L'uomo che guardava passare i treni L'uomo che guardava passare i treni

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kafka66 Opinione inserita da kafka66    13 Mag, 2024
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La maschera del perbenismo

Davvero straordinaria quest'opera di Simenon, intima, profonda, emozionante. Un personaggio che guarda dentro se stesso e si accorge di aver sempre portato una maschera, per compiacere gli altri, senza il coraggio di guardare oltre, di trovare sfogo alle sue pulsioni, ai suoi desideri più profondi. Parabola sulle convenzioni, sul perbenismo, sulla "immobilità" della coscienza, sulle frustrazioni interiori. Alcuni passaggi dell'opera sono così intensi da rimanere scolpiti nella mente, come la scena del cenone di Capodanno, oppure l'epilogo, in cui Kees Popinga pronuncia la frase più vera e più amara di tutta l'intera vicenda.

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    19 Luglio, 2022
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Tanta lentezza

Kees Popinga è un uomo normale, anzi forse un po' sopra la norma. Ha un lavoro di rilievo in una azienda importante, si è fatto costruire a suo gusto una villa di cui è orgoglioso, ha una moglie, forse non la più bella e affascinante, ma comunque devota e amorevole e una prole adeguatamente educata. Tutto scorre su binari ben oliati: giornata al lavoro, uscita settimanale per gli scacchi fino a quando in una sera dove la routine cambia, incontra il suo capo che gli rivela che la sua azienda è prossima alla bancarotta e che intende inscenare un suicido per poi andarsene all'estero. In quel momento, non sappiamo se qualcosa si rompe, se una rotellina nella testa di Popinga inizia a girare al contrario o se in realtà la sua vera natura viene finalmente alla luce. Tanto è, che il nostro eroe fa un doppio, o triplo salto mortale e da uomo ordinario, quasi opaco si trasforma in un ricercato a livello internazionale. In modo naturale si ritrova a commettere delitti, senza avere sensi di colpa, o remore alcuna. Con la stessa perizia che mette al mattino per prepararsi ad andare al lavoro organizza la sua latitanza, attento ai dettagli e sempre un passo avanti a chi lo cerca. Questa grosso modo la trama, che in effetti ha il suo perché e che è piuttosto interessante tenendo conto anche dei risvolti psicologici messi in luce e di una buona serie di domande che mi sono affiorate alla mente mentre leggevo. Trovo che una caratteristica di Simenon sia quella di affrontare con calma i suoi racconti: non è certo uno di quelli che tiene il lettore per i capelli e se lo trascina fino all'ultima pagina. In generale questa caratteristica non mi dispiace. In questo caso, però il libro mi è sembrato un po' troppo lento. e con questo nulla a obiettare sulla capacita di scrivere o di immaginare storie ed ambientazioni originali e nuove, che non si discute.

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anna rosa di giovanni Opinione inserita da anna rosa di giovanni    01 Dicembre, 2021
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Squali si nasce, non si diventa

L’UOMO CHE GUARDAVA PASSARE I TRENI (1938) di GEORGES SIMENON

Riletto 18 anni dopo, questo romanzo non ha perduto nulla per me dell’interesse e dell’emozione della prima lettura. Scrittura sobria, atmosfere parigine come quelle di film quale “Il porto delle nebbie” di Marcel Carné, che è proprio del ‘38, e una narrazione sempre tesa, anche perché, dopo l’introduzione, è il protagonista stesso che racconta via via ciò che vive - azioni, pensieri, sentimenti -, un protagonista peraltro singolare nella sua assoluta “normalità” borghese: un Olandese che, mutatis mutandis, immagino come quello de “I coniugi Arnolfini” di van Eyck, benchè un po’ più in carne.

Per un caso del tutto improbabile, una sera Kees Popinga (quale miglior nome per dire il ridicolo del personaggio?) incontra il suo principale, che tra un bicchiere e l’altro gli rivela di accingersi a suicidarsi per finta e fuggire con la cassa per andare a godersi la vita in qualche luogo esotico. Resosi conto di essere stato l’utile idiota del ricco armatore, senza mai accorgersi dei suoi loschi affari, Popinga, che si è sempre ritenuto più intelligente degli altri - non li batteva tutti giocando a scacchi? - vuole provare a se stesso e al mondo di essere anche lui un dominatore, persino uno che fa paura se vuole: “a quarant’anni ho deciso di vivere come mi piace, senza preoccuparmi dei costumi, delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che nessuno li osserva e che fino ad oggi mi hanno preso in giro” (cap. VIII). Lascia quindi senza esitazioni famiglia, lavoro, paese, fiducioso di potersi prendere dalla vita tutto ciò cui finora ha rinunciato (i treni che vede sfrecciare rappresentano per lui le misteriose avventure che da sempre avrebbe voluto vivere) per adattarsi a desideri e principi mai sentiti veramente suoi, e innanzitutto va a proporsi all’amante del suo principale, che non immaginava essere una prostituta d’alto bordo (anche lei quindi in un certo senso lo ha preso in giro). Senonchè lei ride di lui e lui, offeso dal suo riso di cui sente il significato offensivo, la strangola. Scattano le ricerche da parte della polizia e tutti i giornali parlano di lui. All’inizio questa situazione di assoluta irresponsabilità e perciò di assoluta potenza, lo esalta come una partita a scacchi del cui esito lui è sicuro, fidando nella sua abilità di prevedere le mosse dell’altro, e persino pretendendo che stampa e polizia si occupino di lui come di un uomo estremamente interessante. Ma la vita è più complicata di un gioco e lui deve non solo fare i conti sia con un progressivo indebolimento della sua baldanza iniziale a causa della crescente solitudine (tutto si svolge nel periodo natalizio …) sia con quella che gli sembra colpevole incomprensione da parte dei giornali, che lo definiscono “il pazzo di Amsterdam”, ancor più quando avrà aggredito una seconda donna, che pure gli si era rifiutata. Alla fine nuovamente il caso porterà scompiglio tra le sue pedine, dandogli scacco matto: uno dei più abili scippatori d’Europa (!), che lui ha preso per un turista americano, gli ruba tutto il denaro che gli resta riducendo così drasticamente le sue possibilità di fuga e soprattutto rivelandogli che in realtà lui “è solo un dilettante” e come tale non meritevole dell’attenzione della stampa e della polizia (a proposito di polizia, sicuramente Popinga si occupa del commissario Lucas più di quanto Lucas si occupi di Popinga). Scopertosi “un dilettante”, Popinga desidera ormai solo una cosa: sparire, ma non senza aver prima scritto a un giornale che quando la sua lettera giungerà a destinazione, lui avrà già iniziato una nuova vita in un luogo che non rivela. E che vita! “Avrò un nome onorevole, uno stato civile indiscutibile, e farò parte di quella categoria di persone che possono permettersi tutto perché hanno denaro e cinismo (…) tratterò grossi affari (…) sceglierò le mie amanti ufficiali tra le star del teatro e del cinema”. A questo punto, avendo ben pianificato la sua azione - pensa -, con addosso solo un brutto soprabito perché nessuna traccia porti alla sua identificazione e alla smentita di quanto ha scritto, si stende sui binari del treno… Senonchè - altro caso da lui non previsto - i macchinisti lo vedono, lo portano al sicuro ecc. ecc. e Popinga si ritrova infine in un manicomio olandese dove la moglie va a trovarlo cercando inutilmente di coinvolgerlo nelle problematiche familiari e un dottore non capisce quanto matto lui sia. D’altra parte lui stesso si è sforzato per tutto quel tempo di spiegarsi e di spiegare al mondo la sua propria personalità, ma … “Non c’è una verità, vero?”, dice al medico sorpreso di trovare vuoto il quaderno in cui il suo paziente si proponeva di scrivere “La verità sul caso di Kees Popinga”.

NOTE. 1. Circa l’accostamento al protagonista de “Lo straniero” di camus, Popinga è chiaramente un personaggio antipatico, in quanto incapace di empatia persino coi suoi figli e costantemente preoccupato di essere apprezzato dagli altri e adeguato alle aspettative sociali, però non mi sembra che lo si possa equiparare a Meursault, che per Camus è fondamentalmente l’uomo che nega ogni retorica, l’uomo che non finge, e quindi, nonostante tutto, un personaggio positivo; 2. In un primo momento pensavo di intitolare la mia opinione “La vita è più complicata di una partita a scacchi” oppure “Eppure il più bravo ero io!” e alla fine ho scelto quello che vedete pensando alle pagine antecedenti il tentativo di suicidio, in cui l’accento è sul giudizio di dilettantismo che Popinga esprime su di sé.

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qualunque cosa, nonchè il cinema francese degli anni '40 e '50.
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Molly_ Opinione inserita da Molly_    20 Luglio, 2021
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"Non c' è una verità, ne conviene?"

“...e l’impossibile infrange d’un tratto le dighe della vita quotidiana.”

Kees Popinga è un onest’uomo olandese, agiato, con moglie e figli e vita tranquilla. Ma improvvisamente la bancarotta fraudolenta del suo datore di lavoro lo mette di fronte alla prospettiva di un inevitabile tracollo finanziario, alla quale reagisce in modo del tutto abnorme: abbandonata la famiglia, fugge a Parigi, dove a poco a poco si trasforma in uno spietato assassino che uccide solo per il gusto di farlo e sfidare la polizia.

Vi è mai capitato di leggere un romanzo giallo invertendo il punto di vista? Ebbene questo romanzo è un noir sotto ogni aspetto ma l’autore ha cambiato le carte in tavola. Fin dall’inizio conosciamo Popinga, la sua storia e come è arrivato a uccidere. Seguiamo i suoi passi, le sue strategie per non essere arrestato e i suoi atti di sfida verso la polizia parigina. Ma non sappiamo chi sia o come stia procedendo con le indagini il detective incaricato, nè quali prove o testimonianze siano state raccolte contro Popinga.

Un libro interessante e ben scritto che ti spinge addirittura a fare il tifo per il protagonista, un uomo che in fin dei conti non è descritto come un mostro, un paranoico probabilmente, ma anche simpatico per certi aspetti. Un uomo che a prima vista non sospetteresti mai. Che sia pazzo? O vittima degli eventi?

Questo non ci è dato saperlo, come dice Popinga stesso: "Non c' è una verità, ne conviene?"

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Belmi Opinione inserita da Belmi    14 Febbraio, 2021
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A me non è piaciuto

Non è facile recensire un libro con così tanti pareri positivi quando a te il libro non è piaciuto.

Cercherò di essere obiettiva, ho già letto altro di Simenon e solitamente i suoi libri mi sono sempre piaciuti; non ho letto solo Maigret, mi sono dedicata anche ad altri testi dove l'investigatore non era presente.

“L'uomo che guardava passare i treni” all'inizio l'ho trovato curioso e interessante, un uomo, Kees Popinga, con una vita regolare e sempre uguale, una notte scopre che il titolare sta per scappare e lasciare l'azienda sul tracollo finanziario.

Chiunque al posto del protagonista sarebbe caduto se non in depressione, almeno un duro colpo l'avrebbe preso, ma Kees Popinga invece stravolge tutto e parte finalmente per l'avventura e una nuova vita, quella a cui aveva sempre rinunciato. Prende un treno e va!

Popinga potrebbe rappresentare la rinascita o una nuova possibilità o comunque far riflettere su quello che a chiunque potrebbe capitare, ma io non ho trovato nessuna empatia con il protagonista.

Se Simenon presenta in maniera dettagliata la psicologia e il carattere di Popinga e la sua continua ricerca di qualcosa che gli era sempre sfuggito, dall'altra secondo me forza troppo con la storia.

Non mi sono sentita in sintonia né con lui né con gli altri protagonisti che interagiscono nel breve racconto. Quello che ho apprezzato è la Parigi sullo sfondo, con i suoi numerosi quartieri, ognuno caratterizzato da qualcosa di unico e diverso.

Probabilmente la colpa sarà mia viste le altre recensioni, a me non è piaciuto e non mi sento neanche di consigliarlo. Il bello della lettura è proprio questo, non tutto può piacere e non tutto arriva al lettore, l'importante è leggere sempre e comunque.

Buona lettura.

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Tomoko Opinione inserita da Tomoko    11 Aprile, 2020
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Pazzia o astuzia?

Io sono Kees Popinga, in procinto di compiere quarant’anni, lavoro da sedici anni nello stesso posto e vivo a Groninga. Sono l’emblema degli stereotipi sulla vita di media borghesia. Non sono un eroe, non sono una vittima, nemmeno un assassino. Non sono niente di niente, finché non ho visto il mio datore di lavoro Julius de Coster Jr. al Petit Saint Georges che si ubriacava scrupolosamente, voi non capite!
Tutte le certezze su ciò che ero e ciò che ho si frantumano in un istante.
Decido così di fare una partita di scacchi contro le mie abitudini.
“È evidente che il gesto di Popinga non è spiegabile se non con un accesso di follia. Quanto a sapere se in lui ci fosse predisposizione..”
“Per quarant’anni mi sono annoiato..ho guardato la vita come quel poverello che col naso appiccicato alla vetrina di una pasticceria guarda gli altri mangiare i dolci. Adesso so che i dolci sono di coloro che si danno da fare per prenderli. Seguiti pure a pubblicare che sono pazzo..dimostrerebbe..che il pazzo è lei, come lo ero io prima del Petit Saint Georges.”
Sono bravo a pensare e a ragionare. Ma era troppo tardi. Troppo tardi per tutto! Adesso capivo! Ero un dilettante? Se solo avessi potuto prepararmi..ecco perché i giornalisti non mi pigliano sul serio. “Se avessi voluto pochi giorni addietro avrei potuto far deragliare un treno che non è neanche difficile”.
La mente di Popinga comincia un po’ a vacillare rispetto a tutta la sua risoluta egocentrica astuzia. A meno che......Non siano gli altri a barare?
Peggio per loro.
“Sfido io! E se ad esempio Popinga lo avesse fatto apposta?”
Ed è solo l’ultima pagina, che stravolge tutto. Ma lascio a voi lettori, scoprire quale sia la verità sul caso Kees Popinga.

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zonauefa Opinione inserita da zonauefa    06 Agosto, 2019
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...siamo tutti Popinga ?

E un noir trattato dal punto di vista del colpevole
Popinga è un uomo standard, con qualche talento (… uno è gli scacchi), soffocato però da una vita regolare e abitudinaria, buon lavoro, casa discreta, famiglia normale, qualche serata al circolo o sosta al bar.
Ma dopo un grave inconveniente in ambito lavorativo, riflettendo sul suo stato, si trova immerso in un mare di mediocrità da cui decide improvvisamente di evadere.
Dopo un omicidio che commette quasi per caso è quasi compiaciuto nel suo nuovo ruolo di latitante fuggiasco, infastidito però dall’ opinione che di lui scrivono i giornali in cui non si riconosce, e anche dal fatto che si ritiene un po' sottovalutato dalla Polizia.
Più che sull’intreccio o sulla trama, il libro è incentrato sulla personalità del protagonista che risulta anche simpatico, e non è senz’altro nel il male come lo ritengono gli sconosciuti, o completamente folle come invece lo ritengono i conoscenti più vicini. Ma nemmeno lui sa bene chi è.
In questo bel racconto, viene trattata la banalità del male, forse ognuno di noi ha un Popinga dentro da tenere a bada.
La consapevolezza delle nostre abitudini, la percezione di aver buttato via il tempo, la cosa più preziosa che abbiamo, più diventare insopportabile, è può bastare qualcosa che rompa questo equilibrio ed essere capaci di mandale all’aria tutto

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    03 Mag, 2019
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Identità

«Si parte da un dettaglio qualsiasi, talvolta di poco conto, e senza volerlo si giunge a scoprire grandi principi» p. 113

Kees Popinga, trentottenne esausto, stanco e sfiancato dalla sua esistenza di sopravvissuto, rappresenta l’eroe simenoniano per eccellenza. Tutto accade per caso: nel momento esatto in cui concepisce che la sua vita di piccolo borghese sta per giungere al termine e che tutto quel in cui aveva creduto e investito si sta per sgretolare a causa di manovre speculative da parte del proprio capo che lo beffeggia e ritiene incapace di alcunché, ecco che questa consapevolezza di vita non vissuta sopraggiunge. E così, dalla detta alla fatta, quel grigio, quel piattume, quella quotidianità fatta di una moglie e di due figli mai davvero compresi e amati, diventa un qualcosa che rifiuta e da cui rifugge. Un treno, un biglietto di sola andata e via. Che si tratti di amnesia? Di una follia? Pensa chi lo osserva dall’esterno. Tante le opinioni di terzi che in tal senso si susseguono e che cercano di delineare i comportamenti e le azioni compiute da questo risvegliato protagonista. Tuttavia, più questi secondi attori cercano di tratteggiarne i confini e di stilarne gli schemi, tanto più egli rifugge alla visione data spiegando quella che è la sua verità.

«Dunque, non sono né pazzo né maniaco! Solo che a quarant’anni ho deciso di vivere come più mi garba senza curarmi delle convinzioni né delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che nessuno le osserva e che finora sono stato gabbato. […] Per quarant’anni mi sono annoiato. Per quarant’anni ho guardato la vita come quel poverello che col naso appiccicato alla vetrina di una pasticceria guarda gli altri mangiare i dolci. Adesso so che i dolci sono di coloro che si danno da fare per prenderli.» p. 140-141

Ne emerge una vera e propria partita di scacchi in cui Kees cerca di anticipare le mosse del nemico e al contempo di riscoprire la propria identità, identità che viene a perdersi e a sfumarsi allo sfumarsi delle certezze che sino ad allora lo avevano accompagnato. Indossa dei nuovi panni che lo esorcizzano, che lo rendono un uomo nuovo e privo di regole, che lo inducono a trascrivere tutto per mantenere la lucidità mentale, eppure, tanto più egli si sforza di raggiungere il suo estremo opposto, tanto più è prevedibile quella che sarà una caduta rovinosa e senza scampi e che in un certo senso lo riporterà proprio al punto di partenza di quella vertigine che lo aveva indotto alla ricerca della sua personale verità. Ma esiste davvero una (o più) verità?

«Non c’è una verità, ne conviene?» p. 211

Con una penna chiara, precisa e forbita Georges Simenon offre al grande pubblico un elaborato con personaggi solidi e concreti e che affascina più che per le vicissitudini (che a tratti toccano canoni assurdi e che fanno interrogare il lettore sui vari perché o che ancora tendono ad annoiare per una serie di riflessioni e digressioni che sono e restano mere dichiarazioni di volontà) per l’aspetto introspettivo che avvolge la figura del primo attore.
Per il resto, i temi cari all’autore quali la rottura con il proprio ambiente di origine, l’identità sino all’abbandono dei tratti caratteristici, la libertà in opposizione a quella vita e alla morale piccolo-borghese, ci sono tutti. Esattamente come quella conclusione per la quale quella libertà di fare, scegliere e di mettere a frutto le proprie capacità viene meno nel momento in cui non è permesso a Popinga di riconoscere la propria identità più profonda.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    18 Settembre, 2018
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SCACCO MATTO, MONSIEUR POPINGA

Kees Popinga è un assiduo, appassionato giocatore di scacchi. Il particolare non è secondario, perché come una vera e propria partita di scacchi, con le sue mosse e contromosse, le sue tattiche e strategie, egli affronta la sua originalissima avventura che, da un onesto e rispettabile impiego da procuratore, lo porta inopinatamente a diventare il ricercato numero uno della polizia criminale di Parigi. L’orgoglio di tenere in scacco le forze dell’ordine con la sua sola intelligenza, applicando nelle sue azioni quotidiane la stessa prudenza e la stessa sagacia di uno scacchista (ad esempio, non avere mai un metodo personale, facilmente identificabile, ma adattarsi sempre all’avversario che si ha di fronte), lo porta però fatalmente a trascurare le scarse risorse a disposizione (un alloggio da cambiare ogni notte, una giornata intera da riempire con una qualsivoglia occupazione, nessun abito di ricambio, pochi soldi in tasca), col risultato che, anziché diventare un novello Landru, finisce per cadere in un drammatico cul de sac. E come anni prima si era vendicato di una cocente sconfitta scacchistica in una partita ad handicap gettando un alfiere dell’avversario in un boccale di birra, così a Popinga non resta che reagire all’inevitabile arresto finale con una beffa estrema, rifugiandosi cioè come l’Enrico IV pirandelliano in una follia simulata.
Abile orchestratore di appassionanti meccanismi gialli, Simenon ne “L’uomo che guardava passare i treni” sceglie, a differenza di un normale romanzo poliziesco, di accentrare il mistero e la suspense non tanto nella trama (ridotta fin dai titoli a una banale serie di accadimenti, ben lontana dall’epica romantica dell’uomo solo contro tutti) bensì nel protagonista stesso. Chi è infatti Popinga? Un paranoico, un megalomane, un pazzo, un satiro, come sostiene a più riprese la stampa che si occupa del caso? Oppure un eroe anarchico e ribelle che lucidamente, a sangue freddo, decide di tagliare i ponti con la società per vivere senza più regole, freni inibitori e costrizioni sociali, come Popinga stesso pretenderebbe che gli fosse pubblicamente riconosciuto? A questo proposito, a me Popinga ha fatto spesso pensare a “Lo straniero” di Camus (in versione ovviamente più ironica e leggera), sia per il suo palese distacco dalla realtà (che a tratti potrebbe quasi essere scambiato per afasia) sia per la sproporzione tra i suoi atti e le sue reazioni emotive (come nel caso dell’omicidio di Pamela).
Il riferimento letterario più appropriato tra tutti è però senza dubbio “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello. Il fallimento clamoroso (ancorché venato di un canzonatorio senso di superiorità nei confronti delle persone “normali”) di Kees Popinga, costretto a scegliere tra l’alternativa se suicidarsi o recitare la parte del pazzo, è l’amara presa di coscienza che l’individuo è sempre costretto a soccombere di fronte a una società che, per espungere dal suo seno la scheggia impazzita rappresentata da quell’omino sostanzialmente innocuo, non esita a mettergli contemporaneamente contro (come in “M, il mostro di Dusseldorf” di Fritz Lang!) la polizia e la malavita, violando così il fair play “scacchistico” del protagonista. A ben vedere, il vero trionfo di Popinga, cui per converso avrebbe corrisposto lo “scacco matto” per l’avversario, l’astuto commissario Lucas, sarebbe stato il perfetto anonimato (e non già la celebrità, alla quale lui stesso sembra a tratti improvvidamente credere, scrivendo spavaldamente a giornali e polizia e amplificando in tal modo la risonanza mediatica del suo personaggio), ma, in un mondo che pretende di controllare tutto e tutti, ciò non è davvero possibile e gli aspiranti “signor nessuno”, si chiamino essi Mattia Pascal o Kees Popinga, sono alfine tristemente costretti allo smascheramento e all’eliminazione (sia essa in una prigione o in un manicomio).

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    14 Agosto, 2018
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Breviario dell'arte simenoniana

L’uomo che guardava passare i treni rappresenta un punto di crescita cruciale nella narrativa di Simenon. Scritto nel 1938, fa da ponte tra la linea chiara dettata dall’”Assasino”, uno dei suoi romanzi più gelidi e distonici, e lo splendido “La casa dei Krull”, apparso nello stesso anno. Kees Popinga, l’esuberante ed esausto protagonista del libro, è il più classico degli eroi simenoniani, una velleità e poco più. Classico proprio perché il guscio caldo e protetto della sua vita borghese si sgretola appena oltrepassato il vetro dell’apparenza. Kees Popinga ha esorcizzato le forze centrifughe e antisociali della sua anima con il rituale grigio e perfetto della sua vita, ha contratto la potenza eversiva della sua natura nel cerchio asettico della normalità. Eppure Simenon sa che tanto più l’uomo è vicino ad un estremo, tanto più grave sarà la sua caduta nell’altro, perché se c’è qualcosa che colpisce nell’assoluta mediocrità di questi uomini, nella loro tiepidezza, è appunto l’assoluta sproporzione delle loro azioni.Qui però la parabola discendente, il destino inappellabile che trascina la trama fino a consumarne il respiro, si avvita in una spirale tragicomica e assurda, squisitamente parigina, in cui il reticolo gelido e particellare delle azioni dei personaggi, si avviluppa nei tralci dell’assurdo.??

È un romanzo chiaro, questo Simenon, un’arte disvelata e proprio per questo, se possibile, un poco noiosa. Chi frequenta le pagine dello scrittore, non può non notare come i primi capitoli siano una continua dichiarazione di intenti, una metanarrazione che affascina nel mostrare se stessa. È proprio nella tensione fra trasparenza e ostacolo, nelle pieghe dell’ombra e dell’interpretazione, che la l’autore sfida il lettore, e forse tutta la luce, tutte le spiegazioni, tutte le sparse didascalie lasciate da Simenon, corrodono il fascino del libro. Di contro, L’uomo che guardava passare i treni è un ottimo terreno di studio per penetrare i segreti di questa arte, il congegno preciso dell’intreccio, il ritmo inappellabile della fine, per entrare in sintonia con la scrittura distillata e via via più rarefatta che rende Simenon tanto affascinante. La fortuna di questo libro tra il pubblico, in parte dovuto forse alla precocità della sua stampa, risiede forse nel compromesso che esso trova tra la natura più pura di Simenon, che si farà strada nei suoi romanzi più neri e crudi, e il fascino consueto di una narrativa più aperta e distesa. Il finale, al solito lacerante e caustico, non sorprende chi è abituato alle sue pagine, ma certamente ha il merito di strappare, una volta ancora, il velo della rivolta e mostrare il corpo nudo e indifeso dell’anima umana.

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martaquick Opinione inserita da martaquick    18 Gennaio, 2017
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LA VERITà SUL CASO KEES POPINGA

Il titolo semplice, l'uomo che guardava passare i treni, sembra quasi semplificare il contenuto di questo romanzo di Simenon, la strana storia di Kees Popinga e del giorno in cui decise di cambiare lo stile della sua vita.
Popinga, schiavo delle apparenze e delle etichette che si auto-da, è un ometto sicuro di sè all'inverosimile, si dichiara un brav'uomo con una bella casa e una bella moglie, un buon padre e un ottimo lavoratore e si diletta la sera nell'intrattenersi con la sua famiglia nel suo salotto con una stufa di buona manifattura, un sigaro in mano e la compagnia di moglie e figli.
E se questo fosse tutta una farsa? Una notte, che rimarrà la notte in cui Kees Popinga decise di cambiare vita, l'ometto ritrovandosi senza lavoro a causa di manovre illegali da parte del suo titolare, abbandona casa e famiglia e si mette in viaggio per ritrovare il vero sè stesso, assopito da tanti anni nei ruoli che lui stesso si è dato e di cui finalmente si vuole liberare.
Popinga commetterà azioni che determineranno la sua ricerca da parte della polizia, ma il succo delle vicende che coinvolgono Kees sono le sue riflessioni, in sostanza, che ci dicono fino a che punto un uomo che ha condotto una vita tranquilla ed esemplare possa d'un tratto buttare tutto all'aria per colpa di una stanchezza di pose e finzioni a cui siamo costretti nella nostra vita.
Le azioni di Popinga sembrano folli agli occhi esterni, ma per il nostro uomo è folle chi continua a vivere una vita che non sente sua e non possiamo che guardare con occhio benevolo la sua fuga dalla routine e dalla noia di una vita monotona, sembra quasi che Simenon delinei una linea molto sottile tra bene e male perchè sinceramente non riesco ad affermare se il nostro protagonista è un buono o cattivo, anche se a me personalmente non mi è risultato molto simpatico come personaggio.
Il romanzo mi ha preso molto anche non amando Popinga perchè è intrigante leggere la libertà che un uomo decide di prendersi per sentirsi libero, un desiderio nascosto di molti ma che in pochi hanno il coraggio di fare perchè la maggior parte delle volte la società con i suoi paletti tende a dare in ogni caso etichette anche a chi se ne vuole liberare, come a Popinga che viene descritto come folle, paranoico e satiro.
Lo consiglio sicuramente.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    07 Aprile, 2016
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Un salto nel profondo dell'animo umano

La vita borghese con tutti gli agi, le comodità che essa porta, un buon lavoro, una bella famiglia, un nome rispettabile. Una situazione invidiabile o che forse molti di noi vivono, una situazione che all'apparenza può risultare ideale, eppure l’animo umano è talmente complesso e spesso subdolo da sfuggire a certe dinamiche. La storia di un uomo per bene, che per bene si ritiene anche dopo tutto, un uomo chiuso in uno schema che può risultare troppo stringente, limitante della libertà personale.
Simenon va ancora a scavare nei profondi angoli del nostro essere, ci fa scoprire che rimanere nella nostra area di confort può essere comodo, ma ci limita, ci ingabbia in una realtà che potrebbe non essere la nostra.
Questo romanzo è un giallo che non ha molto da svelare, perché tutto è già svelato, un crescendo di tensione e aspettative che si conclude in maniera particolare e forse spiazzante. Qual è la verità sul caso Popinga? Leggete il libro e lo scoprirete potrei rispondere, in realtà non c’è una realtà, una singola verità, ma una molteplicità di punti di vista. Riusciranno i buoni a catturare il cattivo? In questo romanzo tutto è messo in discussione, la figura dei buoni mista a quella dei cattivi, Simenon è bravo a non marcare una distinzione netta tra il bene e il male, Popinga è il male? Se così è non mi è parso, nonostante tutto. Popinga non è un eroe, è un uomo semplice e complesso allo stesso tempo, un uomo che ha vissuto per quarant'anni una vita comoda, ma fastidiosa al contempo, dipende dai punti di vista. Un romanzo che ci porta a spasso come una piccola telecamera nascosta nella giacca del protagonista, ci fa vedere la vita con i suoi occhi, Parigi e i suoi alberghi, i suoi locali. Siamo immersi nella personalità del protagonista a tal punto da approvare senza troppe condanne tutte le cattive azione del signor Popinga. Ho provato simpatia per lui, quasi compassione, Simenon è un grandissimo in questo, ci presta gli occhi del suo protagonista e ci induce a pensare che non sempre il male è solo male.

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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    14 Gennaio, 2016
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Un borghese piccolo piccolo

Può esserci nella vita di un uomo un evento scatenante, un qualcosa che lo spinge a mutare, a comportarsi diversamente da come si è comportato fino a quel momento, come se all’improvviso decidesse di svegliarsi da un lungo sonno. E’ quello che avviene a Kees Popinga il protagonista di questo celebre romanzo di Simenon, ennesima prova di successo di questo fantastico scrittore, veramente dotato nell’analisi psicologica dei suoi protagonisti e capace di scandagliare in profondità l’animo umano.

Simenon riesce a descrivere la vera essenza di Popinga, distinto borghese che vive nella cittadina olandese di Groninga, al quale sembra andare tutto per il meglio: impiegato in una ditta di forniture navali, sposato con due figli, possiede una bella casa, è iscritto al locale circolo degli scacchi. La vita insomma sembra sorridergli, fino a quando un evento imprevisto come la perdita del posto di lavoro a seguito della bancarotta della ditta in cui lavora, lo scuotono dal torpore. Tutto è perduto quindi e Popinga decide di impulso di scappare, di prendere uno di quei tanti treni notturni che danno titolo al romanzo e che lui vede passare quotidianamente, solleticando la sua immaginazione che si diverte a fantasticare sui destini dei passeggeri. In breve Popinga raggiunge prima Amsterdam e poi Parigi, si spoglia dei propri freni inibitori e della sua immagine di borghese rassicurante e finalmente "comincia a vivere". Frequenta donne, locali notturni, entra in contatto con criminali, compie reati. Popinga si sente libero non deve più rendere conto a nessuno e come dice lui stesso:

“Per quarant’anni mi sono annoiato. Per quarant’anni ho guardato la vita come quel poverello che col naso appiccicato alla vetrina di una pasticceria guarda gli altri mangiare i dolci. Adesso so che i dolci sono di coloro che si danno da fare per prenderli”.

Questo romanzo mi ha fatto venire in mente tanto Pirandello quanto Pasolini perché proprio come i suddetti celebri scrittori, anche Simenon sembra volerci parlare dell’ipocrisia della classe borghese, dell’importanza dell’apparenza, dell’immagine che si deve mostrare per risultare rassicuranti ed inquadrati nella società, rinunciando a quella spontaneità più genuina in cambio della sicurezza generata dal possesso e dal consumo. Invece la vera anima del protagonista si palesa quando non ha più nulla da perdere ed è così che Popinga desidera presentarsi, ma nonostante tutto è come se la gente, l’opinione pubblica, i media ed anche la polizia che si mette sulle sue tracce a seguito dei reati compiuti, non lo capissero e continuassero a giudicarlo e descriverlo diversamente rispetto al suo essere più vero.

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Pirandello, Pasolini.
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siti Opinione inserita da siti    22 Novembre, 2015
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E non c'è niente da capire

Kees Popinga è uomo di spicco presso una ditta di forniture navali, conduce una vita borghese, agiata e serena, è sposato e ha dei figli. Come tanti è ingabbiato nelle relazioni parentali, il matrimonio e il contesto coniugale gli vanno un tantino stretti, ma non se ne lamenta; è ineccepibile la sua condotta di vita che scorre nella noia più totale. Forse non lo sa ancora, ma lui vive una vita che non gli appartiene. Sarà il caso a volere che il quotidiano venga infranto, che la normalità venga rovesciata e che l’impossibile diventi possibile.
Una sera incontra il suo principale che gli anticipa il crac finanziario che travolgerà la sua azienda e con essa la misera esistenza dei suoi dipendenti agiati economicamente e adagiati nei loro ruoli sociali. Che fa Popinga? Assume parte attiva nella sua esistenza e , quasi novello Mattia Pascal misto a Vitangelo Moscarda, prende il treno ed evade, scappa, va via, si reinventa, molla tutto, si gode finalmente la sua libertà. Lascia Groninga, si dirige ad Amsterdam, termina la sua folle corsa a Parigi. Dissemina il suo percorso di errori che lo trasformano in un fuorilegge senza che egli ne abbia consapevolezza morale. Si sente galvanizzato, onnipotente e tenta in tutti i modi di risalire la china della sua mediocrità che così all’improvviso gli si era parata davanti. Termina il suo rocambolesco peregrinare in modo tragicomico ritagliandosi l’ennesimo ruolo che lo porterà ad assumere l’ennesima maschera: quella della follia.
Il messaggio di fondo pare qui essere la difficoltà dell’uomo di conoscere se stesso, di convivere con la propria identità che affannosamente si costruisce per poi sentirsene da essa stritolato. L’impossibilità di essere liberi dai vincoli sociali o di mantenersi liberi nei loro confini.
Ancora una volta mi colpisce l’epilogo e mi si colma l’immaginario di un personaggio indimenticabile: un altro vinto che mi ha però portato, paradossalmente, tra i quartieri di Parigi a vedere” l’effetto che fa”, a sperimentare la libertà, a cercare di capire che non c’è niente da capire o come dice Simenon in chiusura che ”Non c’è una verità, ne conviene?”.

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Il fu Mattia Pascal
Uno ,nessuno, centomila
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    13 Agosto, 2014
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Una personalità fragile

Non c’è niente da fare…io e Simenon non abbiamo proprio feeling. Questo è un romanzo al di fuori della serie di Maigret, ben scritto, non c’è che dire, ma io l’ho trovato proprio noioso. Il tema centrale è la rottura del protagonista, Popinga, con il proprio ambiente d’origine. Vive una vita che di mano in mano è sempre più noiosa, da “piccolo-borghese”, poi cambia vita, senza sapere nemmeno lui che strada intraprendere e si perde, abbandonandosi agli istinti più bassi. Si accorge di aver sempre portato una maschera e strada facendo si ritrova libero, sì, ma è una libertà che non gli permette di essere se stesso, quindi è una libertà senza senso e senza valore. Dimostra una personalità fragile, incapace di affrontare la vita e si ritrova isolato e perso. Senz’altro le riflessioni che l’autore vuole stimolare sono interessanti, perché ci permettono di focalizzare il ruolo di una società che spesso spinge ad apparire molto diversi da come si è dentro, in nome di un inserimento nella società stessa; il pensiero va alla precarietà della condizione umana, alle sue contraddizioni, ma la narrazione è veramente troppo lenta, soprattutto nella prima parte. Ti rimane un senso di inquietudine, che forse è proprio una delle caratteristiche peculiari di quest’autore.

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LaFataRibelle Opinione inserita da LaFataRibelle    29 Mag, 2013
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L'uomo che voleva essere soltanto Kees Popinga

CONTIENE SPOILER

Kees Popinga è un uomo come tanti altri, con una famiglia e una casa come tante altre (anche se un po’ meno originali, e un po’ più “decorose”): insomma, l’emblema del conformismo odierno. Ma quando osserva rapito i treni della notte, che abbandonano Groninga per correre verso l’ignoto, si rende conto di volere qualcosa di più.
Inaspettatamente, è Julius de Coster junior, il padrone dell’azienda dove lavora, a offrirgli l’occasione di cambiare vita: gli confida (decisamente “allegro” per qualche bicchiere di troppo) che la ditta è fallita, e che simulerà il suicidio per non rispondere delle colpe e poter fuggire all’estero. Popinga, perso così il lavoro (uno dei punti saldi della sua monocorde esistenza), non si fa prendere dallo sconforto, ma anzi coglie al volo l’occasione e sale a bordo di una delle tanto agognate locomotive.
Prima destinazione: Amsterdam, da Pamela, la prostituta “riservata” di de Coster, che Kees vede come passaggio obbligato dalla sua vecchia alla nuova identità. Non ha però calcolato la sarcastica risata con cui la donna lo rifiuta e, sconvolto dalla rabbia, la strangola con un asciugamano: verrà a sapere che è morta (e non tramortita come crede, o si impone di credere) solo a Parigi, dagli articoli che su tutti i giornali lo definiscono un pazzo e temibile assassino.
Complice una foto segnaletica sgranata, e dunque inservibile, il nostro uomo può tranquillamente aggirarsi per le vie della capitale francese senza essere riconosciuto, ma si renderà conto di dover prendere precauzioni sempre maggiori, visto il cerchio che il “misterioso” commissario Lucas sta stringendo intorno a lui. Nelle numerose peripezie che popolano le pagine di questo romanzo, Popinga incapperà in nuove prostitute, più o meno belle e degne di attenzione, in bande criminali, in cenoni di Natale e Capodanno con finali (forse) tragici, ma quello che più animerà il personaggio sarà qualcos’altro: togliersi di dosso le numerose opinioni che il mondo ha di lui. È proprio per far capire agli altri che è diverso da come lo vedono, che abbandona il tranquillo nucleo familiare (di cui poi inizierà ad avvertire nostalgia): ma entrando a contatto con persone sempre nuove, e diventando oggetto dell’interesse giornalistico, i giudizi sul suo conto si moltiplicheranno esponenzialmente, e allora il “satiro di Amsterdam” tenterà in tutti i modi di togliersi di dosso ogni parere esterno, fino a voler scomparire del tutto agli occhi del mondo.

Simenon ci regala il ritratto di un uomo all’apparenza “normale” che, vedendo sgretolarsi la sua realtà quotidiana, decide di andare incontro alla sorte: una sorte avversa, la quale lo porta a divenire un pazzo omicida agli occhi del mondo (e non è forse additato come “strano” chi, oggi, decide di non seguire la massa?). E così, ogni suo gesto, ogni suo comportamento, viene letto in un certo modo, interpretato come un segno della sua anima “maledetta”; ma il protagonista sa di essere superiore a tutte le considerazioni altrui, e cerca in ogni modo di manifestarlo (con una notevole sagacia, sfidando perfino le autorità). Alla fine, si sentirà però schiacciato dalla consapevolezza che nessuno potrà mai accoglierlo semplicemente come Kees Popinga (invece di volerlo a tutti i costi “inquadrare”), e vedrà precipitare gli eventi fino all’epilogo, peraltro prevedibile fin dall’inizio.

È interessantissima l’evoluzione psicologica del personaggio, che caratterizza tutto il romanzo (e fa passare nettamente in secondo piano sia le altre figure, sia le ambientazioni); ed è a mio parere da notare che già il titolo, “L’uomo che guardava passare i treni”, sia una delle definizioni di se stesso da cui Popinga sente il perenne bisogno di rifuggire.

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Naturalmente le altre opere di Simenon, ma azzarderei anche "Uno, nessuno, centomila" di Pirandello, per la continua ricerca della propria reale identità.
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    04 Gennaio, 2013
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L’altro Io

L’uomo che guardava passare i treni, scritto nel 1938, ha tutte le parvenze di un noir, anche se lo scopo di Simenon non era tanto quello di narrare una vicenda criminale, bensì di analizzare la psiche di un individuo, piccolo borghese, che a un certo punta della sua vita si ribella a un’esistenza calma e agiata, scoprendo in se stesso una personalità latente intollerante nei confronti di quel mondo in cui ha sempre vissuto.
La sua presa di posizione, il cambiamento radicale che la caratterizza, non è un frutto di un calcolo maturato lungamente, ma è un’improvvisa scelta quasi inconsapevole.
E così Kees Popinga, così si chiama il protagonista, abbandona per sempre quell’immagine di onesto, corretto, meticoloso impiegato e buon padre di famiglia per cercare di cancellare, in uno con il suo passato, anche quelle caratteristiche di appartenenza a un ceto borghese, fatte di consuetudini e apparenze anche stucchevoli.
In questa ribellione, che lo porterà anche all’omicidio, c’è una lunga fuga dal mondo in cui è sempre stato, che finisce però con il diventare anche una fuga da se stesso, da quell’inconscia personalità per anni celata e repressa da una parvenza di perbenismo a cui, altrettanto inconsapevolmente, si era abbandonato.
Entra talmente nel suo nuovo personaggio da trovare sempre nuove giustificazioni per il suo operato, per la sua furia criminale che tuttavia non traspare esteriormente se non nei momenti in cui i freni inibitori, totalmente rimossi, fanno sfociare il suo comportamento in una violenza accompagnata dalla cieca lucidità di un uomo che ricerca e trova considerazioni auto giustificatorie al punto di ritenersi un perseguitato dalla polizia.
Il suo è il delirio di un folle che solo in ultimo, ormai braccato, lascia spazio a qualche momento di lucidità, che se non gli porta un senso di colpa, pur tuttavia riscopre sprazzi di quella coscienza borghese, che gli sembra così lontana e irraggiungibile, ma di cui ha una vaga nostalgia, un ricordo di un mondo in cui tutto quadrava per il meglio, almeno in apparenza, mentre ora la sua condizione è quella di una bestia in fuga e senza speranza.
Popinga è tuttavia un fallito e anche la scorciatoia che cercherà di prendere per risolvere definitivamente il problema di una nuova esistenza, verso cui prima si sentiva fortemente attratto e che ora invece mostra tutti i suoi limiti, finirà miseramente e chiuderà così il suo ciclo vitale in una clinica psichiatrica, in cui, rassicurato dalle mura che impediscono un confronto con la realtà esterna, riuscirà a realizzare perfettamente se stesso, un mondo tutto suo, una specie di limbo in cui i medici non potranno capire nulla di lui, e, soprattutto, altrettanto lui di se stesso.
In fin dei conti, come tanti personaggi di Simenon, il protagonista è un uomo all’apparenza normale, fino a quando è inserito nel tessuto sociale in cui ha sempre vissuto, ma poi scatta qualche cosa, a volte anche un’inezia, e l’uomo si trasforma; non c’è nulla di più complesso della psiche umana, tanto che a nessuno di noi è dato il privilegio di conoscerci fino in fondo e Simenon non era dissimile da noi, anzi in lui erano presenti mediocrità e genialità, quest’ultima riservata alla sua corposa produzione letteraria. Del Simenon privato forse è meglio non parlare, non ricordare l’egoismo che lo caratterizzava, la sua ambiguità durante l’occupazione nazista,
il trattamento umiliante riservato alle sue amanti, una doppia personalità che peraltro non deve stupire, come se in noi esistessero due nature, ci fossero due io.
E Kees Popinga è il simbolo di questo doppio che poi Simenon riuscirà a delineare ancor più mirabilmente in un altro romanzo, I fantasmi del cappellaio.
Anche il titolo, del resto, ci offre nella sua sinteticità il vagheggiamento onirico del protagonista che cerca di immaginare come siano i passeggeri, figure indistinte dietro i finestrini, inconsapevoli attori della vita, e quelle carrozze che corrono sulle rotaie possono benissimo rappresentare per noi il confuso e convulso percorso dell’esistenza, ma per Popinga sono solo un sogno, una fuga da quella realtà che d’improvviso non può più accettare.
Mi sembra inutile dilungarmi ulteriormente, se non per un consiglio d’obbligo: leggetelo, non ve ne pentirete.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    22 Ottobre, 2012
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Il signor Popinga

Popinga, Popinga, chi è veramente costui?
Ecco l'ennesimo uomo messo a nudo da Simenon.
Anche in questo romanzo è possibile ritrovare i cardini della filosofia del grande scrittore e la solita ricerca dell'essenza umana, quella più segreta, quella nascosta sotto le maschere del vivere sociale, quella celata sotto le vesti del conformismo, del perbenismo e della legalità.

Popinga è il classico esempio di uomo che “esplode”, che decide di abbandonare i ruoli di padre di famiglia e di lavoratore modello; egli è stanco di osservare la vita degli altri, di essere succube di situazioni pesanti e logoranti, è stanco di non essere stimato e condiderato come forse meriterebbe.
E' un uomo che spacca il guscio scomodo e mortificante in cui è costretto e si è costretto a vivere.
Popinga deraglia dai binari su cui viaggiava da tempo, per spaziare liberamente per la strade di Parigi ed entrare in contatto con un mondo di personaggi che in condizioni normali non avrebbe mai conosciuto; anche se in questa fase il racconto diventa abbastanza convulso e rocambolesco, tuttavia è direttamente funzionale alla costruzione dell'uomo raffigurato in questo romanzo.
Infatti, l'aspetto più interessante dell'evoluzione del personasggio sta nel confronto tra Popinga stesso e le altre persone.
Popinga, come altri personaggi di Simenon, ci costringe ad osservare il mondo che gli ruota attorno con i suoi occhi; di fronte ad un mondo che lo vede come folle e paranoico, egli tenta di gridare la propria normalità.
Il personaggio di Simenon ed il mondo esterno, viaggiano su strade parallele, utilizzando metri di valutazione in antitesi.
Popinga grida tutto il suo “non essere pazzo”, ma il suo essersi allontanato dalle convenzioni e dalle leggi; “gli altri”, famiglia compresa, non lo accettano, ma si affannano a cercare verità nascoste o patologie neurologiche, per giustificare le sue azioni.

E' sicuramente un romanzo intenso, anche se la penna dell'autore a tratti corre e ci costringe ad inseguirlo, perdendo qualche punto in chiarezza; tuttavia rimane indubbio il grande lavoro intorno al personaggio, un lavoro degno di un grande scultore nella capacità strepitosa di dare forma ad un uomo “qualunque” cogliendolo alle prese con la fuga dalla normalità, la fuga dal lecito e dalla retta via, scandagliandone l'animo e sottoponendolo al fuoco di critiche e di accuse lanciategli dalla società.

E' un racconto da gustare con tranquillità, con la consapevolezza che l'autore deve trasmetterci un messaggio, utilizzando una selva di situazioni, tragicomiche, caotiche, aberranti, reali e assurde al tempo stesso.

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    28 Settembre, 2012
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IL SATIRO DI AMSTERDAM

C’e’ che uno fa una vita normale, matrimonio, figli carriera : una perfetta routine di perfetto borghese. Il problema e’ che nemmeno lui sa il perche’ di quelle scelte , non trova particolare appagamento da quella vita , si limita a svolgere un compito, ad essere cio’ che conviene senza lode senza infamia.
Quando desidera un fremito per scacciare la noia si fa spettatore delle vite degli altri.
Osservare i treni , che nascosti dall’ombra della notte celano vite in movimento, anime sconosciute di cui ha libero arbitrio immaginifico. Lui e’ il buon Kees Popinga, impiegato modello, padre di due figli : rispettare le regole, regola numero uno.
Poi un giorno l’azienda cui hai dedicato la vita ed in cui ha investito tutti i risparmi fallisce e con lei alla deriva si allontana anche la vita ben arginata del sig. Popinga.
Niente piu’ regole, niente piu’ buone maniere, niente piu’ leggi, il Popinga fa semplicemente tutto quel che gli va di fare, punto.

Commedia tragicomica di un uomo qualunque, non so bene dove volesse portarmi Simenon in quest’opera, probabilmente ci dovro’ riflettere ancora un po’, probabilmente non mi voleva portare da nessuna parte. Forse voleva spronarmi ad un esame di coscienza, ma poi l’assurdita’ del suo uomo e’stata tanto esuberante che a me non e’ venuto da pormi alcun esame di coscienza, in realta’… Insomma, decisamente il mio caso quello del lettore che si morde la coda , a girare in tondo con gli occhi sgranati, ma in piacevole compagnia.
A tratti allucinante, a tratti lucidissimo, la personalita’ di questo omicida non assassino (!) e’ sicuramente molto ben approfondita e nel complesso moderatamente demenziale.
In conclusione, si legge bene. Poi se c’e’ la morale della favola io non l’ho capita, magari ne riparleremo se qualcuno lo leggera’ !

Buona lettura .

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