante, ma lasciata allo sbando, arretrata economicamente e socialmente, un luogo sulla carta geografica e nulla più.
Il contrasto fra il settentrionale, agiato, medico torinese e una realtà del tutto imprevedibile palpita nelle pagine, dotate di una dinamicità in contrasto con la staticità di quel mondo, abbandonato da tutti e perfino da Cristo, che oltre Eboli non è andato.
La fatica del vivere quotidiano, la tediosità di una situazione senza speranza, l’ignoranza sempre presente, unita alle superstizioni che accomuna quei diseredati alle pochè autorità (podestà, medici, farmacisti), ma soprattutto quel sentirsi lontani anni luce dallo stato, da questa istituzione sconosciuta e anzi vista con timore, come un Moloch che pretende sempre di più senza dare, sono descritte in modo mirabile da Carlo Levi.
Certamente per lui è una sorpresa scoprire questo mondo, di cui all’inizio anche diffida, ma poi, nei quotidiani contatti con la gente - fra cui indubbiamente critici quelli con il ceto borghese, non poco responsabile della situazione –, riesce a cogliere le virtù difficilmente percepibili a prima vista di questi vinti, si entusiasma, diventa partecipe dei piccoli e grandi fatti della comunità, finisce con il ritenere la sua condizione di confinato non tanto una condanna, ma un incidente di percorso, di fronte all’eterna condanna di un popolo senza patria.
Ci sono pagine che, pur nello stile elegante e non certo enfatico, muovono alla commozione, altre che fanno gridare di rabbia, come la descrizione di Matera che gli fa la sorella che è venuta a trovarlo. Abitazioni primitive in un mondo primordiale, una necropoli in cui si consumano esistenze che portano la fatica di esserci, i “Sassi” sono la realtà e l’emblema di una condizione, di un tempo che sembra fermo agli albori dell’umanità, senza cambiamenti, in un’infinta disperazione che si trascina di padre in figlio.
Levi sa cogliere anche nelle sfumature la tragedia di un mondo immobile e arretrato, dove tuttavia palpitano sentimenti, riescono anche a nascere gioie fra tanto dolore, e così quei cafoni, osservati dapprima con preconcetti borghesi, poco a poco diventano gli eroi di un’umanità derisa, calpestata, ma pronta a tendere la mano, a dividere il poco cibo e ad accogliere quel medico con la passione per la pittura, giunto da lontano, da un mondo che non conoscono e neppure immaginano.
Terminato il confino l’autore ripartirà per la sua città d’origine, con la promessa di ritornare fra quella gente che ora sente vicina a sé con il calore dell’affetto. Non sarà però così, ma Levi non verrà comunque meno all’impegno. Infatti, giace fra tanti illustri sconosciuti, nel cimitero di Aliano, quel paese la cui gente lo ha così toccato nel cuore.
Il romanzo, uscito nel 1945, incontrò subito un enorme successo, con diffusione in tutto il mondo e ha avuto anche una trasposizione cinematografica con la regia di Francesco Rosi e l’interpretazione di Gian Maria Volonté, Alain Cuny, Lea Massari e Irene Papas.
Cristo si è fermato a Eboli è una di quelle opere che lasciano un segno profondo nel lettore, che toccano nell’animo e invitano a riflettere, un romanzo che è impossibile dimenticare e che ogni tanto, ancor oggi, mi torna alla mente in certe sue pagine di struggente bellezza, emozioni e sensazioni che solo un capolavoro può dare.