Ricordi dal sottosuolo
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FEDOR E LE NEUROSCIENZE
Con largo anticipo sulle teorie che Freud enuncerà 30 anni dopo, il grande maestro russo sforna negli anni della sua maturità artistica un potente romanzo psicoanalitico di straordinaria originalità e modernità.
L’originalità è già nella struttura del romanzo che, soltanto a prima vista, può apparire squilibrata. Il libro si apre con un lunghissimo prologo che si estende per quasi metà del testo per poi dar spazio alle “memorie” vera e proprie. Il prologo appare come una autentica seduta di autoanalisi in cui scrittore e personaggio narrante si identificano.
Il tema sempre caro a Dostoevskij della contrapposizione tra bene e male, qui si fa assolutamente soggettivo e si colora di un’analisi psicologica senza precedenti. Alla visione positivista dell’uomo artefice del proprio destino e naturalmente guidato dalla razionalità verso il bene suo e del prossimo, Fedor contrappone la sua personale verità di individuo sottoposto a pulsioni recondite ed inconsce, forze naturali che determinano le nostre scelte al di là di ogni ragionamento logico. Solo lo stolto, nella “beata” ignoranza della propria realtà sub-conscia, può illudersi di agire per un bene razionalmente inteso ed in quanto tale collettivo. Paradossalmente soltanto lo stolto potrà “fare cose”, agire, raggiungere l’agognato quanto risibile successo sociale.
L’uomo consapevole invece (e lo scrittore si dichiara tale), vede l’inazione come inevitabile conseguenza della propria irrazionalità. Egli sa’ che per soddisfare il motore primo dell’agire umano, l’inconscio appunto, a nulla serve la “buona opera”. Quel motore, quasi belva famelica, si nutre di sopraffazioni, di vendette, di sgambetti e soprusi, di ogni forma di malignità insomma e trae godimento dal processo più che dal risultato. Nell’incipit del romanzo, il narratore presenta se stesso come “uomo malato … astioso. Un uomo malvagio”, ma senza alcuna condanna moralistica bensì con la consapevolezza del costante prevalere delle forze irrazionali nel proprio agire e con esse del caos rispetto all’ordine, della distruzione rispetto alla costruzione. Va da se’ che l’uomo consapevole sia destinato oltre che ad una inevitabile emarginazione sociale, ad un perenne stato di infelicità e frustrazione rancorosa.
Da qui hanno inizio le Memorie vere e proprie. Siamo in presenza di un anti-eroe ancor più sofferente di quanti, numerosi, popolino lo sconfinato universo Dostoevskiano. Un piccolo impiegatuccio squattrinato, svogliatamente occupato in qualche ganglio della sconfinata macchina burocratica russa, che osserva dal suo “sottosuolo” il ridicolo e meschino affaccendarsi di uomini e donne vacui, non riuscendo peraltro a rimanere indifferente alle regole non scritte di quel mondo futile.
Così, ad un pomposo ufficiale reo di averlo offeso con la sua superba indifferenza, il nostro protagonista non trova di meglio che reagire con una goffa e titubante spallata mentre passeggiava sul Nevskij a Pietroburgo: grottesco atto “rivoluzionario” cui affidare un riscatto che inevitabilmente resta frustrato.
In seguito, incontrati alcuni ex compagni di scuola, avverte un masochistico desiderio di unirsi al gruppo (ancora quel maledetto inconscio!) malgrado il disgusto che in lui suscitano le vanaglorie e le spacconate di quei giovani perfettamente inseriti nella società. Frustrato e deriso da questi, si ritrova a smaltire la sbornia nella stanza di una prostituta. La giovane, con la sua carica di umanità, avrebbe forse potuto aprire uno spiraglio di luce in quella esistenza rancorosa. Eppure il protagonista e narratore, in preda a quella irrequietezza che probabilmente turbava Dostoevskij stesso, non trova di meglio che torturare psicologicamente la ragazza, pentirsene temporaneamente salvo infine cedere a quel piacere assurdo di veder umiliata la povera malcapitata. Il tutto in un angoscioso alternarsi di sentimenti malvagi e benigni estranei a qualsivoglia logica.
Memorie dal sottosuolo è un capolavoro straordinariamente coraggioso e moderno. Lo scrittore non esita a mettersi a nudo in una analisi introspettiva assolutamente senza freni. In queste pagine echeggiano concetti che sembrano preludere alle più recenti scoperte delle neuroscienze.
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L'ultimo avamposto degli uomini
Il Genio della letteratura mondiale, si diverte a scavare con cura e meticolosità la personalità disturbata e disturbante, di un essere che semplicemente ha deciso di non accettare la società per quella che è nella sua superficialità e meschinità e con noncuranza si rifugia in un sottosuolo di pensieri ed azioni, con la speranza di isolarsi per sempre da una vita tediosa ed impossibile da sopportare.
Una delle maggiori capacità di questo immenso scrittore è proprio quella di riuscire a sezionare l'animo dei protagonisti dei suoi meravigliosi racconti o romanzi. Portare allo scoperto cosa si cela dietro le azioni dei vari personaggi che popolano la sua immensa opera.
E' un libro minore questo, della sua produzione, ma non in un senso negativo, ma solo per il fatto che davanti non avrete dei tomi infiniti come i "i Fratelli Karamazov" o "i Demoni", bensì un opera abbastanza breve, ma grandiosamente densa.
Forse uno dei più accurati viaggi introspettivi nella psiche di un uomo che vive una vita parallela alla società, dove non ci è possibilità di lieto fine.
Un essere tormentato dal fatto, che ha preso consapevolezza dell'immane distanza che vi è fra i suoi ideali di bellezza e la cupa, ingorda realtà che lo circonda, popolata da ex-uomini (termine meraviglioso che mi permetto di rubare a un racconto di un altro illuminato scrittore della Santa Madre Russia dell'800, Maksim Gor'kij) che vivono o meglio sopravvivono cercando di arrecarsi più male possibile, sognando sempre una vita migliore, che desiderano sopraffare il prossimo per il proprio tornaconto personale e che in definitiva fin quando non torneranno alla terra, si arrabattano come possono per dare un senso alla miserevole esistenza che conducono.
Il protagonista decide che è arrivato al segno, che così non è proprio il caso di continuare a campare. Lancia la sua sfida alla società, ben consapevole che ne uscirà schiacciato.
Il libro si divide in due parti, strettamente legate fra loro.
Sono gli albori della concezione nichilista della realtà, dove tutto è permesso, poichè nulla ha un senso. E' tutto così ridicolo che allora ognuno di noi è libero di operare come meglio crede.
Vengono negati i concetti e i principi religiosi e politici, poichè essendo concepiti dagli uomini, hanno in se già il germe del loro fallimento, della loro ipocrisia, della loro meschinità.
Le persone sono viste come appunto degli ex uomini, che per il loro tornaconto, la vanagloria, la superbia sono capaciti di ogni cosa. La storia si scrive sul sangue dei vinti e il nostro protagonista decide di vendere cara la pelle, di non abbassare la testa davanti alla stupidità, l'ignoranza, l'avarizia umana della gente. Cerca un po di poesia, di speranza nel tedio quotidiano che lo circonda e quando alla fine capisce che non c'è rimedio, sprofonda nella sua coscienza, si chiude in se stesso, scava nel sottofondo finendo per auto seppellirsi e con sommo godimento si porta a braccetto il lettore che ha avuto la compiacenza di seguirlo in questo sprofondare negli inferi della mente e del corpo.
E' un picaro, un ossesso, un sognatore, osserva le stelle rinchiuso nelle gelide mura domestiche.
E poi come ultimo gesto disperato, come il naufrago che agonizzante sta per essere risucchiato dalle acque melmose cerca un oggetto che non esiste a cui aggrapparsi, decide di innamorarsi di una ragazza di vita anch'essa ai margini, ma egli sa che questo suo ultimo folle gesto non è che l'infamante estremo atto di una vita errabonda, viziosa, corrotta dal germe della follia.
Il sottosuolo è l'ultimo avamposto ove riparare, cercare pace. Difendere quell'ultimo sotto strato di libertà con tutte le proprie forze per ribadire a se stesso di essere, a proprio modo, ancora vivo.
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Il sosia
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Siamo nati morti
Un protagonista senza nome narra in prima persona il suo malessere nei confronti del mondo che lo circonda. Per sua stessa ammissione il racconto non è destinato ad alcun lettore se non a se stesso, come se mettere per iscritto i suoi pensieri, i suoi ricordi, i suoi sentimenti fosse un mezzo per aiutarlo a far chiarezza nella sua mente. Si definisce un chiacchierone, un chiacchierone innocuo e molesto, capace di scherzi di cattivo gusto, ineguali, incoerenti, poco convinti. Un uomo intelligente ma senza alcun rispetto per se stesso, perché nessun uomo veramente cosciente può avere il minimo rispetto di sé. La sua superiorità intellettuale lo induce a disprezzare l'uomo comune, quello felice e attivo in quanto stupido, pur non potendo fare a meno di invidiarlo. Eppure non vorrebbe mai diventare come lui, prova nei suoi confronti un rancore fortissimo, preferisce restare nella sua inattività, nel suo mondo parallelo, nel suo "sottosuolo". Trova l'uomo comune una "creatura bipede e ingrata" che ha i suoi peggiori difetti nell'intemperanza e nell'irragionevolezza. La società creata da questo essere spregevole non è altro che "un edificio di cristallo eternamente incorruttibile". "Ridete pure; io accetterò qualsiasi derisione e tuttavia non dirò che sono sazio, quando ho fame; tuttavia so che non mi accontenterò di un compromesso, di un infinito zero periodico, solo perché esiste secondo le leggi della natura ed esiste veramente. Non prenderò per il coronamento dei miei desideri un casermone di appartamenti per inquilini poveri, con contratto per mille anni e con il dentista Wagenheim sull'insegna, per ogni evenienza. Annullate i miei desideri, cancellate i miei ideali, mostratemi qualcosa di meglio, e io vi seguirò. Voi, magari, direte che non ne vale neppure la pena; ma in tal caso anch'io posso rispondervi lo stesso. Stiamo ragionando seriamente; e se non volete degnarmi della vostra attenzione, non starò a pregarvi. Io ho il sottosuolo". Il sottosuolo in questione non è un luogo geografico. È una condizione esistenziale, uno stato d'animo, un modo di essere. È un rifugio per sfuggire a ciò che lo circonda. È un mondo dominato dall'inerzia, dalla pigrizia, dall'apatia, tuttavia preferibile al mondo reale in cui la felicità è subordinata alla ricchezza, l'operosità è la maschera con cui si cela un'ineluttabile stupidità, la volontà è dettata dalla convenienza più che dalla ragione. Eppure ci ha provato ad essere come gli altri, ad integrarsi con la società, ad accettare il mondo. I suoi tentativi sono però miseramente falliti. Ha provato a fingersi innamorato pur non provando amore, riuscendo a soffrire pene reali per un sentimento simulato. Ha provato a fingersi arrabbiato, indignato per gesti che avrebbero dovuto offenderlo ma che lui vive con freddezza, nei confronti dei quali cerca improbabili vendette. A nulla è servito tutto ciò. Allora basta, per lui non c'è niente all'infuori del sottosuolo. "Per quel che poi riguarda me personalmente, nella mia vita ho solo portato alle estreme conseguenze ciò che voi non avete osato condurre neppure a metà, prendendo oltretutto per buon senso la vostra viltà, e consolandovi così, ingannando voi stessi. Sicché io, forse, ne esco ancor più "vivo" di voi. Ma guardate più attentamente! Se non sappiamo neppure dove abiti, adesso, questa vita, e cosa sia, come si chiami! Lasciateci soli, senza i libri, e subito ci confonderemo, ci smarriremo: non sapremo che partito pigliare, a cosa attenerci; che cosa amare e che cosa odiare, che cosa rispettare e che cosa disprezzare! Ci è di peso perfino essere uomini - uomini con un corpo e sangue vero, nostro; ce ne vergogniamo, lo consideriamo un disonore e ci sforziamo di essere non so che ipotetici uomini universali. Siamo nati morti, e da tempo non nasciamo più da padri vivi, e la cosa ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Presto escogiteremo il modo di nascere da un'idea. Ma basta; non voglio più scrivere "dal Sottosuolo"..."
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Spirito anticonformista
Nonostante sia un cultore di questo illustre romanziere dell'800, avevo fino a poco tempo fa trascurato questo libro essendomi dedicato a opere più importanti che sono diventate pilastri nella letteratura russa. Faccio ammenda per questa mia lieve superficialità cercando di recensire quest'opera di relative poche pagine, se paragonata ad altre, ma di una profondità di riflessione notevole.
Il romanzo è diviso in due parti: “Il sottosuolo”, da indirizzarsi a un monologo in cui l'autore critica, di base, la società dell'epoca (ricordando che siamo nel 1864) e, inoltre, fa una specie di autoanalisi di se stesso in maniera cruda e senza sconti.; e “A proposito della neve bagnata”, inerente alcuni episodi e vicissitudini durante la sua giovinezza.
La prima parte del romanzo è un monologo del Nostro, attraverso il quale fa un'auto-analisi di se stesso e la sua condizione nel coacervo sociale dallo stesso condannata quale epoca superficiale volta al raggiungimento di un benessere effimero e, di conseguenza, ottenere una pseudo-felicità quale palliativo alle condizioni di vita grama della stragrande maggioranza della popolazione. Inoltre il Nostro identifica con il “sottosuolo” la parte inconscia di noi stessi, il nostro “Es” dove sono latenti i pensieri inimmaginabili contro i quali lottiamo affinchè non vengano mai in superficie.
Nella seconda parte, “A proposito della neve bagnata”, vengono narrati accadimenti e vicissitudini che hanno avuto luogo molti anni prima del monologo cui sopra, e si riferiscono a un periodo di relativa giovinezza a cominciare, forse, dai 24 anni; fatti relativi a episodi di rivalsa, di screzio avuti con colleghi facenti parte della complessa macchina burocratica statale del tempo in cui Egli ha preso parte.
Una continua lotta senza quartiere tra il protagonista che non riesce, e non vuole conformarsi, alle regole societarie che tendono a “normalizzare” il suo spirito ribelle e anticonformista.
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LO SCACCO DELLA COSCIENZA
“Io ammetto che due più due quattro è una cosa eccellente, ma se bisogna dare a ciascuno il suo, ebbene, anche due più due cinque qualche volta può essere una cosuccia graziosissima”
Pur non essendo mai stato un filosofo o un pensatore nel senso letterale del termine, Dostojevskij vanta un indiscutibile diritto di cittadinanza nell’area dell’esistenzialismo moderno. I motivi di questa parentela spirituale si possono trovare in tutte le opere maggiori del grande scrittore russo, i temi dominanti delle quali sono appunto la problematicità dell’essere umano, la percezione del carattere precario dell’esistenza, l’insofferenza per ogni costruzione astrattamente intellettualistica, l’irrazionalismo. Dostojevskij si è sempre battuto per rivendicare il valore imprescindibile e irrinunciabile della personalità umana contro ogni tentativo di ridurre il mondo a vuote formule speculative (fossero esse materialiste o misticheggianti), e di questa lotta le “Memorie del sottosuolo” sono, se non il punto più elevato della sua creazione artistica, sicuramente l’opera in cui la polemica anti-razionalistica dell’autore si è espressa in maniera più dura e diretta.
E’ curioso (ma non inspiegabile, come vedremo più avanti) che alfiere di questa ambiziosa contro-ideologia sia un personaggio totalmente, sconsolatamente negativo. “Io sono un uomo malato – si legge, non senza un certo imbarazzato stupore, in apertura di romanzo -, sono un uomo cattivo. Sono un uomo che non ha nulla di attraente”: è una presentazione-confessione masochisticamente sincera, ma ancor più una dichiarazione di principio, con cui Dostojevskij prende le distanze da tutta la letteratura idealizzante che trasforma instancabilmente l’animale uomo in un sublime eroe, e ne scoperchia invece il fondo più meschino e antieroico. Il sottosuolo in cui si muove, pensa e agisce il protagonista è, prima ancora che un ambiente reale e riconoscibile, quel luogo interiore, presente in ognuno di noi, in cui regna l’irrazionale, l’arbitrario, il libito. Come farà più tardi la psicanalisi, Dostojevskij penetra in questa regione inesplorata, scoprendovi il disordine, il caos e la contraddizione. L’uomo del sottosuolo, così, è colui che non si illude di poter soffocare, nascondendola a se stesso e agli altri, questa zona oscura di sé, ma le si abbandona con tragica e sofferta voluttà.
Il sottosuolo non è una scelta, sia pur dolorosa, ma lo stadio estremo di un itinerario psichico che, originato da una naturale aspirazione alla normalità, cioè dal tentativo di inserirsi costruttivamente nella realtà, di armonizzarsi con i propri simili e di espellere da sé antinomie e contrasti, giunge alla graduale consapevolezza che tutto ciò è impossibile e illusorio. A rendere vani questi sforzi e a sprofondare l’uomo nel sottosuolo è una morbosa condizione che Dostojevskij definisce “sviluppo ipertrofico della coscienza”: “Vi giuro, signori miei, che avere una coscienza troppo lucida è una malattia, una vera malattia nel pieno senso della parola. Per i bisogni dell’uomo sarebbe più che sufficiente una comune coscienza umana, e cioè la metà o un quarto di quella porzione di coscienza che tocca in sorte a una persona coltivata del nostro infelice diciannovesimo secolo… Sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza troppo lucida, ma perfino ogni forma di coscienza è una malattia”. La coscienza rende estremamente problematico l’agire, il realizzarsi, il muoversi verso una qualsivoglia direzione, in quanto essa è il luogo in cui si sperimenta l’alternativa infinita dei possibili: “Infatti, per cominciare ad agire è necessario innanzi tutto essere perfettamente tranquilli ed essersi liberati da qualsiasi dubbio. Ma io, per esempio, come posso tranquillarmi?… Io sto continuamente in esercizio col pensiero, e perciò ogni causa prima ne trascina immediatamente dietro di sé un’altra, anche più profonda, e così via all’infinito”. L’eccessivo meditare e problematizzare, il ripiegarsi verso il mondo interiore, i paralizzanti tormenti dell’autoanalisi costituiscono, nel loro insieme, la malattia, mentre la salute, al contrario, consiste nell’agire immediato, nella spontaneità superficiale e acritica.
Si arriva così alla distinzione, fondamentale per Dostojevskij, tra l’uomo del sottosuolo e l’illuministico homme de la nature et de la vérité. Il primo, lo abbiamo visto, convinto di essere condannato a un’infelicità che non vale la pena di riscattare, si rinchiude nel suo guscio, pieno di disprezzo per il resto del mondo e di orgoglio per la propria vivida, ancorché sterile, intelligenza. Il secondo invece è colui che, proiettato senza problemi verso una totale armonia con la natura e con i suoi simili, prende come fondamento indiscusso della propria esistenza quegli ideali che (come l’utile, il piacere, il benessere) trova più a portata di mano. L’homme de la nature et de la vérité forse è felice, ma la sua felicità è meschina e conformistica, prodotto di uno spirito arido e pigro. Di fronte a questa squallida soluzione, l’uomo del sottosuolo si chiede sprezzante cosa sia meglio, se “una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze”. Dostojevskij, pur rendendosi perfettamente conto dell’improduttività del suo protagonista, sfrutta la goffa e anarcoide ribellione di costui per fare una appassionata perorazione della personalità, della libertà e della fantasia dell’individuo contro “le leggi della natura, le deduzioni delle scienze naturali, la matematica”, cioè contro tutto ciò che spinge a congelare l’inesauribile varietà della vita in formule, tabelle, regole e calendari. Di fronte al muro eretto dalla ragione, è “meglio lasciarsi voluttuosamente marcire nell’inerzia, tacendo e digrignando i denti nell’impotenza”, piuttosto che dichiararsi vinti in perfetta buona fede. In questo rifiuto irrazionale e arbitrario di ogni ordine logico, l’uomo del sottosuolo, pur abbruttito dalle sofferenze e reso meschino dalle umiliazioni, ritrova una nuova e insperata dignità: la dignità di chi vuole, a tutti i costi, affermare la propria autentica, scandalosa singolarità, anche al prezzo di non trovar posto in nessun sistema razionale.
La libertà, per Dostojevskij, è giocoforza paradossale e non sottoposta alle leggi positiviste del vantaggio e dell’interesse. “Voi siete convinti che… non appena la ragione e le scienze avranno completamente rieducato e indirizzato sulla retta via la natura umana... allora l'uomo cesserà spontaneamente di sbagliare e… non vorrà più creare un divario tra la sua volontà e i suoi normali interessi. Non solo: voi sostenete anche che allora la scienza stessa insegnerà all’uomo che in lui, in realtà, non esiste né la volontà né il capriccio,… e che lui stesso è solamente una specie di tasto di pianoforte o di pedale d’organo… cosicché, qualunque cosa egli faccia, questa si compie non in forza del suo volere, bensì secondo le leggi della natura. Restano dunque soltanto da scoprire queste leggi della natura, e poi l’uomo non dovrà più neppure rispondere delle proprie azioni, e vivere gli diventerà estremamente facile”. Ma la natura umana è più complessa di quanto sembri a prima vista e i tentativi di inalvearla entro i sicuri ed edificanti canali della logica e del progresso sono destinati prima o poi ad essere irrisi dai capricci ingovernabili della volontà. “Ecco, vedete: la ragione, signori miei, è una buona cosa, questo non si discute, ma la ragione è pur sempre soltanto ragione e soddisfa soltanto le facoltà razionali dell’uomo; la volontà invece è manifestazione della vita intera, cioè di tutta la vita umana, con la ragione e tutto il resto… Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto ciò che ha avuto il tempo d’imparare, mentre la natura umana agisce invece nella sua integrità, con tutto ciò che è in lei, sia coscientemente sia incoscientemente, e anche se mentisce, essa però vive”. Non è detto quindi che l’uomo diventi migliore e più felice se vive secondo i dettami della ragione e della scienza, al contrario può essere indotto a preferire ad essi qualcosa di nocivo e svantaggioso, in taluni casi addirittura la distruzione e il caos. “E infatti questa assurdità, questo suo capriccio, può essere proprio la cosa più utile e vantaggiosa di questo mondo,… persino nel caso che ci apporti un danno evidente e contraddica alle più sensate conclusioni della nostra ragione relative al nostro vero vantaggio, e ciò perché in ogni caso esso ci garantisce quel che per noi è più essenziale e più caro, e cioè la nostra personalità e individualità”.
La libertà, quindi, è anche libertà di errare, di peccare e di cadere, perché l’errore, il peccato, la caduta sono elementi necessari e insopprimibili alla dialettica dell’esistenza. Il protagonista delle “Memorie” va così ad aggiungersi a quella folta schiera di personaggi dostojevskijani (un nome su tutti: Dmitrj Karamazov) che, proprio grazie alla bruciante esperienza della perdizione, scoprono in loro rinnovate possibilità di redenzione. Con questo non voglio dire che le “Memorie del sottosuolo”, con la loro critica radicale alla scienza e alla logica euclidea, preludano alla luminosa affermazione di quel sovramondo che, per fare un significativo esempio, costituisce l’impalcatura etica de “I fratelli Karamazov”. Se in Alesa e Zosima la negazione della convenzionalità degli schemi razionali avviene dall’alto, nell’uomo del sottosuolo infatti essa si esprime ancora a un livello inferiore e non compiutamente risolto. Eppure anche l'uomo del sottosuolo, sono parole dello stesso Dostojevskij, è necessario nella nostra società, in quanto, con le sue contraddizioni e la sua irrazionalità, mette in tragica evidenza la precarietà e l'inanità degli sforzi umani di dare un ordine saldo e duraturo all'universo.
Se il contenuto ideologico delle “Memorie del sottosuolo” ha la stessa violenta carica provocatoria dei grandi romanzi della maturità, non altrettanto si può dire, purtroppo, del loro valore letterario. La rappresentazione del lancinante e sconnesso delirio cerebrale del protagonista non raggiunge mai la potente, quasi shakespeariana, grandezza del vorticoso monologare dell’animale kafkiano de “La tana”, che alle “Memorie” si richiama per moltissime analogie, né la dolente umanità che la follia conferisce al gogoliano scrivano del “Diario di un pazzo”. C’è qualcosa di troppo cerebrale, di troppo astratto, quasi di artificioso, in queste lucide e amare riflessioni che, quando cercano di darsi un’espressione più sistematica, scadono a livello di un polemico pamphlet. Inoltre, la descrizione di alcuni avvenimenti della vita reale del protagonista (l’episodio dell’ufficiale, quello della prostituta), oltre ad essere stilisticamente diseguale e artisticamente superflua, rischia paradossalmente di togliere validità alle idee precedenti, in quanto il lettore è quasi trascinato a credere che solo con una norma razionale costantemente perseguita si evita lo sfaldamento della personalità, cui invece fatalmente conduce il culto dell’irrazionale (esattamente il contrario cioè di quanto Dostojevskij voleva si ricavasse dalla tragedia del suo personaggio). Voglio perciò concludere citando una breve frase che, assai meglio di tutte le sue idiosincrasie anti-razionalistiche, riflette secondo me l’immagine più autentica del protagonista: “Io sono solo, e loro sono tutti”. E’ la malinconica immagine di un uomo che si sente smarrito in un mondo ostile e che sceglie il sottosuolo perché incapace di competere con delle regole in cui il più forte trionfa sempre e in cui la gara degli interessi non è più mascherata dalle vecchie credenze e dagli antichi valori.
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un uomo relegato da se stesso
Non trarre delle riflessioni dalle opere di Dostoevskij è un'impresa praticamente impossibile. Il russo è uno dei letterati più ispirati e profondi di tutti i tempi, che indaga l'animo umano fino ai suoi recessi più oscuri e anche oltre, portando il lettore a interrogarsi su varie sfaccettature esistenziali.
Riguardo allo stile di un autore del genere, ritengo sia superfluo soffermarsi, anche se in parte è chiaro che questa è l'opera che fa da apripista alle più importanti che seguiranno.
Questo libro è una specie di monologo, una confessione divisa in due parti. Nella prima, il nostro protagonista ci espone il suo modo di vedere le cose; è un uomo che si è ritirato nei recessi della società, nel sottosuolo, perchè non in grado di vivere in pace con essa. Egli si considera superiore agli altri ma allo stesso tempo si rende conto di quanto la sua condizione miserevole sia dovuta solo e soltanto a sé, alle sue paranoie e al suo esasperare qualsiasi cosa. Eppure, in alcune delle sue riflessioni si scorgono dei tratti di profonda verità, ma il suo portarle all'estremo non gli permetterà di vivere una vita serena, bensì lo relegherà nell'angolo più oscuro di quel mondo che tanto disprezza.
Nella seconda parte del libro verremo a conoscenza di un racconto della durata non superiore ad un paio di giorni, un racconto in cui questo essere abietto viene fuori in tutte le sue sfaccettature, brillando di un'incoerenza spaventosa ed esasperante. Venire a contatto con una tale personalità diventa addirittura opprimente, e assistere alla sua scostanza e alla sua incapacità di vivere in società risulta ripugnante per la maggior parte del tempo. Egli non sa rapportarsi, non sa mantenere un rapporto amicale, non sa amare; in tutto vede un'offesa alla sua persona, o quantomeno una mancanza di considerazione. Per lui, gli altri non gli attribuiscono il valore che merita, quando a conti fatti anche lui disprezza se stesso.
Dostoevskij ci porta davanti agli occhi l'apoteosi dell'asocialità, della superbia, della scarsa fiducia in sé stessi celata in una maschera di sicurezze ostentate, ma in fin dei conti fasulle.
Il protagonista guarda il mondo con disprezzo, ma in fondo al cuore vorrebbe farne parte. A causa del suo temperamento e del suo carattere impossibile non riuscirà mai a farne parte, rassegnandosi(in teoria ma non in pratica) a vivere per sempre in quel sottosuolo.
"Ora poi concludo l'esistenza nel mio angolo, stuzzicandomi con la rabbiosa e del tutto inutile consolazione che una persona intelligente non può nemmeno diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa solo chi è stupido."
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Quando due più due fa cinque
A quasi vent’anni di distanza da “Il sosia” (1846), con i “Ricordi dal sottosuolo” (1864) Dostoevskij torna a concentrare la propria attenzione sulle motivazioni più profonde del comportamento umano. L’opera è divisa in due parti: la prima, intitolata “il sottosuolo”, è un lungo monologo nel corso del quale viene aspramente criticato il positivismo (all’epoca ideologia dominante nella borghesia industriale europea), sarcasticamente irriso sia per la sua fiducia illimitata , e quindi ingenua, nel progresso scientifico sia per il suo assunto, a dire il vero non tanto ingenuo poiché subdolamente teso a giustificare “scientificamente” qualsiasi forma di sfruttamento sociale, secondo il quale ciascun uomo, una volta individuatolo attraverso le scienze matematiche ed economiche (il c.d. “due più due fa quattro”), sarebbe “naturalmente” portato al perseguimento del proprio “interesse” e con esso, di quello collettivo. A disvelare la fallacia dell’ideologia positivista, c’è però, secondo Dostoevskij, proprio “il sottosuolo” ossia quella forza irrazionale, ed all’epoca ancora misteriosa, che così di frequente induce l’uomo ad agire “consapevolmente” contro il proprio “interesse” e a godere della sofferenza, non solo altrui ma anche propria. Ed il “sottosuolo” altro non è che l’inconscio: l’insieme di quelle primordiali pulsioni e correlative inibizioni che, decenni più tardi, verranno codificate nei concetti freudiani di “es” e “superego”. Il difficile rapporto fra queste due componenti della psiche umana e la loro altrettanto difficile relazione con la dimensione cosciente (l’ “io” freudiano) generano, quasi inevitabilmente, nevrosi: ed è proprio ciò che viene spietatamente raccontato nella seconda parte dei “ricordi”, intitolata “a proposito della neve fradicia”, nella quale seguiamo il protagonista alle prese con le relazioni umane ed in un continuo alternarsi di masochismo e sadismo. Si tratta di un protagonista nel quale il lettore, suo malgrado, è costretto inevitabilmente a riconoscersi, poiché “l’uomo del sottosuolo” di Dostoevskij rappresenta proprio quel coacervo di spinte emozionali contraddittorie che costruiscono, ed al tempo stesso lacerano, la personalità dell’individuo. Su tutto svetta un egoistico, disperato e continuamente frustato bisogno di riconoscimento sociale, di stima ed, in definitiva, di amore da parte degli altri: “l’uomo del sottosuolo” è perfettamente consapevole che tale bisogno non verrà mai soddisfatto e che, anzi, ogni tentativo in tal senso costituirà un ulteriore motivo di sofferenza non solo per sé stesso ma anche per gli altri “vinti dalla vita” (la prostituta Liza) che incroceranno la sua strada, ma sa anche che, proprio da quella sofferenza scaturirà l’autocommiserazione e, quindi, quella invereconda ma deliziosa “voluttà nel mal di denti” così ben descritta nel primo capitolo dei “ricordi”.
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Tra ragione e volontà
Intenso, drammatico, nero, “Memorie del sottosuolo” scava a fondo nel torbido animo umano, nel sottosuolo, nell’abisso dell’inconscio. Dostoevskij dà vita, ben prima di Joyce ad un flusso di coscienza che, senza esitazione, ci sbatte in faccia tutte le bassezze di cui l’uomo è capace. Il testo scorre veloce e fluido come una melodia che tuttavia non è affatto piacevole, ma stridente e crudele nel suo contenuto. Ci viene presentata in modo crudo e diretto la condizione dell’uomo solo, vanaglorioso e quindi tendente all’astio, alla rabbia nei confronti del prossimo che egli ritiene inferiore e che tuttavia si muove nel mondo e coglie a piene mani quello che la vita offre, cosa che il protagonista non fa, scegliendo di chiudersi in una prigione di risentimento da egli stesso edificata. Come non pensare al Raskolnikov di “Delitto e castigo” che tuttavia trova infine la propria redenzione grazie all’amore di una donna. Qui non c’è redenzione e al richiamo della vita il protagonista preferisce il richiamo viscerale del sottosuolo.
Ma cos'è il sottosuolo? Una sorta di mondo oltre lo specchio, onirico e allucinato, in cui il protagonista si rifugia, diversamente dall'uomo “normale”, ragionevole che se ne sta quieto in superficie. Il nostro protagonista vive invece come un topo nella sua tana, cova un incessante sentimento di affermazione, di volontà di essere, ma nel momento in cui si scontra con la realtà, uscendo dalla sua tana, questa volontà viene meno e il topo, per difendersi si fabbrica un universo di sogno in cui vede le cose come vuole lui e non come sono realmente, il sottosuolo non lo abbandona mai del tutto in questo scontro continuo tra ragione e volontà.
“Memorie del sottosuolo” è un romanzo di una sconvolgente modernità, che anticipa di cinquant’anni uno dei soggetti principali dei romanzi del ‘900 che ritroveremo in “Una vita”, “Ulisse”, “Il fu Mattia Pascal”, “La coscienza di Zeno”. Stupisce per l’abilità con cui lo scrittore è riuscito a mettere nero su bianco la complessa psicologia del suo personaggio, dimostrando ancora una volta una lucidità incredibile e una conoscenza approfondita dell’animo umano. Una capolavoro della letteratura mondiale, non di facile lettura, ma fondamentale.
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Due più due fa quattro?
“Sono un uomo malato... Sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente.”
Comincia così l’opera che segna la svolta artistica di Dostoevskij, da qui in poi orientato alla ricerca di una via di fuga per l’uomo dalla solitudine e dalla disperazione nell’amore e in Cristo.
L’opera si articola in due sezioni. Nella prima parte il protagonista ci presenta la sua condizione di uomo emarginato dalla società, verso cui nutre disprezzo e sospetto. Egli preferisce rifugiarsi nel “sottosuolo”, ovvero l’oscuro baratro della sua mente, che lo isola da una società tesa al progresso scientifico e alla matematizzazione della vita umana. L’intento era quello di schematizzare la natura dell’uomo attraverso la Ragione, rendendolo un essere paragonabile a un tasto di pianoforte, non libero ma mosso da un’universale mano invisibile. Ma l’uomo del sottosuolo sa che l’intima essenza dell’uomo non è la ragione, ma la volontà, concetto così strettamente legato alla libertà da risultare a tratti inspiegabile, ma non per questo rinnegabile. Il volere supera la razionalità, sconfinando nel contrasto interno all’uomo, che vede implodere e mescolarsi in sé impulsi talvolta rovinosi, ma pur sempre umani. Circoscrivere l’uomo in una tabella risulta pertanto ridicolo all’uomo del sottosuolo: “L'uomo è creatura frivola e disordinata e, forse, come il giocatore di scacchi, ama soltanto il processo del raggiungimento del fine, e non il fine in sé. E, chissà, forse tutto il fine a cui tende l'umanità sulla terra consiste solo in questa continuità del processo di raggiungimento, in altre parole nella vita stessa, e non propriamente nel fine, che, s'intende, dev'essere null'altro che il due più due quattro, cioè una formula, perché due più due quattro non è già più la vita, signori, ma l'inizio della morte.”
Attraverso le riflessioni del protagonista, si giunge così alla seconda parte, in cui l’uomo racconta, a titolo di esempio per quanto detto, eventi che emergono nella sua memoria a manifestare la sua inettitudine nei rapporti umani. Questa costante condizione subirà uno scossone dopo la notte con la prostituta Liza, la prima persona a mostrargli un sentimento, il che getterà il protagonista in profondo conflitto interno col desiderio di dominio, forma standard del suo modo di relazionarsi agli altri.
“..tutti noi siamo disavvezzi alla vita, tutti quanti zoppichiamo, chi più chi meno. Siamo a tal punto disavvezzi, che talvolta proviamo una specie di ripugnanza per la “vera vita”, e pertanto non possiamo neppure sopportare che ce ne parlino. Anzi, siamo arrivati a un punto tale che quasi quasi consideriamo l’autentica “vera vita” come una fatica, o addirittura come un lavoro, e dentro di noi siamo tutti convinti ch’è meglio di com’essa ci viene presentata nei libri. Ma perché ci agitiamo certe volte, perché facciamo i capricci, che cosa cerchiamo? Non lo sappiamo neppure noi. […] Ci è penoso perfino essere uomini, uomini con un corpo vero e proprio, col sangue nelle vene; ci vergogniamo di questo, lo consideriamo un’onta, e ci sforziamo in ogni modo d’incarnare un certo tipo di uomo universale che non è mai esistito. Noi siamo nati morti..”
Grazie a Liza, scoprirà che la vita descritta nei libri, la vita dell’amore, la vita in cui due più due non fa necessariamente quattro, può esistere anche nella realtà. Ma non è facile uscire dal sottosuolo.
Ineffabile
Semplicemente ineffabile... non riesco a trovare le parole adatte per dare una vaga idea di ciò che questo capolavoro mi ha trasmesso. Dostoevskij si potrebbe definire come parmenide "maestro venerando e terribile" poiché tramite i suoi libri riesce a comunicare ciò che c'è di più recondito e nascosto nella nostra anima, nel nostro "io", nella nostra psyche e proprio per questo deve essere lodato. Ma al contempo è terribile proprio perché mette a nudo, tramite i suoi personaggi, ciò che forse vorremmo rimanesse celato, ciò che forse neanche noi conosciamo di noi stessi. Con " memorie dal sottosuolo" è proprio quello che mi è capitato. Soprattutto ne "il sottosuolo" le considerazioni di dostoevskij non posso essere che veritiere: in un mondo in cui ognuno trae vantaggio da ciò che può e in un mondo in cui tutti vogliono ricchezza e benessere, non c'è nessuno che desidera "la volontà", ovvero il poter prendere liberamente le proprie scelte. Il protagonista si rifiuta di seguire la massa e preferisce restare nel suo cantuccio a rimuginare sul fatto che la sua superiorità però lo tiene lontano dalla vita vera che gli inetti invece possono gustarsi. Il sottosuolo non farà altro che peggiorare questa sua visione pessimistica della vita, rendendogli ogni tipo di rapporto con il mondo sgradevole e nauseante. TalI considerazioni le estenderà alla fine del libro a tutta l'umanità, sottolineando come ormai tutti ci siamo disabituati a vivere "la vita vera" e cercare nei libri la nostra unica consolazione. Quindi, forse, nel suo pessimismo, il protagonista ci invita a vivere la nostra vita liberamente e appieno perché solo così alla fine dei nostri gioni potremo dire di aver vissuto veramente. Un libro assolutamente meritevole di essere letto e riletto per carpire appieno la filosofia di dostoevskij.
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Introspezione e sofferenza
Diviso in due parti, un lungo monologo la prima, un racconto la seconda, quest’opera segna un nuovo capitolo nella vita letteraria di Dostoevskij aprendo la strada a quella che si proporrà poi come la sua grande letteratura che ha lasciato un segno tangibile nella vita di tutti i lettori.
Temporalmente non in successione e staccati da una ventina d’anni le due parti vogliono fungere da introduzione al pensiero la prima (Il sottosuolo) e da applicazione di tale pensiero alla vita reale la seconda (A proposito della neve fradicia).
L’autore, che si identifica nel personaggio narrante, inizia così la lunga descrizione del proprio carattere; ne viene fuori un personaggio in sostanza cattivo, ostile nei confronti di chi gli è attorno, colleghi compresi, verso i quali non si risparmia di apparire sadico e di provocare loro il massimo disagio.
Ma il lettore ci mette poco a capire che tutto ciò è sola apparenza, un meccanismo di difesa messo in atto da una persona fragile che vive ai margini della realtà, schiva come chi si sente inadeguato a vivere in una società del ‘2+2 fa 4’, la società della necessità, dell’apparenza, del ‘devo farlo perché è di moda’.
E’ questo che il protagonista non accetta. Siamo in piena epoca positivista e il progresso scientifico, motore di una dirompente rivoluzione industriale, ha istruito le masse a ragionare con la scienza, con la ragione che diventa la sola leva capace di costruire ragionamenti e, a seguire, tutta la realtà che ne consegue.
L’allontanamento da uno schema così rigido e ragionato si trasforma in un allontanarsi dalla realtà e nel rifugiarsi in se stesso, in quel sottosuolo che fa da tana ristoratrice entro cui esprimere tutto il suo disprezzo e la sua voglia di essere portatore di libertà, di esprimere la propria opinione, di dire la sua, in netto contrasto con la mera omologazione di tutto il resto del mondo che si piega al volere della necessità.
Ma è qui, nel sottosuolo, che invece del riscatto egli finisce per isolarsi ancor più dal mondo e cova la sua inadeguatezza che lo farà apparire così frustrato e carico di tensione agli occhi di chi lo incontrerà.
La seconda parte dell’opera riporta il protagonista indietro nel tempo, alla sua giovinezza, uscendo dalla struttura stretta del monologo riportando alcuni avvenimenti che rafforzano e descrivono meglio quell'aura di decadenza e di frustrazione al limite del disagio mentale che lo accompagnano ogni momento della sua vita.
Lo vediamo interagire con la gente, quella gente che inizialmente affronta spavaldo a testa alta sicuro di poter ‘educare’ ai suoi ideali di libertà di pensiero, ma che si rivela essere un muro contro il quale egli puntualmente si scontra facendosi male e reagendo con crisi isteriche, unico modo per evadere all'istante da una realtà che non gli appartiene, prima del totale rifugio nel sottosuolo ove, almeno temporaneamente, riesce a trovare la sua apparente pace interiore.
Con questa opera Dostoevskij non solo sancisce l’inizio di una nuova epoca letteraria in Russia, ma introduce in letteratura il concetto di ‘interiore’ che farà da apripista per la teoria dell’inconscio di Freud e ispirerà autori quali Joyce e Woolf che nella letteratura inglese introdurranno lo ‘stream of consciousness’, quella tecnica di riportare il monologo interiore eliminando ogni tipo di rielaborazione mentale.
Il tutto fu ispirato all'autore dal duro periodo di prigionia al quale fu sottoposto pochi anni prima e che lo fecero entrare profondamente in contatto con la propria interiorità, un contatto viscerale che aggiunge un ulteriore valore autentico allo scritto che ci invita prepotentemente alla riflessione su noi stessi facendoci sentire di fatto come attori divisi tra il palcoscenico della realtà interiore e quello della più scontata e familiare realtà esterna.
Memorie dall'inconscio.
La mia ragazza dice sempre che non mi fido dei suoi consigli letterari, e che non voglio mai leggere quello che lei mi consiglia (e posso giurare che è un'accusa infondata perché ho letto moltissimi dei suoi libri :), così questa volta mi ha proposto di leggere "Memorie del sottosuolo", uno dei suoi libri preferiti, è visto che di Dostoevskji, ahimè, ho letto solo "Delitto e castigo" ai tempi del liceo, ho accettato molto volentieri. Avevo sentito parlare moltissimo di questo libro e in diverse recensioni era stato definito come una delle migliorie opere di Dostoevskji, se non proprio la migliore. Beh, effettivamente, devo dire che la profondità di questo libricino di poco meno di 150 pagine è davvero disarmante. Ho letto poco di Dostoevskji come detto sopra, quindi non posso dire se è una delle sue opere migliori, ma di sicuro è un libro che dovrebbe stare in ogni libreria. Il romanzo, che poi romanzo non è, perché come dice il titolo sono memorie vere e proprie, è diviso in due parti. La prima parte si chiama appunto "Il sottosuolo" e la seconda "A proposito della neve fradicia". Nell'edizione che ho letto (BUR) inoltre c'era anche una prefazione di Alberto Moravia che spiegava cos'è il sottosuolo di Dostoevskji. E cos'è il sottosuolo? In una parola sola, l'inconscio. Quello che anni dopo Freud teorizzerà creando da questo una dottrina scientifica. A mio modo di vedere il libro andrebbe letto al contrario, e cioè prima la seconda parte e poi la prima, perché è tramite la seconda che si arriva alla prima. Nella seconda parte l'autore, che scrive in prima persona, ci racconta degli stralci della sua vita ma soprattutto ci racconta il suo riporto con il mondo esterno, che potremmo definire "il piano terra", cioè quello che appare. I suoi rapporti con l'ambiente circostante non sono tanto armoniosi, anzi il narratore ci appare a disagio continuamente con l'ambiente che lo circonda. Ha problemi con i suoi colleghi di lavoro, ha problemi con le istituzioni (rappresentate da un vecchio vigile a cui, dopo uno sgarbo subito non vuole cedere il passo per la strada, ma finirà puntualmente per capitolare a terra davanti a lui), ed infine è rappresentato dal rapporto con quelli che considera amici. In realtà sta male innanzitutto con se stesso, prende ogni gesto di chi si trova di fronte come un'offesa, come un'accusa, ma non riesce a reagire perché spesso si ritiene inferiore a chi ha di fronte. Così finisce per reprimere la sua rabbia, la sua presunta inferiorità, e poi con chi la tira fuori? Logico, con i più deboli. Con il suo servitore e con una giovane ed indifesa prostituta, Liza, che prima offende verbalmente e poi con gesti spregevoli solo perché la accusa di essere il motivo del suo malessere. Ma perché si comporta così? Perché esprime questa frustrazione in un modo così bieco e cinico? È qui che entra in gioco la prima parte delle memorie, il sottosuolo appunto, l'inconscio, il piano sotto il piano terra, il piano che non si vede, l'interiorità. Eh si, qui inizia con una serie di discussioni sul perché lui si sia ritirato a vivere nel sottosuolo, ed il motivo è semplice, perché "al primo piano" non sta bene. Fuori dal sottosuolo ci sono un sacco di convenzioni che ognuno di noi è obbligato a rispettare per arrivare a quelli che lui chiama "vantaggi". Per vantaggi si intende: il rispetto altrui, la ricchezza, i rapporti interpersonali, etc etc. Ma tra questi vantaggi, a suo avviso, ne manca uno, il libero arbitrio. La libertà di decidere se si voglia davvero fare una cosa o se quella cosa invece non vogliamo farla. Signori, e se io non avessi interesse ad essere ricco? E se io andassi contro questi dogmi imposti per il puro piacere di non rispettarli o perché non li condivido? Passerei per pazzo. Ed è quello che succede all'io narrante. Se io amassi la sofferenza che voi tutti ripudiate? Passerei per pazzo. Ed invece sempre il protagonista ci dice che l'uomo ama la sofferenza, ci basta vedere nel corso della storia tutte le guerre che sono state fatte per il solo gusto di addurre sofferenze al prossimo. Ed è quello che fa il nostro protagonista, infligge sofferenza agli altri per svuotare dal suo io la sofferenza accumulata. Ed in conclusione ci dice: io ho scelto di venire nel sottosuolo, voi no, voi vi vincolate all'esteriorità, come vi si presenta un minimo di possibilità per essere più liberi scappate, avete paura della libertà, e vi sentite libero solo se circoscritti, ma allora dov'è la libertà? Forse è più libero il nostro protagonista, chiuso nel suo sottosuolo. Finisco qui perché se no potrei continuare per ore, un libro di una profondità devastante che ti fa pensare a lungo anche dopo averlo finito. Capolavoro.
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Immortale
Il sottosuolo: l'emblema della psiche umana con cui l'uomo stesso deve venire a patti quotidianamente per trovare un nesso logico alla realtà e che contemporaneamente anelerebbe a ripudiare per vivere autenticamente nel reale ed essere egli stesso più reale. Le memorie (o ricordi che dir si voglia): il lascito della vita vissuta filtrato dal sottosuolo e riportato ad una nuova più obbiettiva, più lungimirante e forse per questo più nichilisticamente rassegnata luce di consapevolezza.
Le memorie (o ricordi) dal sottosuolo: un imperituro mirabile esempio di edotto esercizio di stile e di vita, poiché per addentrarsi in tal modo nei meandri della coscienza umana non solo bisogna saper scrivere, ma occorre anche saper vivere, conoscere la vita, la sua logica illogicità e la sua contraddittoria paradossalità.
Solitamente non mi ritengo all'altezza di commentare i grandi classici della storia della letteratura tuttavia per questo, vostro malgrado, farò un eccezione poiché raramente mi sono trovato più in accordo e contemporaneamente in disaccordo con un libro, raramente mi sono trovato più simpaticamente coinvolto ed al medesimo tempo empaticamente sconvolto da una lettura, fosse questa di narrativa fosse questa di saggistica. Ed è proprio in bilico tra questi due generi che si collocano "le Memorie," in bilico e in contrasto, poichè parte sono romanzo aneddotico e parte disquisizione formale, parte premessa ai fatti e parte giustificazione, ma quale l'una e quale l'altra? E' inutile domandarselo giacché in realtà sono un perfetto tutt'uno che si fonde la dove proprio c'è discrepanza, si unisce la dove maturano i germi della diversità, ovvero nell'uomo, l'uomo di Dostoevskij, al tempo stesso romantico e anti-romantico, coraggioso e vigliacco, antieroe capace delle più vili bassezze e tuttavia archetipo dell’eroe esemplificatore della condizione umana. E alla maniera del suo personaggio anche il libro è un unicum contrastante: indissolubilmente legato alla sua epoca e ciò nonostante assolutamente attuale, così ironicamente tragico da creare uno straniamento per déjà vu, e sorprendere il lettore con una vicenda già molte volte vissuta, e così ostentatamente imponderabile ed inconsueto da risultare assurdamente lapalissiano. Un libro unico insomma, universale, e appunto immortale.
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Il sottosuolo
Questo piccolo gioiello della letteratura, è figlio di un momento difficile e tormentato per Dostoevskij.
Con questo romanzo egli si stacca dalla precedente vena narrativa, per creare un personaggio dilaniato nell'animo, un “antieroe” come lui stesso lo definisce, sofferente ma consapevole.
Il narratore si cela dietro le vesti del giovane protagonista, auto-confessandosi in un monologo crudele e dissacratore, mettendo a nudo “il sottosuolo” dell'anima con rabbia e determinazione, rendendosi un anticipatore del concetto di inconscio e di psicanalisi.
E' un racconto che prende vita da un tormento interiore, da un male di vivere, dalla una solitudine affettiva e sociale, da una insoddisfazione crescente e avvolgente.
La penna di Dostoevskij fonde la bellezza narrativa alla profondità di un saggio filosofico, attraversando le zone più oscure della mente umana, scavando con consapevolezza e furore.
Egli vuole dimostrare che la forza della ragione non arriva a svelare tutto, perché nel fondo dell'animo si trovano tanti nodi da sciogliere e da interpretare.
Insomma la luce della scienza e della ragione non sempre è sufficiente per dirimere la notte dell'anima.
E' una storia dai toni forti e crudi, come testimonia un linguaggio cinico e dirompente che evade dagli schemi del perbenismo e della morale, capace di regalarci un personaggio sui generis che ci introduce in un viaggio all'interno della coscienza.
Un personaggio difficile, troppo acuto o troppo pazzo, talora irritante talora commovente, aggressivo e indifeso, capace di destabilizzare anche l'uomo più saldo con i suoi quesiti.
E' un testo impegnativo, in grado di offrire infiniti spunti di riflessione sulla vita ed arricchire il lettore che saprà captare gli infiniti messaggi affidati a queste pagine.
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Confessioni di un arrabbiato nostalgico
C'è un po' tutto Dostoevskij in quest'opera ancora per tanti versi immatura, ma è un Dostoevskij amabilmente pessimista, senza speranza di riabilitazione. Cattivo, fino in fondo, com'è giusto che sia per chi viene dal sottosuolo. Mi ha spaventato rivedermi per tanti versi nel protagonista del libro, ma ci vuole una grande dose di saggezza per ammettere di essere così onestamente sbagliati. Le idiosincrasie, le meschinità del personaggio sono quelle di un arrabbiato che vorrebbe riabilitare il sublime e insieme lo odia. Repulsione e attrazione per il fango sono la sua altalena.
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Le memorie...
Che esperienza unica e particolare ho vissuto leggendo "Memorie Del Sottosuolo", quanta classe, quante verità escono dalla penna di Dostoevskij.
Due racconti brevi, uniti saldamente da una riflessione profonda, una riflessione che porta il protagonista a compiere azioni "di continua derisione" per la propria persona, a dire e fare tutto e il contrario di tutto, avvolto da un costante, strano e autentico velo di pentimento interiore.
Si legge "Memorie Del Sottosuolo" in pochissimo tempo, nonostante la scrittura non sia per niente semplice da districare, si finisce ben presto preda degli incubi interiori che il nostro svela con audacia, ironia e schiettezza.
Non c'è una sola riga che produca banalità, non c'è un solo passaggio "frivolo", a stupire è l'intensità di due brevi racconti che si "ricaricano" a rotazione uno sull'altro, in maniera speciale e personale. Il sapore che si trasportano dietro è strano e sicuramente unico, un esperienza che non può portare che alla continua riflessione perchè i deliri di Dostoevskij sono veri e fanno male.
Fa male lasciarsi trasportare sopra una prima parte completamente "ubriaca", un monologo astratto e marcio, una continua spirale avvolgente che deve avere su di se la massima attenzione per essere compresa a dovere in ogni suo piccolo meccanismo. Più semplice invece il lato " A Proposito Della Neve Bagnata" dove il protagonista narra le proprie bassezze, e noi, trasportati da una abilità narrativa innata ci sentiremo un pò complici di queste vergognose ma "vive" azioni.
Ci sono libri che si leggono, che piacciono, ma tuttavia non saranno più ripresi in futuro. Credo che "Memorie Del Sottosuolo" invece rappresenti la fazione opposta, quella sui quali si ritorna ancora e ancora, vuoi grazie alla sua brevità, vuoi grazie all'abbondante insanità che riesce a somministrare all'ignaro lettore di turno.
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Chiave per il futuro
Romanzo breve, di sole 150 pagine, in cui l'autore inaugura ciò che poi lo caratterizzerà nelle opere successive: il dialogo interiore. Dostoevskij si tramuta in psicologo andando a scavare nella coscienza profonda del protagonista, che si studia interiormente e si sente continuamente messo alla prova dalla figura dell' "altro", ha paura del giudizio della gente e di ciò che si pensa di lui; romanzo diviso in due racconti, nella prima troviamo la parte più profonda, dove l'uomo del sottosuolo rivela le proprie idee, mentre, nella seconda, il protagonista, a contatto con altri metterà a nudo i propri pensieri a noi lettori.
Romanzo leggibile, breve, come già detto, ma molto intenso e significativo, che inciderà molto sulle opere successive.
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Il sottosuolo
Magnifica indagine in una coscienza umana che vive ai margini della società, uno dei punti più alti in cui si può vedere il Dostoevskij filosofo piuttosto che il narratore. Sicuramente un testo complicato, per pochi, ma che una volta letto non può che sconvolgerci e farci riflettere. Non si può dare un semplice giudizio secondo i criteri del bello, è un'opera complessa e grandiosa, ricca di continui rimandi filosofici.
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