L'urlo e il furore L'urlo e il furore

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unfioreounlibro Opinione inserita da unfioreounlibro    19 Agosto, 2023
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Una sola lettura non basta

La recensione di oggi – se di recensione si può parlare, dato che il romanzo in questione è considerato uno dei massimi capolavori della letteratura moderna – riguarda "L’urlo e il furore" di William Faulkner. Premetto che, trattandosi di un’opera molto complessa, non me la sono sentita di condurre un’analisi approfondita, ma ho preferito limitarmi a parlare della mia esperienza di lettura.

Il romanzo parla dei Compson, una famiglia aristocratica del Sud degli Stati uniti, e del loro progressivo decadimento in seguito alla Grande Depressione del 1929. Tale vicenda è narrata da quattro punti di vista diversi, quelli dei tre figli maschi e quello della domestica nera, che corrispondono ad altrettanti capitoli. L’elemento più interessante del libro non è però tanto la trama, quanto piuttosto lo stile con cui è esposta. Faulkner, infatti, fa ampio uso delle tecniche moderniste del “flusso di coscienza” e del “narratore inattendibile”, saltando continuamente dal presente al passato e dalla realtà all’immaginazione, in un intreccio che, soprattutto nei primi due capitoli, risulta assai difficile da districare.

La scrittura di Faulkner possiede sicuramente un gran numero di pregi, primo tra tutti la capacità di restituire i pensieri, le emozioni e i ricordi dei protagonisti con estrema precisione. Inoltre, mantiene sempre una forte carica patetica, anche quando sfiora i limiti della correttezza grammaticale. I personaggi del romanzo sembrano usciti da una tragedia, vittime passive delle loro pulsioni inconsce e delle norme morali proprie della loro classe sociale. Allo stesso tempo, si trovano a fare i conti con l’apparente inutilità di tutte le azioni umane, in perfetta coerenza con il monologo del "Macbeth" da cui è tratto il titolo.

Ciononostante, devo ammettere che, mentre leggevo, ho colto questi pregi solo di sfuggita. Il motivo è che, come già accennato, i primi due capitoli presentano continui salti temporali, costringendo il lettore a concentrare tutte le sue energie nella comprensione della trama. "L’urlo e il furore" risulta quindi, almeno a mio avviso, un romanzo controverso: se, da un lato, il suo stile consente di raggiungere un livello di verosimiglianza psicologica molto elevato, dall’altro rende la lettura poco fluida e piacevole. Probabilmente, il modo migliore per affrontarlo sarebbe leggerlo due volte, una prima per ricostruirne gli eventi, e una seconda per apprezzare appieno la sua bellezza.

“Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L'uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un'illusione dei filosofi e degli stolti.”

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"Mentre morivo" di William Faulkner, oppure altre opere moderniste (di Joyce, della Woolf, di Proust...).
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Giugno, 2021
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La furia, l'urlo, il suono

«Un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di qualsiasi altro uomo vivo o morto.»

Classe 1929, “L’urlo e il furore” è uno scritto a firma William Faulkner che sin dalle prime pagine colpisce per la sua impostazione stilistica atta a suscitare un viaggio introspettivo in quello che è un flusso di coscienza continuo e ininterrotto. Obiettivo dell’autore è quello di ripercorrere la tragedia di una famiglia suddividendo simbolicamente il componimento in quattro parti che appunto ne ripercorrono negli anni le sorti e le conseguenze. Ogni sezione assume una diversa capacità evocativa, una capacità evocativa che risente di una diversa prosa e dunque di un ritmo in crescendo e confluendo e mai in adagio.

Non a caso, infatti, se nella prima e seconda parte lo stile si avviluppa, contorce e fa entrare il lettore in un meccanismo concatenato di fatti del presente, del passato e dello sperato che si fondano tra loro, nella terza e quarta sezione, al contrario, ci troviamo di fronte a lunghi periodi, a un incedere più cadenzato ma pur sempre incisivo nel suo proseguire, a una trama che muta la sua forma espositiva ma che mai cede dal punto di vista contenutivo e interiore.
Faulkner non delude le aspettative dei lettori e offre loro un titolo da assaporare un poco alla volta, sul quale riflettere, mai scontato e dai contenuti che lasciano il segno.

«Quel che vi è di meglio nel pensiero si aggrappa come edera morta su vecchi mattoni morti.»

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    29 Luglio, 2019
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Pelle scalcinata

La lettura di “L’urlo e il furore” mi ha suscitato le stesse reazioni (personalissime) di una poesia di Leopardi e cioè la percezione di una grandezza oggettiva, indubitabile, e, dall’altro, una certa resistenza soggettiva, come se il libro non riuscisse a vibrare alla mie stesse frequenze. Pubblicato nel 1929, stesso anno di Addio alle armi, Faulkner scrive questo libro tenendo in mano, credo, l’Ulisse di Joyce, ma supera il modello ricorrendo ad una mimesi linguistica estrema e straniante, che porta il flusso di coscienza fino alle profondità sinuose della mente sul punto del suicidio e, contemporaneamente, lo frantuma nella distonia percettiva di un malato di mente. Articolata in quattro parti, ma radicata in una storia di decenni, la genealogia intagliata da Faulkner ripercorre la tragedia di una famiglia voluttuosamente incastrata nelle spire della fine. La disomogeneità del testo, prima di tutto stilistica, trova in realtà coesione nei sottili fili conduttori che guidano il testo, parole ripetute, fiumi carsici che scompaiono e riappaiono dopo pagine, in piani temporali fusi e confusi, nel tentativo di imprimere sulla pagina il flusso zigzagante dei pensieri. Eppure il flusso di coscienza di Faulkner non ha il ritmo placido e ondivago dei personaggi della Woolf, o la logica associativa di Joyce, piuttosto si fa balbettio o cortocircuito linguistico, rendendo la lettura ostica alla decifrazione.

Nella prima parte, che definisce i confini dell’opera, lo sguardo è quello cinematografico di una mente malata che registra quello che accade come in un vertiginoso montaggio appositivo che sfugge al principio di causa-effetto: la realtà di definisce per accumulo, non per precisazioni e intanto ogni evento, ogni parola, nasconde in sé la possibilità di un ricordo, di un altro mondo, di un’altra realtà che è, nel felice equilibrio tra terrestrità e avanguardia, il punto d’incontro tra il cubismo di Braque e le tele di Munch. Nella seconda parte è invece la prosa complessissima di Quentin, studente universitario infatuato non della sorella, ma della promessa di verginità, della purezza, dell’onore della famiglia sospese su una membrana fallibile, a tenere banco nel giorno della fine. Qui la scrittura si fa ancora più contorta, avviluppata, dispersa, odissiaca ma clautrofobica, tesa fino allo spasmo, sull’orlo della rottura. La prosa si appiana poi nella terza e quarta parte dove Faulkner dimostra di saper governare lunghi periodi e prospettive inusuali, con una concretezza descrittiva e simbolica davvero rara. Eppure il piacere della lettura è più intellettuale che emotivo, più culturale che sentimentale e la complessità narrativa crea forse un certo ostacolo al godimento puro dell’opera.

L’immagine certo più emblematica di questo libro è il lamento informe, suono puro, di Benji sulla fine del romanzo, un volto che fatica a trattenere la pelle, sformato e deformato, la bocca aperta che tenta di esprimere il dolore di esistere, l’inconveniente di essere nati, il dolore genetico, primordiale e inevitabile cui ogni primo vagito condanna. Il dolore è la malattia, la separazione, la perdizione, la seduzione della morte e l’impossibilità dell’amore, il cinismo, il pianto, il furore del destino che sacrifica ineluttabile gli uomini sul suo altare. Come anticipato in apertura, apprezzo molto le scelte di Faulkner, radicali ed eversive, ma contemporaneamente ho faticato ad entrare in sintonia con l’opera, a sentirne tutte le vibrazioni e continuo a pensare che qualcosa non nello stile, ma nella struttura complessiva faccia fatica a sostenere l’ambizione del libro.
Detto questo, Faulkner è grande letteratura e leggerlo è un'esperienza, un'avventura da provare.

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siti Opinione inserita da siti    06 Giugno, 2019
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PROFONDO SUD

Mi piace definire questo romanzo non tanto una lettura, fra le tante, quanto una vera e propria esperienza di lettura; il sapore lasciato dall'ultima pagina, quando si giunge al termine, è quello dolce amaro di un arrivederci nel quale si mescolano sentimenti contrastanti che sintetizzano in sé emozioni diverse. Forte è il segno che esso nel complesso lascia, grande il sollievo per averlo terminato - la lettura è stata, soprattutto nella prima parte davvero ostica -, amaro infine il ricordo che, della realtà rappresentata, si sedimenterà nel mio universo emotivo di lettrice.
Attraverso scelte ardite: molteplicità di voci narranti, focalizzazioni funambolesche, anacronie impensabili, flussi di coscienza, molteplici discorsi diretti estemporanei, l'autore come un preciso programmatore di disgrazie mette in scena una famiglia in decadenza sotto tutti i punti di vista. Non basta il tracollo finanziario della fine degli anni '20, non sono sufficienti le disgrazie umane quali un ritardo mentale in famiglia, non bastano neppure le differenze umane che possono rendere difficile la convivenza tra consanguinei, e non sono nemmeno sufficienti i retaggi di un'epoca post-coloniale quando può ancora avere un senso, nel profondo sud americano, marcare le differenze tra bianchi e neri; qui c'è di più. C'è l'urlo e c'è il furore, c'è l'impossibilità di essere e c'è la fatalità di non poter essere. Personaggi meravigliosi, ognuno nella sua specificità: madri, padri, fratelli, sorelle, nonne. Inetti, incapaci, vinti, piegati, disfatti alcuni, riscattati altri. Forse presente un unico vero e proprio personaggio positivo ( non penso alla serva nera), marginale e neanche voce narrante; un piccolo spiraglio di umanità dove tutto pare avere un'atavica forma di rassegnata disperazione. Immobilità assoluta, annullamento spazio-temporale. Tutto rimane uguale a se stesso; è tempo di rompere gli orologi: rimando alla meravigliosa seconda parte alla quale devo questa immagine e una chiave complessiva di lettura.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    24 Giugno, 2015
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Fosse anche solo per Ben (Capitolo I)...

William Faulkner – L'Urlo e il Furore – 1929

Spoiler (lieve)

Scrive W. Faulkner, al suo editore, nel 1946:
"Quando ristamperai L’urlo e il furore, avrò una parte nuova da aggiungere. Quando l’avrai letta, vedrai che è la chiave di tutto il libro".
Nota della (mia) edizione Einaudi:
"Faulkner voleva che l’Appendice fosse la prima parte del libro, e al primo posto essa figurò nelle prime edizioni, ma successivamente fu collocata alla fine. Studiosi e critici l’hanno spesso trattata come una parte integrante del romanzo, anche se molti la considerano separata e distinta da L’urlo e il furore, come entità romanzesche separate e distinte sono gli altri racconti sulla famiglia Compson."

Faulkner dice "mettiamola all'inizio", ma in fondo, perché dargli retta?
Quindi la parte "nuova" una sorta di albero genealogico della famiglia Compson, che – di fatto – ti permette di capire i primi due (su quattro) capitoli dell'opera, l'edizione italiana in mio possesso la mette simpaticamente in fondo, perché dar retta al parere dell'autore, in fondo?
Sfortuna ulteriore, mi è capitata l'edizione vecchia con traduzione di Augusto Dauphiné, sembra letta da Pieraccioni da quanto l'è tutto un toscanismo.

Quindi abbiamo il primo capitolo in cui ho capito che la voce narrante è un personaggio con ritardo mentale, che si chiama Benjamin, che ha fratelli (due o tre?), una sorella, alcune persone che si occupano di lui, madre, padre. C'è anche un personaggio che si chiama Quentin. Che a volte è femmina e a volte è maschio.
Ok.
Avevo letto che non era un libro per tutti e son sul punto di piantar lì, evidentemente non sono all'altezza. Poi per pura combinazione apro il reader alla pagina sbagliata e… ma guarda!
L'appendice.
Ma guarda. I Quentin sono due, un maschio e una femmina. Scema io a non capirlo nel flusso di coscienza di un personaggio con ritardo mentale. E anche Faulkner che aveva pensato di dare una mano ai suoi lettori meno dotati.
Fa niente, basta polemiche.

Rileggo dall'inizio e mi godo appieno un enorme romanzo.
Quattro capitoli, quattro date, quattro narrazioni di quattro personaggi diversi; tre membri della famiglia Compson (Ben, Quentin-maschio, Jason) e la loro governante Dilsey (narrazione in terza persona).
I primi due capitoli, meno organici dal punti di vista narrativo, sono "flusso di coscienza" di Ben e di Quentin (maschio), poi con Jason la narrazione si fa più classica.
Il capitolo, secondo me, più "forte" è proprio il primo. Il flusso di coscienza di Ben.
Qui, in effetti, il punto non è proprio capire tutto quello che succede, ma il tentativo – a mio avviso riuscito e assai raro – di descrivere la percezione della realtà da parte di un disabile mentale. Ben non riesce a filtrare gli stimoli che incontra e a dare loro un ordine, neppure a livello percettivo. Tutto è contemporaneo ed immediato odori e suoni, tatto e gusto, presente e ricordi.
È un tentativo coraggioso, raro e secondo me riuscito.
Altri autori che abbiano tentato questo difficile percorso con pari intensità… mi viene in mente solo (spero per ignoranza mia) Daniel Keyes in "Fiori per Algernon" (e se qualcuno non l'ha letto, corra immediatamente a porre rimedio!), ma con approccio completamente diverso. Poi ci sono alcuni pezzi di McEwan (L'inventore dei sogni, quando viene descritta la difficoltà del gatto e del bimbo piccolo a focalizzare l'attenzione), Bill James (in Protezione alcuni capitoli sono resi dal punto di vista di un ragazzino con ritardo mentale), Haddon (Il caso del cane ucciso a mezzanotte, ma qui abbiamo una Sindrome di Asperger e non un ritardo mentale).
Però questo primo capitolo di Faulkner è davvero straordinario.
Una sorta di arazzo proustiano, però strappato e smagliato in più punti, tenuto insieme solo da una prosa involuta, ripetitiva che procede e ritorna, sbanda e si arresta.
Bon, non meniamo il can per l'aia.
Nel 1949 Faulkner ha vinto il premio Nobel per la letteratura.
Avesse scritto "solo" il primo capitolo di "L'Urlo e il Furore" se lo sarebbe meritato ugualmente, secondo me.

Nel secondo capitolo abbiamo lo stream of consciousness di Quentin (maschio); che… mah sarà che venivamo dal capitolo precedente, che è stato sublime, sarà che non mi ha appassionato né il personaggio di Quentin né quello del suo amore, mi ha lasciato abbastanza indifferente.
Il terzo è molto più "classico", come impianto, e ci riporta la narrazione di Jason.
Il cinico, sarcastico e brutale Jason.
Che fra una madre lagnosa ("sono un tale peso per te, per fortuna fra un po' morirò…"), un padre alcolizzato, uno zio spiantato e con manie di grandezza, una sorella ninfomane, un fratello incestuoso e l'altro ritardato, una nipote di facili costumi & ladra, la vecchia governante che pretende di comandare in casa sua e la coorte dei di lei figli e nipoti… insomma qualche motivo per essere cinico, sarcastico e brutale forse forse ce l'aveva pure lui.
Ma può essere semplicemente la mia ben nota stima per i personaggi del fare e l'idiosincrasia per quelli più "donferranteschi". Osservo di passata che – anche qui – i personaggi femminili son veramente notevoli.
In negativo.
Soprattutto il perno della vicenda, l'ineffabile Candance (Caddy); è interessante come il personaggio di declina e si definisce nel passare dalla narrazione di Ben, a quella di Quentin e a quella di Jason.
Ho invece letto che nel film (tratto dal romanzo dal regista Martin Ritt, nel 1959, che non ho ancora visto), l'io narrante è Quentin-femmina (la figlia di Candance). Ciò mi incuriosisce assai e mi sa che presto colmerò la lacuna.
Adesso leggo "Luce d'Agosto".
Sì, colmare questa lacuna è stato doveroso.
E piacevole.

Prendo congedo con parte del discorso di Faulkner in occasione della consegna del Nobel:
"I decline to accept the end of man. It is easy enough to say that man is immortal simply because he will endure: that when the last dingdong of doom has clanged and faded from the last worthless rock hanging tideless in the last red and dying evening, that even then there will still be one more sound: that of his puny inexhaustible voice, still talking.
I refuse to accept this. I believe that man will not merely endure: he will prevail. He is immortal, not because he alone among creatures has an inexhaustible voice, but because he has a soul, a spirit capable of compassion and sacrifice and endurance. The poet’s, the writer’s, duty is to write about these things. It is his privilege to help man endure by lifting his heart, by reminding him of the courage and honor and hope and pride and compassion and pity and sacrifice which have been the glory of his past. The poet’s voice need not merely be the record of man, it can be one of the props, the pillars to help him endure and prevail."
Vero che l'aveva detto anche Foscolo, ma non dispiace risentirlo.

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Tutti. Ma leggendo PRIMA la prefazione.
Come voleva Faulkner.
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    04 Febbraio, 2015
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Realtà corrotte

Occorre fare una premessa importante che può salvare questa lettura a chi ne ignora la natura, come è capitato a me inizialmente. Lo stile adottato da Faulkner per quest’opera è quella del flusso di coscienza: la narrazione va avanti tra i pensieri spesso sconnessi e interrotti dei personaggi. Come ben sapete la mente umana è un fiume in piena e non esiste un filo logico nella formulazione dei pensieri, ed è così che scorre il romanzo, quindi accingetevi alla lettura con questa consapevolezza e potrete apprezzarne le sfumature e i contenuti. Anche se non apprezzo particolarmente questo stile, Faulkner lo adotta in maniera superba e rende la lettura complessa ma in questo modo indelebile come forse non avrebbe potuto fare diversamente.

Ci troviamo al cospetto dei Compson, famiglia dall’importante passato e dalla forte influenza nella città di Jefferson. Una famiglia oltremodo controversa e travolta dalle avversità, un padre che si lascia andare all’alcool, una madre pazza e apprensiva, quattro figli di cui uno pazzo dalla nascita e dei servi di colore tra i quali spicca la carismatica domestica Dilsey. Saremo partecipi del decadimento di questa grande famiglia, trascinata nelle tenebre dai suoi stessi componenti, che Faulkner ci farà scrutare nel profondo. Esistono realtà che si corrompono, non importa quanto grandi e gloriose possano esser state, non v’è passato tanto forte da resistere alla corruzione del presente. Realtà che si lacerano e diventano qualcosa di contaminato e insalvabile, all’interno delle quali non ci si può che infettare. L’unica salvezza dalla caduta l’ha chi, per quanto dolorosamente, da quella realtà si tira fuori per non essere partecipe della sua miserabile fine. Anche nel fango può nascondersi un diamante, ma perso all’interno del sudiciume questo non avrà alcun valore e dovrà tirarsene fuori per non essere perso per sempre. Però bisogna guardare in faccia alla realtà e accettare che non tutti i cumuli di fango nascondono un diamante, anzi.
Difficile dire se ci sia qualcuno dei Compson che abbia tirato fuori sé stesso dalla rovina, fatto sta che Benjamin, il figlio nato “idiota”, conserva una purezza che persone che si giudicano migliori di lui hanno irrimediabilmente perso.

“[…] Non te lo do perché tu possa ricordarti del tempo, ma perché ogni tanto tu possa dimenticarlo per un attimo e non sprecare tutto il tuo fiato nel tentativo di vincerlo. Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L’uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un’illusione dei filosofi e degli stolti.”

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ferrucciodemagistris Opinione inserita da ferrucciodemagistris    12 Settembre, 2014
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"Reducto absurdum"

Profondo sud degli Stati Uniti d'America alla vigilia della crisi del 1929. Una narrazione divisa in quattro parti con date diverse raccontate da personaggi diversi e singolari; il tempo sfugge alla nostra comprensione; è immobile, non strutturato, impalpabile, superfluo. I monologhi e i dialoghi sono paragonabili a una cascata difficile da risalire; un labirinto mentale, una matassa incrinata senza bandolo ma, nel contempo, ricco di riflessioni "sui generis" facilmente perdibili nei meandri della palude sferica per cui si ha la sensazione di improbabile uscita.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    23 Settembre, 2013
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The sound and the fury

Correva il lontano 1929 quando Faulkner pubblicava “L'urlo ed il furore”.
E' un romanzo di cui tanto si è scritto, è un romanzo da approcciare consapevoli della complessità stilistica di cui è espressione.
E' consigliabile abbandonare la calde coperte cui ci ha abituato tante parte della letteratura e assaporare pagina dopo pagina la voce dell'autore, provando un lungo brivido iniziale ed un freddo disorientante.
Questo è William Faulkner. Egli percorre nuove strade espressive, utilizzando la tecnica del “flusso di coscienza”, catapultando il lettore in un meandro di pensieri, di immagini, di ricordi che sfociano in irrefrenabili monologhi interiori, sconvolgendo i piani temporali presente e passato, lavorando sull'essenzialità delle parole e caricandole di significato.

Forte e prorompente è anche il contenuto del romanzo; un'immagine indelebile della decadenza umana, animi esacerbati, menti malate, famiglie alla deriva, cui fa da sfondo il grande sud americano, terra di contrasti e testimone di un'integrazione razziale difficile.

I componenti della famiglia Compson, sono voci, urla, disperazione, annientamento; attraverso i lori pensieri è possibile ricostruire una storia dolorosa, fatta di assenze, rancori, violenze, sconfitte.
Sono gli anni della grande crisi americana ed essi si riflettono sulla società, di cui il romanzo ci racconta una sorta caduta agli inferi.

Coloro che vorranno dedicare un pizzico di impegno per leggere il romanzo, si troveranno ripagati dalla conoscenza di personaggi che si mettono a nudo, senza ipocrisie, uomini e donne perduti, condannati dalle colpe proprie e altrui, lontani dalla strada della redenzione, ritratti in maniera sublime da una penna poderosa che riesce a catturare e rappresentare tutta la tragicità della vita.

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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    11 Settembre, 2013
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Romanzo di una sconfitta.

Finalmente Faulkner. L'ho cercato spesso, ma difficilmente ero riuscito a trovarlo, leggevo altri libri e trovavo riferimenti a lui, così, finalmente, dopo tante rincorse, eccolo. È il primo che leggo e quindi logicamente ho deciso di partire dal più importante in ordine cronologico, "L'urlo e il furore". Questo romanzo esce nello stesso periodo di "Addio alle armi" di Hemingway, e, sebbene il tipo di scrittura sia completamente diverso (a causa delle diverse influenze subite dai due autori), qualcosa che collega questi due esponenti della "generazione perduta" tra loro, o ad altri scrittori di quel tempo come Steinbeck e Fitzgerald, c'è. Il romanzo racconta della storia della famiglia Compson, una famiglia americana del sud degli Stati Uniti, che una volta era ricca e agiata ed ora si ritrova sull'orlo del baratro, sia in senso economico che morale. Il libro è diviso in quattro macro capitoli, e il narratore (che nei primi tre parla in prima persona e nell'ultimo in terza) cambia in ogni capitolo, ed in ogni capitolo c'è appunto un "urlo" di disperazione che poi si risolve in un "furore", e cioè un azione sconvolgente, estrema, che lascia il segno. Nel primo capitolo (forse il più bello) parla Ben, uomo di 33 anni, affetto da un grave ritardo che lo porta a comportarsi come un bambino di 10 anni. L'urlo di Ben è l'amore per la sorella, che lui vede come una seconda madre e dalla quale non riesce a separarsi, il furore è la castrazione di Ben (dopo che aveva tentato di violentare una ragazza in mezzo alla strada) e la successiva reclusione in un manicomio. Nel secondo capitolo è Quentin che parla, il rampollo della famiglia, per mandarlo a studiare ad Harvard era stato venduto il pascolo di Ben, ma Quentin ad Harvard non studia, pensa alla sorella che ama (L'urlo), ma in questo caso non è amore come quello di Ben, platonico e materno, bensì amore carnale, che, vista l'impossibilità nel realizzersi (sono fratelli), lo porterà al suicidio (il furore). Nel terzo capitolo il narratore è Jason, fratello cinico e crudele, che non solo ruba i soldi che la sorella, ormai lontana, invia alla figlia rimasta a casa (anche lei si chiama Quentin, in onore dello zio morto per amore della madre), ma tratta la nipote in maniera crudele, accusandola di essere una prostituta come la madre (L'urlo), finirà con Quentin che fugge con un venditore ambulante derubando Jason di tutti i suoi risparmi (il furore). L'ultimo capitolo, sicuramente il più profondo, è narrato in terza persona, ed è Dilsey che parla, la cuoca di colore di casa Compson. Questo capitolo è diverso dagli altri, non ci sono un urlo ed un furore palesi come nei capitoli precedenti, ma in questo capitolo Dilsey, in maniera materna e generosa cerca di esplicare meglio il carattere dei vari membri della famiglia Compson, mostrandoci i lati umani di ognuno di loro, come per mettere pace ed armonia in una famiglia che ormai ha perso tutto. È un romanzo per nulla facile, vuoi per lo stile, Faulkner infatti era un grande ammiratore di Joyce, e usa frequentemente in questo libro lo stream of consciousness, vuoi per i temi trattati, è la storia di una sconfitta, su tutti i fronti, una storia triste. È difficile da seguire, soprattutto all'inizio, i personaggi sono tanti e vengono tirati in mezzo senza preamboli, spesso sono dovuto ricorrere all'aiuto di google per comprendere certi passaggi... Però, se riuscirete ad arrivare fino alla fine sono certo che non resterete delusi, la profondità con cui tocca certi temi, certe delusioni, nonché la sconfitta in se, vera protagonista (insieme alla sorella Caddy, lei per prima sconfitta) sono senza dubbio unici. Meno facile di Hemingway, ma forse più profondo.

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Maso Opinione inserita da Maso    26 Aprile, 2013
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Menti di tenebra

Neanche a farlo apposta, si continua con quella che sta diventando una personalissima serie letteraria, un viaggio nelle eccellenze indiscusse (carte alla mano) della letteratura moderna. Prima il Pulitzer di Ford, poi il Nobel di Faulkner. Contrariamente alla rilevanza che sembra io attribuisca eccessivamente a questi riconoscimenti, di fatto meritati ma non unici nell’insieme delle discriminanti, preciso la casualità dell’accadimento. Non si tratta di snobismo, né di ristretta selezione critica delle mie letture, è stato il caso a presentarmi insieme queste due opere e ne sono rimasto estremamente soddisfatto e in parte stupito. Stupito soprattutto per una lezione che ho definitivamente assimilato e che esula, in questo caso, dal libro in questione. Una lezione che mi ha mostrato l’importanza cruciale di attribuire alle altrui opinioni un’importanza assolutamente relativa, che deve condizionare in modo minimo le nostre intenzioni. Se è vero infatti che tutte le opinioni sono fondate su un’alta percentuale di soggettività di giudizio, è vero anche che è inevitabile lasciarsi condizionare anche in minima parte da giudizi perentori sia in positivo che in negativo. Quando cerchiamo dei pareri a proposito di un’esperienza che abbiamo intenzione di fare, che sia un viaggio, la visione di un film, la lettura di un libro e quant’altro, lo facciamo perché necessitiamo di un piccolo faro che ci indirizzi nella giusta direzione, evitandoci delusioni o spingendoci verso sicure soddisfazioni. Tutto ciò è lecito e rientra nella più assoluta normalità di comportamento. Quello che ho imparato, però, è che anche trovandosi di fronte a giudizi negativi e pareri che tentano di farci desistere, nulla è più importante di un pizzico di testardaggine (e non di cieca cocciutaggine, che è differente) che ci permetta comunque di insistere in un proposito preposto.

Nel caso specifico, mi era stato detto che “L’urlo e il furore” è un libro molto complesso, di difficile comprensione, non adatto a tutti i lettori. Tirate le somme, mi congratulo con me medesimo per non essermi fidato di nessuno, poiché se l’avessi fatto ora mancherebbe al mio mosaico una delle tessere più sfavillanti. Entrando nel merito, il fatto che sia un romanzo complesso è più che assodato. Si tratta di una complessità dovuta principalmente alla modalità della narrazione, tutt’altro che insolita, in verità, dato il seguito eccelso e numeroso di scrittori moderni e contemporanei che si sono serviti dello stream of consciousness per raccontare se stessi, gli altri e il mondo. Questo flusso di coscienza è una delle caratteristiche portanti del romanzo, quella che salta più all’occhio e quella che ci permette di immedesimarci con incredibile enfasi, pathos e partecipazione negli animi dei tre personaggi che ci raccontano questa storia. Una storia di disperazione, di decadimento morale, di bassezze turpi e crude. La storia di una famiglia che, nello scenario degli States sudisti di inizio secolo, vede i propri componenti in una luce impietosa, capace di illuminare senza pietà i sentimenti più grotteschi dell’essere umano, del suo approcciarsi a realtà difficili come quella del ritardo mentale, della scelleratezza, dell’incesto, dell’avvicendarsi di rapporti familiari malati e gestiti con noncurante indifferenza. E’ un’analisi estremamente difficile da compiere quella che andrebbe fatta per questo romanzo di Faulkner, difficile perché la sensazione di amarezza, di disagio profondo che queste pagine sanno infondere è inesprimibile in maniera esauriente con parole comuni. Forse è proprio vero che non ci sono termini esattamente per tutto, questo mi sembra uno di quei casi limite. E forse è proprio questo il grande punto di forza di questo stile narrativo, quello di saper reinterpretare e far rivivere le sensazioni e i pensieri delle persone in un modo che colpisce il lato sensibile del lettore piuttosto che quello intellettuale. La frammentazione del testo imita i ricordi di Quentin, che vengono a galla come spesso succede realmente nella nostra mente, dove le connessioni di pensieri e ricordi sommersi dal tempo avvengono in maniera quasi del tutto casuale, magari per una sola piccola sensazione che ci riporta ad un esatto momento della nostra vita trascorsa. Questa frammentazione imita verosimilmente ciò che sembra accadere in noi e, inoltre, nel personaggio di Benjy (fratello di Quentin) e nel difficoltoso accesso alla sua mente confusa, dovuta ad una imprecisata malattia mentale, tenta di portarci ad una condizione di disagio psicologico e comportamentale non nostra. Ci fa vedere con occhi non razionali una realtà di vita sconvolgente, commovente e tremendamente incompresa. Ci mostra, infine, nella rigida mente di Jason (altro fratello) la contrapposizione dell’irrazionalità, la nemesi di quel flusso sensoriale, in un comportamento rigoroso e crudele verso una vita rovinata da un futuro franato su se stesso, rovinata da una famiglia che gli ha chiesto di sacrificarsi per poter continuare a vivere, seppure in condizioni di tensione continua. Tutto questo poutpourri di emozioni contrastanti e intime si staglia sullo sfondo altrettanto complicato della schiavitù e dell’asservimento razziale, in una quotidiana coesistenza di disprezzo e paradossale necessità, dove i cosiddetti “negri” si rivelano indispensabili per l’andamento più spicciolo della vita giornaliera e vengono al contempo discriminati e schiavizzati. Per chi, come me, è alle prime armi rispetto a questo genere di impostazione narrativa, con una conoscenza dell’opera joyceiana a livello, aimè, scolastico, credo che sia un’ottima partenza, utile per comprendere quanto e come il flusso di coscienza entri nelle nostre corde. In definitiva, con un romanzo di tale levatura, credo sia appropriato e quasi necessario uno scambio di opinioni, un confronto utile ad investigare il differente e soggettivo bagaglio di sensazioni e spunti, che, sebbene incastonati all’interno di un contenitore di profonda tenebra, risplendono inequivocabilmente per illuminare le nostre coscienze.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    25 Febbraio, 2013
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L'urlo e il furore

Faulkner ci getta di prepotenza nella vita della famiglia Compson e non lo fa raccontando le loro vicende, ma mostrandoci i loro pensieri, come questi si presentano nella loro mente.
Abile conoscitore di Joyce e del suo Ulisse, Faulkner riesce nel rendere proprio quel flusso di coscienza, a perfezionare ciò che era già perfetto, creando uno stile unico.
La famiglia diviene un'unica entità, fatta di tante sfaccettature e ognuna di queste è un mondo a sè fatto di pensieri, emozioni e contraddizioni. Ciò che rende questa saga familiare il capolavoro di Faulkner non è la trama, ma lo stile. Non è un pedissequo avvicendarsi di eventi, non è un racconto, sono i pensieri che di volta in volta affollano la mente dei protagonisti, è attraverso questi che capiamo, a poco a poco, ciò che sottende alla sventura.
L'impresa non è delle più semplici e l'autore non lo nasconde; è il primo capitolo ad essere il più complicato, poichè i pensieri sono quelli di un idiota, che si affollano in una dimensione dove il tempo e lo spazio non esistono, i piani sono sovrapposti e dove i cinque sensi hanno dei limiti sfumati e quasi si compenetrano. E' necessario abbandonare ogni logica, ogni schema e lasciar scorrere le parole in un fluire di delicate e emozioni che accompagnano in un mondo semplice, ma doloroso di un uomo senza colpa e senza coscienza di sè. Un viaggio meraviglioso dove ogni precedente visione del mondo è scardinata, distrutta, dissolta, in cui non c'è spazio per la pietà, ma l'oportunità di conoscere l'inconoscibile, di capire ciò che davvero non ci sarà mai concesso di apprendere con l'esperienza diretta: ciò che un idiota prova.
Faulkner si spinge oltre il limite del concepibile, facendoci conoscere i tormenti di un suicida che si insinuano nel quotidiano, improvvisi e repentini, ma continui, come insetti che non riesce e forse non vuole, debellare, così in ogni strada, in ogni toccante episodio di quel giorno i pensieri tornano e aggiungono angoscia all'angoscia e come un gorgo risucchiano tutto.
Le ombre che avvolgono tutto il libro, che velano e svelano la realtà, sono le vere protagoniste ed è attraverso di esse che il particolare si fa universale e che la singola famiglia diviene portavoce della miseria dell'umanità e molto lontano, forse proprio nel loro mondo, dove sono libere e padrone, che un bagliore di luce può generare la speranza che spinge gli uomini ad andare avanti.
Un'opera che lascia il segno, che come fu per L'Ulisse, non può lasciarci come ci ha trovato.
Un inno alla scrittura che si fa arte.

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pupa Opinione inserita da pupa    05 Gennaio, 2013
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Dilsey

Quattro date, quattro flashback, quattro personaggi che sono le voci narranti del romanzo, non necessariamente in successione temporale: questa è la risposta che Faulkner, appena sposato, dà a quella sete di libertà che ha la forza d'urto di una rivoluzione. Freudismo, sesso, violenza, scardinamento dei piani temporali, flusso di coscienza sono i temi maggiormente cari. Faulkner ha veramente un ruolo di primo piano con effetti di ritorno assai rilevanti anche sulla letteratura europea. Leggere L'urlo e il furore richiede impegno ed abitudine all'ordine mentale delle voci che sono qua e là dipanate nel romanzo. Il messaggio di Faulkner è drammaticamente definitivo e serve a poco la senzazione di un velatissimo rimpianto nei confronti di chi, nell'ultima parte, possiede nonostante tutto la forza dell'accettazione e la fiducia nella salvezza. La descrizione delle atmosfere del Sud di quell'America e della famiglia Compson ne fanno un ritratto torbido e drammatico di una generazione difficile d'amare e da dimenticare in una saga toccante e geniale di oscure vicende da cui è impossibile uscirne.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Gennaio, 2013
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l'urlo e il furore di Willam Faulkner

Spegniti, spegniti, breve candela!
La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore
che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena,
e del quale poi non si ode più nulla; è una storia
raccontata da un idiota, piena di rumore e furore,
che non significa nulla.

Queste le parole di Mcbeth (Shakespeare - atto V, scena V, vv 23-28), a cui Faulkner ha attinto per il titolo del suo capolavoro, che sottolineano l’insensatezza e l’inutilità della vita, una storia raccontata da un idiota, piena di “sound and fury”.
E inizia proprio con il monologo del personaggio dell’idiota, Benjy, la prima parte del racconto intitolata “Sette Aprile 1928” alla quale seguono “Due Giugno 1910”, “Sei Aprile 1928” e infine “Otto Aprile 1928”: quattro giorni descritti e dedicati ai quattro personaggi più importanti del romanzo, senza tuttavia un "logico" ordine cronologico. Già dai titoli delle singole parti, dunque, si deduce come la narrazione sia improntata sugli schemi della “durée bergsoniana” già sperimentati con tecnica innovativa da James Joyce. La successione temporale degli eventi, disordinata e spesso di difficile comprensione, rappresenta il disordine mentale e morale che regna tra i componenti della famiglia Compson, la cui storia ci viene descritta con impietoso realismo.
La prima giornata, il sette aprile, introduce tutti gli altri personaggi attraverso la figura del ritardato mentale Benjy, che insieme con Quentin, Caddy e Jason costituisce la prole disgraziata e in un certo senso “maledetta” della famiglia Compson. La stessa madre, Caroline appare come una donna debole che si cela volentieri dietro malanni più o meno pretestuosi, al fine di allontanare le responsabilità e gli affanni. Il padre, alcolizzato, morirà prematuramente.
La menomazione mentale di Benjy fa sì che egli, con la sua lagnosa presenza, pur essendo apparentemente lontano dal comprendere gli eventi che travolgono la famiglia, abbia la stessa funzione del clown shakespeariano unico vero e sensibile interprete della realtà.
La sezione intitolata “Due Giugno 1910” è dedicata al monologo di Quentin: questa è senz’altro la parte più difficile del romanzo, per il complesso flusso di coscienza grammaticalmente sconnesso.
Il balzo indietro nel tempo ci introduce nel dramma vissuto dai fratelli Quentin e Caddy che si macchiano di incesto. Questo peccato, mai superato, condizionerà la vita di Caddy e porterà Quentin al suicidio. Nel racconto di Quentin è continuamente presente il tema del tempo, attraverso il simbolo dell’orologio e del suo ticchettio. Il simbolismo, così importante nella tradizione letteraria americana, da Hawthorne (The scarlet letter) a Melville (Moby Dick), è presente nell’opera di Faulkner, ed emerge in tutti i suoi romanzi. “…il babbo diceva che il tempo è morto, finchè viene rosicchiato dal ticchettio delle rotelle; solo quando si ferma, il tempo torna in vita.” La vita, dunque, è legata al tempo-non tempo, all’ immobilità del presente.
In questo capitolo la morte di Quentin viene ripetutamente annunciata dal suo desiderio di calpestare la sua ombra che egli vede riflessa nell’ acqua e di spingerla in fondo, sempre più in fondo.
Caddy, la sorella amata, viene continuamente rievocata, ma tornerà molto più prepotentemente nel capitolo successivo, in cui è il fratello Jason a raccontare la giornata del sei aprile 1928. Questo è il fratello a cui si appoggia la madre Caroline, rimasta sola con lui dopo la morte del figlio e la partenza della figlia, sposata e poi separata. Il carattere meschino e egoista di Jason si rivela in tutta la sua tragica dimensione nel rapporto con la giovane Quentin, figlia di Caddy, così chiamata in ricordo del fratello. Jason si macchia di ogni sorta d’azione bassa e disonesta, per sfogare il suo odio nei confronti della sorella e della nipote a cui attribuisce la causa della sua mancata realizzazione nella vita.
L’ultimo capitolo, datato “Otto Aprile 1928, è dedicato all’unico personaggio dotato di sensibilità e capace d’un sentimento d’amore cosciente, Dilsey, la serva “negra” spesso trattata con disprezzo dai componenti della famiglia, che tradiscono, in questo modo, i persistenti atteggiamenti schiavistici di certa gente del sud degli Stati Uniti di quell’ epoca. La debolezza di Dilsey, appartenente a una minoranza, è la sua forza ed è proprio la forza che le permette di prendersi cura lei stessa, donna di colore, di minoranze bianche, come Benjy, la cui mente vaga fuori del mondo, o di Caddy, emarginata dal suo stesso peccato e dalla vita dissoluta che ha scelto di condurre. Una famiglia tragica e maledetta quella dei Compson, che rappresenta la decadenza della ricca borghesia dell’inizio novecento, una borghesia che necessita di rinnovamento e di nuova linfa. Quasi un drammatico messaggio, quello di Faulkner: se la società non sarà in grado di trovare in sé la forza e la capacità di rinnovarsi e non saprà superare i pregiudizi che le impediscono di assimilare nuove energie provenienti dall’esterno, difficilmente avrà possibilità di salvezza.

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Ulisse di James Joyce, La paga del soldato di W. Faulkner. Lettura impegnativa.
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