La strada
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Padre e figlio alla ricerca di una speranza.
Ho amato molto la trilogia della frontiera di McCarthy, oltre a “Non è un paese per vecchi” ma, inspiegabilmente, non avevo ancora letto quello che è considerato il suo capolavoro: La strada. L’avevo in casa, comprato un po’ di tempo fa e, in “onore” della sua recente scomparsa, l’ho finalmente letto e devo dire che i giudizi della critica, mai come in questo caso, mi trovano perfettamente concorde.
L’oceano come spartiacque, punto di arrivo per il padre, l’inizio di una nuova vita per il ragazzo metaforicamente il fuoco da cui può risorgere la vita (“Perché noi portiamo il fuoco, vero papà?”). Un passaggio di consegne tra un genitore che rappresenta il vecchio mondo spazzato via da un’apocalisse (nucleare?) e il nuovo mondo che il ragazzo può e deve rappresentare. Un monito a non arrendersi mai, un insegnamento a resistere alle avversità, anche a quelle più drammatiche che travalicano ogni immaginazione, un invito alla speranza che un padre trasmette al figlio in un viaggio verso il mare oltre il quale, forse, c’è ancora vita. E l’itinerario per raggiungerlo è “La strada”, da non abbandonare mai. Ci potranno essere deviazioni, imprevisti, rallentamenti ma “La strada” è l’unica certezza per raggiungere l’obiettivo in un mondo che di certezze non ne ha più spazzato via da un evento che ha annientato l’intera umanità: uomini e donne, animali, natura. In una terra popolata solo da morte e distruzione, in cui i pochi sopravvissuti si aggirano come alieni trasformandosi anche in cannibali pur di sopravvivere, padre e figlio si muovono alla disperata ricerca di un orizzonte di vita. Trascinando un malandato carrello di supermercato, simbolo di sopravvivenza perché custode di qualsiasi cosa possa servire per sopravvivere – stracci, qualche coperta, pochi residui alimentari, un camion giocattolo, emblema di un’infanzia negata – il padre cerca di trasmettere al figlio il senso della vita. Il capolavoro di McCarthy ha una potenza narrativa dove ogni parola, ogni frase, ogni dialogo padre-figlio scuote il lettore nel profondo, colpendolo al cuore e allo stomaco. Tanto forte appare la narrazione che lo stesso autore sente il bisogno di staccare ogni frase, ogni periodo con qualche riga in bianco perché se è vero che è difficile staccarsi dalle pagine del racconto è altrettanto vero che tale è l’angoscia che traspare che ogni tanto c’è bisogno di aria, di prendersi una pausa, di respirare. C’è tutta la grande letteratura americana in McCarthy: dalla cruda descrizione della realtà di Steinbeck alla lotta per la sopravvivenza di Hemingway; dalle introspezioni psicologiche di Roth alla violenza che lo stesso McCarthy descrive nella sua trilogia della frontiera o nel romanzo “Non è un paese per vecchi”.
E parafrasando il titolo di quest’ultimo romanzo chi si accinge a leggerlo sappia che La strada “non è un libro per stomaci deboli”.
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Un carrello un miraggio
La vista di un semplice carrello rievocherà per sempre linfinita gamma di emozioni che "La strada" riesce a suscitare.
La gamma dei colori sui toni del grigio compongono un affresco cupo, che odora di malinconia e si veste di ricordi troppo presto dimenticati.
Vite spezzate, dalla evidente catastrofe che ha avvolto il mondo, quel mondo che non tornerà, per com'era e per come si ricorda chi lo ha vissuto.
Se la trama è stringata, quasi inesistente, a fare da calamita è la forza dei personaggi, due in realtà, padre e figlio e la loro capacità di rispondere ad un mondo con un approccio opposto, quasi la speranza, impossibile da spengere, si trasferisse da padre a figlio.
La tridimensionalità dei personaggi fa sì che ci si trovi dietro un albero a guardare queste due gocce di vita in un universo morto, consapevoli che quello che vediamo è un futuro neache poi così distopico.
Moltissimi i piani di lettura, impossibile analizzarli tutti; vorrei però evidenziare è quello sociopedagocico, in cui il figlio per vivere la sua vita, nel suo mondo deve necessariamente liberarsi di un padre che non riesce a dimenticare.
Un libro che davvero non può mancare in nessuna libreria e soprattutto in nessun immaginario.
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Evocativo
In un mondo post apocalittico, “arido, nudo, e senza dio”, un padre e un figlio camminano verso il mare, verso l’origine di tutto, verso la fine di tutto.
Un padre e un figlio camminano, e il tempo scorre inesorabile: i passi del padre si fanno sempre più pesanti e il respiro sempre più lento. Il padre sa che la sua fine è vicina e che presto il figlio dovrà proseguire da solo.
Un padre e un figlio camminano e non hanno nome, non hanno una casa, un lavoro, non hanno vestiti. Non hanno nemmeno una storia, solo un carrello, un po’ di cibo in scatola e una pistola.
Il padre e il figlio camminano perché hanno una missione: seguire la strada, ormai sterile, erosa e sventrata, che li porterà al mare.
Un mare che sarà meta per l’uno e inizio per l’altro. Un mare che è solo una parola vuota per il figlio, una storia di speranza come tante altre belle storie di cose che non esistono più nel nuovo mondo; un mare che è un’immagine densa di significato per il padre, che pur avendo perso ogni speranza deve lottare per lasciare qualcosa di buono al bambino, deve fare in modo che continui a credere in qualcosa, che continui “a portare il fuoco”.
E in mezzo c’è il viaggio sulla strada, arida, incenerita, irta di ostacoli, di incontri (pochi uomini e molti cadaveri) e di imprevisti.
La regola è una sola: non allontanarsi dalla strada. Un precetto che ricorre come un mantra nei rari, laconici dialoghi. Ogni sforzo dei due personaggi è teso A tornare sulla strada e procedere verso sud. La trama è questa, niente di più. Ma Cormac McCarty sa che le parole sono lame, e ogni sua frase è una pugnalata al petto. La potenza di questo piccolo libro non sta nella storia, ma nei suoi infiniti significati.
Riprendendo la metafora di Jean Paul Sartre, secondo il quale la letteratura è una trottola che non smette di girare grazie alle continue interpretazioni dei lettori, che riversano nelle pagine dei libri le loro esperienze creando nuovi mondi, mi sento di dire che quello raccontato da mc carty, altro non sia che la storia sublime del viaggio della vita di ogni padre e ogni figlio. Un cammino in una continua tensione verso il bene, o quello che l’adulto ritiene essere tale. Il figlio è un dono, è “l’ultimo degli dei”, ed essere in viaggio con l’ultimo degli dei è terribile. Al padre spetta il compito di proteggere quest’ultimo baluardo di speranza per la specie umana e metterlo sulla strada giusta nel poco tempo che gli resta a disposizione, ha l’enorme responsabilità di insegnare al figlio ad essere un uomo in un mondo che non ha più nulla da offrire. E lo fa, offrendo il suo miglior esempio.
Alla fine del libro una rivelazione, o uno spunto di riflessione:
“Stare sulla strada” era un pessimo consiglio.
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Lasciate ogni speranza o voi che leggete
Cosa sia successo sulla terra non è dato da sapersi. Sappiamo solo che un padre e suo figlio vagano per lande desertiche popolate da ex-uomini oramai cannibali, tornati al tempo delle scimmie antropomorfe e che fame e disperazione regnano laddove una volta c'era speranza e sole.
Ogni pagina del libro è intriso di così tanta disperazione e mancanza di speranza che il vagare di questi due scheletrici derelitti alla ricerca del mare è una lenta inesorabile agonia non solo per i protagonisti, ma anche per chi si pone a leggere l'opera.
Penso sia stato uno dei libri più cupi, nefasti, opprimenti che abbia mai letto.
Lo posso solo collocare al pari di "ultimo giorno di un condannato a morte" di Hugo.....solo che in Hugo essendo Egli uno dei più grandi scrittori della storia, non solo c'è la storia che angoscia dalla prima all'ultima pagina, ma c'è anche l'introspezione psicologia del protagonista talmente profonda e allucinante che ci si trova anche il lettore a vivere questo ultimo giorno prima del patibolo.
In Mc Carthy, sicuramente un ottimo autore moderno, manca però tutta la parte psicologica che ti permette di "fraternizzare" con i protagonisti.
Prima di leggere il libro, avevo visto il film da cui è tratto con il grandissimo Viggo Mortensen "The Road" del 2009, una gran bella pellicola, che riprende fedelmente le pagine del libro, con una maggiore ricerca degli aspetti psicologici dei protagonisti, che non sono solo due anime perse in un mondo infernale, ma sono anche descritti accuratamente dal punto di vista cognitivo e comportamentale.
Comunque avendo letto anche altre opere di questo autore, credo che sia una di quelle persone a cui piacere scavare sotto la superfice apparente delle cose, andare alla ricerca delle nefandezze peggiori che possano partorire gli esseri umani, scavare nella disperazione e nella miseria degli esclusi ed emarginati.
Me lo immagino, vagare tra le strade di New York o di qualche sperduta cittadina del Minnesota, ammantata di neve e squarciata dal vento, a cercare tra case diroccate, periferie imputridite i soggetti per i suoi romanzi, poi illuminarli con la sua penna, fanne i protagonisti di una qualche storia e darli in pasto ai lettori di tutto il mondo......perchè non dobbiamo mai dimenticare che sotto il lato scintillante della società si nasconde il cuore di tenebra dell'uomo.
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Memorie dal Sottosuolo Dostoevskij
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Perché noi portiamo il fuoco
Trama: Un uomo e un bambino, padre e figlio. Spingono un carrello pieno del poco che è rimasto loro. Circa dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un'apocalisse che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita, abitato da bande di disperati e predoni.
Cenere e nebbia, pioggia (quasi) incessante e un grigiore che avviluppa ogni cosa. Città ridotte a cumuli di ruderi marcescenti, gli uomini, ormai liberati dal giogo della legge e dal senso morale, mossi da istinti ferini e primitivi, sono pronti ad uccidere nei modi più brutali per garantirsi la sopravvivenza. Nel futuro credono ancora due emaciate figure, padre e figlio, in viaggio verso il mare, coperti di sporcizia da capo a piedi, sempre all'erta perché il pericolo può celarsi ovunque. McCarthy, con stile ipnotico e minimale ci trascina in luoghi irriconoscibili, dove le persone (prive di nome) abbassandosi ad istinti animaleschi, hanno perso la loro identità umana. Quella dignità perduta è difesa strenuamente da un uomo che vede nel figlio l'ultimo barlume civile da preservare quindi ad ogni costo. La prosa dell'autore tutt'altro che pregna di eventi, è poesia non dichiarata, ammirevole istigazione alla riflessione, elogio luminoso nel buio più pesto.
Apparentemente distaccato eppure amorevole come solo un padre sa essere, l'uomo vede nell'innocenza violentata del figlio il metaforico fuoco (citato più volte), ovvero l'elemento capace di far tornare ad ardere d' amore e altruismo i cuori imbarbariti. Commovente, statico, malinconico con un finale straziante: "La strada" è semplicemente un capolavoro.
-Ce la caveremo, vero, papa'?
-Sì. Ce la caveremo.
-E non ci succederà niente di male.
-Esatto.
-Perché noi portiamo il fuoco.
-Sì. Perché noi portiamo il fuoco.
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Ai limiti del nichilismo
SPOILER
Due individui privi di identità: un uomo e un bambino. Due persone come tante al'apparenza, eppure speciali. Non sappiamo molto del loro passato né quello del mondo circostante, ma siamo consapevoli di quel duro presente che ci viene sbattuto in faccia dall'autore. Lo scenario è post apocalittico, spettrale: la natura e i suoi animali sono ormai morti da un pezzo; l'aria è grigia, piena di smog; la cenere si posa ovunque; il freddo; il silenzio; la morte e la strada. Non vi è nient' altro che una strada infinita, simbolo del destino a cui i due vanno incontro.
Riusciranno a sopravvivere anche solo un altro giorno? Ha senso continuare a percorrere passi senza una vera meta? Ha senso patire la fame al punto da non avere più forze? O non è forse meglio morire abbandonandosi all'oblio? Dov'è Dio in tutto questo?
Questi due essere umani, i cosiddetti buoni, si ritrovano a combattere per la propria sopravvivenza armati di qualche straccio, un telo di plastica, un carrello con scarse provviste. Un ritorno al primordiale, all'essenziale. Si ritorna animali, arrampicandosi a quel poco di umano che ancora c'è. Ma tutt'intorno vi è una brutalità shockante: cadaveri ovunque, cannibalismo: sono gli estremi di una generazione appartenente a un mondo pazzo, isterico, psicotico dove non vi è più nessuna cura.
La scrittura di McCarthy ipnotizza; parla di tutto pur parlando dell'essenziale, fa toccare picchi emotivi estremi, disturbanti con un linguaggio che sfocia nel poetico, seppure triste e disruttivo. I dialoghi scarni, come l'ambiente, eppure essenziali, non c'è molto da spiegare, c'è solo da vivere e proseguire la strada verso l'oceano, verso un clima più mite, verso un po' di pace, dove ancora la natura sembra essere viva.
Che mese è? Che anno è? Il tempo si è fermato, gli astri si alternano con i loro giochi di luce per illuminare o oscurare il cammino. La morte è sempre più vicina, eppure riescono a scappare da lei. Hanno dei colpi di fortuna in quell'inferno: cibo nascosto e mai trovato da altri, un rifugio in cui nascondersi nel sottosuolo e per avere una breve illusione di stabilità. Ma la strada si straglia infinita, all'orizzonte e si deve proseguire: i cattivi prima o poi arriveranno .
Incontri, pochi, pericolosi, innocui ma sempre sofferti. Il bambino è colui che tiene ben salda l'umanità, quel fuoco che portano. Sono le parole tristi del piccolo empatico a tenere il padre con i piedi per terra, affinché non si trasformi in un'oscura bestia. Dopotutto, è il padre che ha la responsabilità di guidare, di dare ogni strumento possibile al figlio per superare la vita. Egli si è dovuto sostituire a una madre che ha preferito la morte. Il bambino e il viaggio esistono perché vi è lui come guida, ma egli vi è spinto dalla speranza rappresentata dall'ingenuità, dalla purezza, dalla fragilità del piccolo.
Per questo, quando il padre morirà, lo spingerà a "portare il fuoco" da solo, sopravvivendo grazie a tutto ciò che ha imparato durante quel lasso di tempo confuso. La figura paterna prepara il figlio alla brutalità della vita, cerca di ammorbidire il trauma con tutto ciò che ha a disposizione nelle sue mani.
Oltre a un racconto con un forte simbolismo, vi è una componente psicoanalitica, come Massimo Recalcati descrive in un suo testo: "Una vita e i suoi libri".
E' stato un viaggio duro, devastante, importante, fondamentale, necessario per un'epoca come questa in cui tutto si sta perdendo.
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L'uno il mondo intero dell'altro
"Ti posso chiedere una cosa?
Si, certo che puoi.
Tu cosa faresti se io morissi?
Se tu morissi vorrei morire anch'io.
Per poter stare con me?
Sì. Per poter stare con te.
Ok."
Un padre e un figlio, una strada e un carrello, un passo dopo l'altro, si può pensare solo all'adesso, il dopo è un lusso e loro di lussi non ne hanno.
Dopo aver iniziato la lettura una sensazione di malessere mi ha accompagnata per tutta la serata e non ne capivo il motivo, poi analizzando bene le cose mi sono resa conto che McCarthy lascia il segno e questa storia mi era entrata dentro.
Uno stile asciutto, senza fronzoli ne digressioni per raccontare un mondo morto, un mondo difficile per chi ha visto il prima e difficile anche per chi non sa cosa c'era prima.
Un amore così profondo e intenso che rimanere distaccati è molto difficile.
"Per niente al mondo.
No. Per niente al mondo.
Perché noi siamo i buoni.
Sì.
E portiamo il fuoco."
Potente, riflessivo e non facile da dimenticare, su quella strada li ho accompagnati per tanti km e su quella strada è rimasta una parte del mio cuore. Questo è un autore che libro dopo libro sto apprezzando sempre di più. Il suo stile è così particolare e originale che mi lascia incantata.
Lo consiglio, mi raccomando va affrontato in un momento di serenità altrimenti questo aggiunge il carico.
Buona lettura!!!
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PIANETA MONDO
Nel romanzo post apocalittico che valse a Cormac McCarthy il premio Pulitzer nel 2007 è sparito il mondo inteso come l’insieme delle sovrastrutture mentali che necessitano all’uomo per decodificare, paradossalmente, le infrastrutture che ha costruito per gestire al meglio (?) il suo passaggio transitorio in questo spazio.
Lo scenario dopo la fine del mondo, parola da intendersi nella sua accezione più ampia, necessita di un nuovo processo di adattamento, di nuove abilità, di un codice che permetta celermente di distinguere nelle ceneri del vecchio pianeta Terra l’utile necessario alla mera sopravvivenza.
Il mondo è fatto terra cosparsa di cenere, deposito involontario delle scorie di una civiltà tanto avanzata quanto marcia: metropoli saccheggiate e perse nel loro groviglio artificioso di beni e servizi, ora del tutto inutili; spazi rurali, che un tempo avranno perfino assolto la funzione purificatrice di ricordare all’uomo il primitivo spazio al netto dell’antropizzazione eccessiva, capaci ancora di restituire un residuo di armonia: a volte cibo, altre volte sapiente uso delle proprie risorse, mai vita animale.
L’unico animale è l’uomo, alle prese con un nuovo processo di ominazione, non ha però questa volta da difendersi da nessun predatore, se non quelli della sua stessa specie, privi di un’etica ora più che mai necessaria. L’uomo però è stato colto impreparato dalla catastrofe: non aveva maturato un’etica, tantomeno ambientalista, ancor meno aveva sviluppato una morale condivisa. L’uomo si era perso nella pseudo etica individualista.
Recita un proverbio africano: “per far nascere un bambino bastano un uomo e una donna, per farlo crescere ed educarlo occorre l’intero villaggio”. Ed ecco che Cormac McCarthy ci riporta a questa condizione: un padre e un figlio, l’assenza della madre dettata dall’abbandono del nucleo famigliare per limite di sopportazione ( dopo il parto in pieno disastro e il primo tentativo di sopravvivenza cede alla disperazione più nera). Un padre che ricorda un mondo che non c’è più, che educa il bambino alla decodifica della complessità del reale che il piccolo non potrà più esperire ma che gli è utile per comprendere il prodotto di quelle convenzioni: suo padre prima, tutti gli esseri umani poi. La decisione di mettersi in viaggio verso sud per trovare gli altri all’insegna di una visione prettamente pragmatica e nettamente manichea, il resoconto del viaggio, le tappe randomizzate, gli incontri fortuiti, le battaglie, la fine del viaggio stesso.
Un susseguirsi di episodi la cui struttura fissa e ripetitiva potrebbe essere, nello stile sapientemente secco, minimalista, affidato a continui dialoghi, una piccola pecca nell’economia generale del breve romanzo che riesce però a farsi perdonare con un finale catartico che spazza via la dimensione individuale e apre uno spiraglio alla collettività intesa come accoglienza, speranza, fratellanza e soprattutto interdipendenza.
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Padre e figlio
«Ricordati che le cose che ti entrano in testa poi ci restano per sempre, gli disse. Forse dovresti rifletterci.»
Un padre e un figlio, un luogo chiamato Terra ormai disastrato e lasciato completamente a se stesso, un luogo dove regna la violenza e dove è venuto meno qualsiasi ordine precostituito e ogni forma di legge, un luogo dove devi stare in guardia dalla tua stessa ombra perché quei pensieri che ti si affacciano in mente possono essere i tuoi peggiori nemici nonché coloro che possono portarti alla fine della tua esistenza. Perché hai quegli ultimi due proiettili, lei il suo lo ha già usato e tu sei solo con quel piccolo te ormai ridotto a pelle e ossa. La vostra meta, il sud. Il pericolo di quei cattivi, dei non buoni. "Noi siamo ancora buoni, papà?"
«Dobbiamo cercare un altro po', disse. Dobbiamo continuare a cercare
[...] Ok. È così che fanno i buoni. Continuano a provarci. Non si arrendono mai.»
Tante le domande che restano sospese, tante le risposte che non vengono trovate, tanti i tasselli del puzzle che trovano il loro posto per mezzo di una ricostruzione fatta di ricordi, dialoghi, pensieri che si susseguono. Perché è sin dalle prime pagine che il lettore si rende conto di trovarsi in una dimensione di non luogo, in un mondo che non riconosce, che non è il suo ma che potrebbe diventarlo da un momento all'altro. Con pochi semplici passi è trasportato in un universo che giunge con tutta la sua forza grazie a un linguaggio evocativo che vince nella sua semplicità e nel suo essere scarno.
Le stesse ambientazioni sono percepite con grande intensità proprio grazie a questo minimalismo soltanto apparente. Il desiderio di sopravvivenza, di andare avanti è una costante che si dipinge nel cuore e nell'anima del conoscitore e che mai lo abbandona.
Ecco perché "La strada" è un titolo che va gustato poco alla volta, che va fatto proprio, che sorprende e che scuote, che emoziona, che impaurisce, che muove le fila dell'io più intimo e radicato. Ecco perché "La strada" è uno di quei romanzi che arrivano durante la lettura ma che soprattutto restano dopo questa, perché tu lettore sei chiamato a interrogarti su quegli interrogativi che essa ha sollevato e che non sempre trovano risposta e ancora meno immediata. Un titolo che merita di essere letto e riletto.
«Ma quando si chinò a guardarlo in faccia sotto il cappuccio formato dalla coperta temette seriamente che qualcosa fosse andato perso, e che sarebbe stato impossibile riparare il danno.»
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Viaggio attraverso un mondo morto
“Erano poche le notti in cui, sdraiato nel buio, non provava invidia per i morti.”
E’ la mancanza della vita ciò che colpisce fin da subito il lettore che si immerge nelle prime pagine del romanzo “La strada” di Cormac McCarthy.
Attraverso uno stile evocativo ed ipnotico, caratterizzato da abbondanza di frasi nominali e dialoghi basici, l’autore ci conduce sulla strada di un mondo morto, insieme ad un padre e un bambino che non vogliono arrendersi al niente che li circonda.
Il cielo è grigio ed un sottile strato di cenere si posa su ogni cosa. Pini, aceri, erba, meli, felci, ortensie e orchidee: tutto è rigorosamente, inevitabilmente morto. Nessun uccello che vola più nel cielo, nessuna forma di vita animale che si aggira in quella terra desolata e lugubre. Anche il mare ha perso per sempre il suo colore. Sono rimasti soltanto alcuni esseri umani, la maggior parte dei quali si trascina su strade deserte e città spopolate pronti a macchiarsi di qualsiasi abominio pur di continuare la loro squallida esistenza.
E’ in mezzo a questo terrificante scenario che i due protagonisti, padre e figlio piccolo, camminano, cercando di raggiungere una meta ideale, vagando fra case disabitate e rifugi sotterranei alla ricerca di scatolette di cibo dimenticate, coperte ed altri oggetti utili per sopravvivere ancora qualche giorno. I due non cedono alla barbarie di chi ha dimenticato di distinguere il bene dal male. Non vogliono e non possono darla vinta alla morte che li circonda e preme per inghiottirli nel suo nulla eterno.
“La strada” rappresenta un’esperienza di lettura che, una volta ultimata, lascia più interrogativi aperti rispetto a quelli che ci si potevano aspettare. E’ un romanzo costruito con l’obiettivo di portarci ad elaborare una riflessione, a formulare dei pensieri. Ci avvolge nella sua cupa e fredda atmosfera di cenere e morte per far risaltare ancora di più il bisogno che abbiamo di calore, di vita, di umanità.
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Un uomo e un bambino
Un vasto contenuto in 218 pagine.
Questo libro, seppur di piccolo spessore, ha un contenuto importante.
La copertina ti introduce ad un mondo grigio cenere.
Grigia è la strada che percorrono i due protagonisti per andare a sud. Grigia è la pioggia che cade sopra le loro teste.
Persone come tante altre: l’uomo e il bambino. Magri e consumati dalla stanchezza, dalla fame, dalla sporcizia, dal freddo pungente di un inverno senza anno e senza mese.
L’inizio della lettura ti porta subito alla malinconia. Il testo è elaborato, io l’ho trovato come una lunga poesia.
Una lotta per la sopravvivenza, un papà che rischia la morte per salvare le proprie vite contro uomini cattivi.
“Siamo ancora noi i buoni?”Disse
“Sì siamo ancora noi i buoni e lo saremo sempre”
“Sì lo saremo sempre
Ok”
Forse un finale stroncato, ma ciò che è importante in questo libro è La strada. Il percorso fatto da quest’uomo e un bambino che crede che possano esistere ancora uomini buoni nonostante tutto quello che ha visto lungo la strada.
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Lasciate ogni speranza voi che sopravviverete
Preso sull’onda delle entusiastiche recensioni, suggestionato dal periodo che stiamo vivendo, non lo avrei mai finito senza avere l’obbligo di rimanere in casa, con conseguente impossibilità di tornare in biblioteca per sostituirlo. Terminarlo è stato un esercizio di volontà.
Ma la forza è forza, la volontà è sforzo.
Costantemente lento, troppo descrittivo, inverosimilmente ripetitivo, stessi dialoghi stesse situazioni, tanto che le pagine sembrano un copia e incolla dell’altra.
Forse sarà proprio questa la forza del libro, dimostrare come sarebbe la vita, anzi la sopravvivenza, con tutti i dubbi, le paure, le speranze (quasi nulle), in uno scenario post apocalittico.
In tal senso il libro ha senz’altro una sua identità.
L' unico vero protagonista della storia è questa antieroica sopravvivenza, del resto non si sa nulla, non ci sono nomi, date luoghi e non si capisce a cosa sia dovuta la catastrofe. E alla fine non succede niente.
Lascerà aperti degli interrogativi, è un monito per il futuro,ma per me non è stato graffiante,non è riuscito a trascinarmi nella problematica. È mancato il piacere della lettura e non sono stato in grado di recepire altro. Forse il genere non mi si addice.
Una noiosa odissea, fredda,cupa, grigia
Dio è un bambino
Avanzano. Due coaguli di cenere e ossa, due scheletri consunti, scalcinati, esangui. Avanzano. Più magri a ogni passo. È la fame, è il freddo, è la paura. I giorni senza sole, ectoplasma evanescente dietro una cortina di fumo sempiterno. Grigio, gelido, polverizzato. Le notti cieche sotto la pioggia nera, terra sfarinata in vento e vento che si è fatto acqua, tuono, tempesta. Crepata la vita lungo i solchi bruciati del suolo, vuoto d’uccelli il cielo, muto di canti. Smaltati, indifferenti gli dei. Una distesa senza confini, un oceano nero battuto da ronde e cannibali, donne schiavizzate a uso e consumo, ragazzini di scorta per la frustrazione, uomini legati, tagliati, cauterizzati per sopravvivere alla fame. Vecchi orbi, fulminati, bambini che non conoscono i colori, persi, dispersi, abbandonati. Un padre e un figlio, sotto un telo di plastica, a leccare l’ultima stilla di una lattina. Non tagliarti attento. Un carrello, due coperte, una pistola. Per uccidere gli altri, per far finire se stessi. Il padre e il figlio, una bestemmia e una preghiera. Il silenzio che non conosce sorriso. Basta il dolore a far ammalare un uomo, basta la fame a farlo diventare una bestia, cinica, senza scampo. Brina anche l’inferno, scortica i piedi, due scarpe distrutte. Avanzano, verso sud, verso il mare. Verso la vita, in piedi per grazia e misericordia. Una lingua di fuoco sopra i profeti. Un bambino che suona il flauto alla fine del mondo. In lui la speranza, verbo di Dio. In lui la luce di questo mondo in estinzione. Nato postumo, prima e dopo della grandine caustica che ha bruciato i campi, le case, gli uomini, la pietà. Una coperta stesa sopra un cadavere. Il bambino conosce il sacro. Il bambino è il sacro.
Cormac McCarthy costruisce un romanzo lacerante, scuoia e ricuce, lembi di pelle e squarci di scene pronte a spegnersi come un cerino. Li segue, li bracca, li accompagna, la camera stretta, ossessiva, esasperante. Due esseri infinitesimi nell’universo enorme e famelico, una ginestra nel cuore di lava, un abbraccio nella tempesta di nero. E lo fa con una lingua di inaudita forza, fatta di un lessico stretto, che rimbalza nel labirinto claustrofobico delle azioni e si fa grido solitario, gemito inarticolato, canto sospeso sul vuoto. Non è la speranza di un futuro a tenerli in vita, ma una fede tutta immanente, uno spillo inespanso negli occhi del bambino. Il coraggio più grande è alzarsi ogni mattina, portare un bambino in un posto impossibile, proteggerlo, salvarlo, farlo crescere in fretta. Resistere, anche se sputi sangue. Resistere, anche se la pelle è una sagoma d’ossa. Resistere, anche se si è diventati cinici, egoisti. Eppure solo il bambino sa, lui che ha visto l’orrore ma è ancora intatto dal male, che tra uccidere e morire c’è una scelta più dura. Vivere.
Libro meraviglioso. Non c’è da dire altro.
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PORTARE IL FUOCO, AD OGNI COSTO
C’è una sequenza molto bella di un vecchio film di Andrei Tarkovskij, “L’infanzia di Ivan”, che mi fa pensare all’universo descritto da Cormac McCarthy ne “La strada”. E’ quella in cui il piccolo protagonista sogna, in un tripudio di immagini di beatitudine e di serenità infantile, la figura della madre, bella e sorridente, ma, proprio nel momento in cui sta per afferrare una stella in fondo a un pozzo, viene improvvisamente svegliato dagli atroci rumori della guerra, e dalle serene immagini oniriche viene brutalmente catapultato in un paesaggio devastato e sconvolto. E’ probabile che in un modo altrettanto traumatico si siano svegliati spesso i due protagonisti del romanzo di McCarthy, un padre e un figlio senza nome, di ritorno da sogni ingannevolmente seducenti per riaffacciarsi in un mondo freddo, scheletrico e ostile, distrutto anni prima da una misteriosa catastrofe (una esplosione nucleare?) e ridotto a una arida distesa di cenere, di rovine e di cadaveri, in cui tutto (il cielo, il sole, il mare, la neve) è grigio e incolore, e lo stesso Dio, pregato, invocato o maledetto, latita al pari degli esseri umani. In questo scenario apocalittico, che non si può immaginare se non in uno sporco bianco e nero, la coppia si sposta incessantemente, raramente concedendosi un po’ di riposo, spingendo attraverso le interminabili strade che portano verso sud e verso il mare (quelle highways viste in tanti road movies americani, laddove erano simboli di libertà e di spazi aperti, mentre qui sono piuttosto l’immagine di un destino che si è condannati a seguire pur senza intravederne il significato e lo scopo) un carrello contenente le poche cose rimaste loro (alcune coperte, un po’ di benzina, qualche attrezzo, un accendino e una pistola con due soli proiettili nel caricatore), alla disperata ricerca di calore e di cibo, e in impari lotta contro le avversità della natura e le insidie dei feroci predoni disposti a tutto, anche al cannibalismo, pur di sopravvivere. L’uomo e il bambino non hanno né identità né passato (solo qualche sporadico e poco esplicativo ricordo si affaccia alla mente del primo), e parimenti viene difficile immaginare per loro un futuro plausibile, eppure i due si muovono stoicamente, senza mai arrendersi alla fatica, alle difficoltà, alle malattie e alla sfortuna, pur di non spegnere quella flebile speranza rappresentata dalla loro fragile e precaria esistenza. “Noi portiamo il fuoco” dice spesso il padre al figlio per motivare quel viaggio insensato, ed il fuoco di cui parla è, metaforicamente, quel patrimonio di umanità che, nonostante la spietata lotta per la sopravvivenza, alberga ancora in loro, soprattutto nel bambino. La pietas dimostrata da quest’ultimo negli incontri con l’uomo bruciato dal fulmine, con il bambino intravisto nella città e soprattutto con il vecchio, al quale cedono contro il loro interesse una parte delle loro preziose cibarie, dimostra con commovente intensità che più importante di ogni cosa è conservare dentro di sé un residuo di senso morale, senza il quale viene meno la spinta e il desiderio stesso di rimanere al mondo. Il fuoco quindi altro non è che il bambino stesso, prezioso residuo di giovinezza in un mondo mummificato, che il padre difende e custodisce con tutte le energie e che porta eroicamente in fondo al suo cammino umano, consegnandolo come un emblematico testimone a una piccola comunità di sopravvissuti “buoni” disposti a continuare a lottare giorno per giorno per dare un senso alla vita.
“La strada” è un romanzo bellissimo, impregnato com’è di una dostojevskijana ricerca di imperativi morali all’agire degli uomini, un romanzo metafisico pur senza essere dichiaratamente religioso (aleggia sotterraneamente nelle sue pagine la domanda “perché Dio ha permesso tutto questo?”), un romanzo profetico in cui ogni frase si configura come un segno destinato a riecheggiare per secoli. Il linguaggio spoglio e secco di McCarthy, fatto di poche parole e molti, lunghi silenzi, brevi domande a cui seguono sintetiche e icastiche risposte, è di una densità impressionante. Sembra quasi che lo scrittore americano abbia lasciato prosciugare, disseccare le sue frasi per distillarne solo l’essenziale, senza una sola riga superflua, senza un solo vocabolo fuori posto, con ciò adattandolo miracolosamente all’apocalittico scenario descritto. Pur non intervenendo mai come “autore”, cioè non andando mai al di là degli scarni dialoghi e della oggettiva registrazione di ciò che fanno e vedono i personaggi, McCarthy è riuscito a mettere in scena una lucidissima riflessione sull’inevitabilità del male e sull’altrettanto evidente necessità del bene e la più potente metafora della vita che mai mi sia stato dato di leggere in uno scrittore contemporaneo, in una visione del mondo che, se pure è manichea, trasuda un’autentica fede nell’uomo e possiede la forza etica e la carica pedagogica dei più ispirati profeti.
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Noi siamo buoni.. e portiamo il fuoco.
Una strada da percorrere. Senza inizio e senza fine. Non conosciamo il punto di partenza nè tantomeno dove possa condurre. Attraversa luoghi sconosciuti, irriconoscibili perchè hanno perso la loro identità, tracciati su mappe ormai inutili perchè disegnate su un mondo che non c'è più. Distrutto, incendiato, non è dato sapere cosa sia successo esattamente, quale sia stata la causa, ciò che rimane è l'effetto: una coltre di cenere e polvere che ha avvolto la terra inquinando aria e acqua, persino la luce ha perso le sue tonalità più calde quasi fossero state assorbite dall'unica dominante grigia. E poi l'oscurità: assoluta, incontaminata, l'essenza del buio, senza luna o stelle nel cielo che possano turbare con la loro presenza quella infinità immobile, nera ed avvolgente.
"Oscurità della luna invisibile. Le notti erano solo leggermente meno nere. Di giorno il sole esiliato gira attorno alla terra come una madre in lutto con una lanterna in mano."
Un padre e il proprio figlio procedono lungo la strada, non seguono un percorso, inseguono una speranza: il mare potrebbe essere la loro salvezza, forse il mare è stato risparmiato. Una speranza flebile, tenue, come la forza che li tiene in vita: diventano l'uno il sostegno dell'altro, condividono tutto, da quel poco di cibo che riescono a racimolare per le strade al calore dei loro corpi quando dormono stretti in un unico abbraccio sotto un telo di plastica sul ciglio della strada. Solo i sogni non condividono: perchè non possono, perchè il bambino è nato quando il mondo era già devastato e sfigurato e nella sua mente non ci sono ricordi di un mondo diverso, illuminato dal sole, popolato da animali e piante e in cui gli uomini non mangiano altri uomini per sopperire alla mancanza di cibo, un mondo come quello in cui l'uomo spesso si rifugia per non morire dentro, per non soccombere alla disperazione come già accadde a sua moglie che, abbandonando lui ed il bambino al proprio destino, preferì la morte ad una sopravvivenza fatta di stenti e dolore.
Nella pistola che l'uomo porta sempre con sè ci sono ancora due proiettili, uno per lui ed uno per suo figlio: tante, tante volte è stato sul punto di premere il grilletto puntando la pistola alla testa di suo figlio, per poi fare la stessa cosa su di sè. Ma in quegli occhi c'era una luce, quella stessa luce che il mondo aveva ormai perso, c'era il fuoco dell'amore e dell'abnegazione, unica speranza su cui ricostruire l'umanità:
"Noi siamo buoni.. e portiamo il fuoco."
Il romanzo di McCarthy, vincitore del premio Pulitzer nel 2006, è un capolavoro: la sua potenza espressiva è devastante, lo scenario apocalittico è descritto in modo così efficace da far sembrare surreale il mondo reale, come se case, alberi, strade, tutto ciò che ci circonda fosse destinato a crollare da un momento all'altro, sepolto sotto cumuli di cenere e pioggia. Ma la vera forza del romanzo è nella caratterizzazione dei due protagonisti, padre e figlio, ultimi brandelli di umanità in un mondo in cui ogni principio etico e morale è stato cannibalizzato dall'istinto di sopravvivenza, lo stesso che induce l'uomo a mettere la salvezza del figlio prima di ogni altra cosa, prima della sua stessa vita e, ancor più, quella degli altri. "Il bambino era l'unica cosa che lo separava dalla morte."
Ma il bambino era anche la sua garanzia dinanzi a Dio. Era il fuoco: 'se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato'. Palpabile in tutto il romanzo l'alone di Dio: è il terzo protagonista, invisibile ma onnipresente, nel deserto della Giudea era Satana il tentatore, lungo la strada di McCarthy è Dio che mette alla prova l'uomo: il vecchio viandante in cerca di cibo, il ladro che li deruba di tutto e cerca pietà una volta scoperto e la pistola con i due proiettili che potrebbero porre fine in un attimo a quella sofferenza. Tentazioni. Prove per redimere la propria anima. Ed il bambino è luce, profeta, salvatore. Ma soprattutto è amore. E se nel finale si intravede una seppur minima speranza di futuro, essa si basa proprio sull'amore e sull'altruismo. Altrimenti distruzione e solitudine. Indipendentemente dalle interpretazioni soggettive, la dimensione religiosa che permea l'intero romanzo non porta alla scoperta di Dio, chi o cosa sia, bensì conduce all'unica risposta possibile ai dubbi e alle circostanze che pongono l'uomo dinanzi a scelte difficili, scelte per le quali vacillano tutti i princìpi e le certezze: una risposta di una sola parola, amore.
In quest'ottica, merito innegabile dell'autore è quello di aver scritto un'opera che eleva l'amore a sentimento universale e a speranza unica di immortalità per l'umanità senza retorica e pomposità: sembra quasi che tutto ciò che sia stato sottratto all'umanità, non solo cibo, aria pura, luce ma anche serenità, giustizia, identità (nessun personaggio ha un nome) venga poi restituito, amplificato, nei gesti e nelle parole di amore del bambino.
Allo stesso modo, i dialoghi tra l'uomo ed il bambino, seppur scarni, ridotti ai minimi termini, sono straordinariamente pregni di un'intensità poetica che straborda dalle parole dando piena consapevolezza al lettore della forza di quel legame simbiotico tra padre e figlio in cui l'uno è il mondo intero dell'altro.
"Guardò il bambino addormentato. Ce la farai? Quando sarà il momento? Ce la farai?
Dormirono l'uno contro l'altro fra le trapunte puzzolenti nel buio e nel freddo. Lui teneva il bambino stretto a sè. Così magro.
Angelo mio, disse."
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Un piccolo capolavoro
"Ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare."
La strada è un romanzo apocalittico di Cormac McCarthy, che ha permesso all’autore di conquistare il premio Pulitzer nel 2007. Nello stesso anno è stato pubblicato da Einaudi e ristampato nel 2014. Nel 2009 è uscito nelle sale un adattamento cinematografico con Viggo Mortensen come protagonista.
La strada è un volume breve ma intenso, quasi estenuante, ambientato in un mondo ormai in rovina. La trama in realtà è semplicissima: un padre e un figlio viaggiano verso sud, cercando di arrivare al mare.
Quello che colpisce è, invece, il modo in cui McCarthy sviluppa questo breve horror post-apocalittico: l’autore lascia che i suoi personaggi si scontrino non con un antagonista “canonico”, ma con il bisogno di sopravvivere.
Lo stile essenziale dell’autore, la mancanza di fronzoli e descrizioni dettagliate, sembrano sottolineare la sensazione di morte che permea il mondo dove si muovono i protagonisti, amplificando l’angoscia che l’uomo e il bambino provano dopo giorni senza cibo e acqua.
PERSONAGGI
"Le storie che raccontava erano sospette. Non poteva ricostruire il mondo perduto per compiacerlo senza trasmettergli il dolore della perdita, e pensò che forse il bambino lo sapeva meglio di lui."
I protagonisti del libro sono due: un padre e un figlio. Non hanno nome, non ne hanno bisogno. Il padre è un’ombra, grigia quanto il mondo che li circonda, che cerca di non pensare al passato, ma non può fare a meno di rifugiarcisi, anche solo nelle storie che racconta al bambino. La sua vita, la sua intera esistenza sembra dipendere solo dal piccolo che lo accompagna.
Il figlio, invece, sembra completamente fuori luogo rispetto al mondo circostante: nonostante tutte le difficoltà, non perde mai il desiderio di aiutare gli altri, e soffre ogni volta che il padre è costretto ad uccidere un altro uomo o ad abbandonarlo lungo la strada. Il suo comportamento è talmente in antitesi rispetto al contesto, che più di una volta mi sono irritata, esattamente come il padre. Allo stesso tempo, però, la sua bontà lascia degli spiragli nella storia, la alleggerisce.
CONCLUSIONI
"Ciò che si altera ricordando ha comunque una sua realtà, che la si conosca o meno."
La strada è un libro che a volte ti colpisce come un pugno nello stomaco. Nonostante siano poco più di duecento pagine, la trama sia inesistente e l’autore non spieghi nulla dell’ambientazione, delle origini di tutta quella distruzione, la lotta per la sopravvivenza dei due protagonisti viene descritta in modo talmente realistico e semplice da entrare sottopelle.
Per tutta la lettura ho continuato a chiedermi che cosa avrei fatto io se fossi stata nei loro panni. Sarei andata avanti, sapendo che non c’è più la minima scintilla di speranza? Che cosa spinge questo uomo a continuare a camminare, ad andare avanti ogni giorno quando tutto quello che lo circonda è solo cenere e morte?
L’autore ci mette davanti alla brutalità dell’uomo, ci fa domandare fino a che punto l’essere umano potrebbe arrivare per sopravvivere: continueremmo a cercare di essere compassionevoli? Oppure diventeremmo dei mostri che rinchiudono in cantina i propri simili per farli a pezzi e cibarsi delle loro carni?
Ma non solo. McCarthy mette in primo piano anche il tema dei ricordi. In una situazione così disperata, quanto i ricordi sono un sollievo e quanto un peso?
La strada è un libro impegnativo e non sono sicura che sia adatto a tutti. Un lettore impressionabile potrebbe rimanere troppo colpito da alcune scene, anche se l’autore non si accanisce mai nelle descrizioni. Eppure ritengo che sia una lettura importante, una di quelle che più mi ha fatto riflettere, nonostante la scelta di non dare spiegazioni sull’ambientazione e sul bambino.
Proprio quest’ultimo è la risposta a molte delle domande che l’autore ci presenta nella sua opera. Sottolinea come, anche in mezzo all’apocalisse, si possa rimanere umani per quanto sia difficile. Non per nulla, sono pochissimi i personaggi che portano il fuoco.
"Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso."
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Orrore ed amore per sempre...
Una strada, un uomo che tiene stretto a se’ un bambino tremante, l’ uno il mondo dell’ altro, solitari, ostinati, tra le macerie del mondo. Nulla più, solo una oscurità senza nome, freddo e silenzio, il fantasma della sagoma grigia della città, l’ aria cinerea tra i resti di una terra defunta.
Due figure emaciate che viaggiano verso sud, senza meta e speranza, neanche di vita, sospinti da un flebile soffio, sfiniti, assonnati, affamati, quasi morti.
Che cosa è successo? E chi sono i buoni e i cattivi? Difficile dirlo se non che vecchie e spinose questioni si sono risolte in tenebre e nulla. Ormai sopravvive stentatamente il solo presente, un legame indissolubile, un uomo senza nome che spinge un carrello, tenendo stretto a se’ un bambino tremante.
Non ci sono liste di cose da fare, ne’ un dopo, padre e figlio stanno morendo di fame vagando in una oscurità senza nome, dimensione e profondità. Esistono ancora i sogni, confusi con l’ incubo in atto ed i fantasmi che popolano un paesaggio di cenere e morte.
È un ritorno ad una vita primaria, prede e predatori sospinti da un istinto di sopravvivenza ed una misteriosa forza che costringe a rischi incalcolabili per proteggere i propri cari.
E’ una caccia disperante alla ricerca di cibo, braccati da ombre oscure, dalle proprie paure, dalla certezza di una morte imminente. Ma è costantemente presente, tra le pagine, un grande senso di tenerezza, l’ amore sconfinato per il proprio bambino, e guardandolo dormire l’ uomo scoppia in un pianto irrefrenabile legato a bellezza e bontà, concetti in lui dissolti dalle tenebre dell’ oggi..
Il bambino domanda, si interroga, desidera parlare, ascoltare, sapere. Ma l’ uomo non può ricostruire un mondo perduto senza trasmettere anche il dolore della perdita ne’ riaccendere nel cuore del figlio la cenere del proprio sentire.
La paura è compagna costante, insieme ad umana dissolvenza e ad una inverosimile invidia per i morti. Si cerca di ripensare alla propria vita, ma non c’è una vita a cui pensare, ogni attimo è una menzogna, i giorni si trascinano uno dopo l’ altro e padre e figlio camminano oltre, lerci, cenciosi, verso l’ ignoto.
Ci sarà un momento, inevitabile, inderogabile, in cui le forze verranno meno e si sentirà la fine imminente.
È allora che, rimossi egoismo e rimpianto, un padre non potrà’ più tenere a se’ il figlio, pena un cortocircuito evidente, ma, indicatagli la via, dopo averlo guidato, protetto, accudito, curato, sfamato, consolato lo lascerà allontanarsi, per sempre, in un sublime gesto d’ amore.
Nel deserto di una terra ignota e smarrita, di fronte al mare aperto, l’ amore figliale svelerà una speranza di vita in un fotogramma stridente ma ancora più forte.
Il presente, con il proprio sistema affettivo e relazionale, è vissuto strenuamente nella forza delle parole, nei silenzi, nella condivisione, nella sofferenza, nella esperienza e nella trasmissione della eredità genitoriale, in una relazione viva e significante, laddove imperano esclusivamente cenere, disperazione e morte.
E’ la forza di un amore puro, disinteressato, ostinato a precedere fatti e ossessioni e inseguito con tutto se stesso a dare un senso preciso al racconto.
In questa oscurità impenetrabile e nel buio freddo ed autistico, laddove si vive l’ assenza del tempo e corpi e materia si sono fusi indistintamente lasciando la propria essenza e rivelando una fragilità onnipresente, non rimane che questo, e scusate se è poco….
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il coraggio di proseguire la propria strada
“Freddo e silenzio. Le ceneri del mondo defunto trasportate qua e là nel nulla da lugubri venti terreni. Trascinate, sparpagliate e trascinate di nuovo. Ogni cosa sganciata dal proprio ancoraggio. Sospesa nell'aria cinerea. Sostenuta da un respiro, breve e tremante.” (p. 9)
Polvere e cenere, cielo plumbeo, pioggia, neve e freddo. Padre e figlio camminano con una carrello e una pistola in cerca di cibo, entrano in qualche vecchia abitazione distrutta, il padre prende ciò che trova, mangiano, dormono e riprendono il cammino verso sud, verso un mare che poi si rivelerà anch'esso grigio e senza vita. Il mondo è diviso in buoni (pochi) e cattivi che uccidono senza pietà gli altri uomini e se ne nutrono. Uno scenario post-apocalittico in cui solitudine e devastazione hanno cancellato tutto: spazio e tempo si sono annullati, non esiste la speranza che qualcosa possa cambiare. Solo la presenza del bambino dà al padre la motivazione per non arrendersi, la forza per proseguire:
“Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c'è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un'origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te" (p. 42)
McCarthy ci presenta un mondo tornato alla preistoria della civiltà, in cui la fame è la caratteristica dominante, popolato da bande di predoni nomadi pronte ad uccidersi pur di mangiare. Non sappiamo cosa sia accaduto prima, quale catastrofe abbia ridotto il mondo in queste condizioni: il padre ha qualche ricordo, talvolta sogna, ma i sogni non possono dare consolazione né speranza e il padre invita il bambino a diffidare dell'immaginazione:
“Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso.” (p. 144)
L'importante è non arrendersi, andare avanti, qualunque cosa accada. Padre e figlio hanno un'unica certezza: sanno di essere “i buoni” e portano il fuoco che in questo testo ha un potente valore simbolico: in un mondo buio, freddo e senza amore è l'elemento che, forse, consentirà di ricreare una civiltà nuova fatta di luce, calore e solidarietà. Il bambino ha questo ruolo: è lui a portare il fuoco perché è l'unico ad aver mantenuto caratteristiche "umane", non vuole uccidere per mangiare, è terrorizzato dal cannibalismo, vuole sempre aiutare chi incontra offrendo il poco cibo disponibile.
“La strada” è un romanzo molto suggestivo, dal forte impatto emotivo, angosciante. L'autore si esprime con una prosa essenziale, incisiva, in forte sintonia con il contenuto, tanto che a tratti risulta destabilizzante. Il testo è ricco di simboli e significati che il lettore è libero di interpretare, non sono mancate letture in chiave religiosa visto che all'inizio si dice “Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.” (p. 4).
“La strada” è un libro che all'inizio mi ha spiazzata, poi coinvolta e alla fine commossa. Appena terminata la lettura ero perplessa, ho dovuto attendere qualche giorno per metabolizzarne i contenuti e le impressioni, per capirne il significato e per apprezzarne lo stile che, al primo impatto, mi era sembrato eccessivamente monotono. Ora posso dire che, alla fine, "La strada" mi è piaciuto; il mondo descritto da McCarthy non è poi così lontano: l'egoismo, la solitudine e la mancanza di speranza da sempre possono rendere la vita un inferno in cui solo l'amore può darci la forza di alzarci e la determinazione per proseguire nella nostra strada.
“Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto?
Alzarmi stamattina, disse.” (p. 207)
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La strada della vita.
Uno scenario post apocalittico stile The Walking Dead, un uomo/padre, un bambino/figlio, un carrello con un pò di cose, nient’altro. E’ questo in sostanza tutto quello che troverete in questo romanzo, che essendo stato pubblicato per la prima volta nel 2006 può essere considerato forse fonte di ispirazione per certi film o serie tv venute dopo.
Il romanzo parte subito molto stretto sui due protagonisti e non ci viene mai spiegato perché o come il mondo sia stato ridotto ad una landa desolata. Allo stesso modo non ci viene mai detto il nome dei due protagonisti che vengono sempre indicati come “l’uomo” o “il papà” ed “il figlio” o “il bambino”. La storia si svolge molto lentamente, tra una visita in cerca di cibo in un paese abbandonato ed un sogno del padre che spesso ci ricorda com’era la vita prima “dell’armageddon”. Gli unici personaggi che si incontrano nel racconto sono degli altri disperati, che il papà divide in buoni (sostanzialmente delle vittime sacrificali), ed in cattivi (predoni, ladri, pirati ma soprattutto cannibali). L’obiettivo è quello di arrivare al mare e cercare una presunta via di fuga da questo mondo, d’altra parte è significativo quello che dice spesso il bambino: “Noi siamo i buoni Papà, noi portiamo il fuoco”.
Alla fine non andrà tutto come previsto ed il romanzo lascerà la storia aperta così che a questa il lettore possa dare diverse interpretazioni o più semplicemente finali. L’impressione che mi ha dato è stata quella di voler raccontare tramite un’allegoria il percorso padre-figlio, dalla formazione, all’incontro delle difficoltà e relativo superamento, al lasciare il figlio andare per la propria strada quando ormai non si ha più nulla da potergli dare/insegnare.
La scrittura è semplice, i capitoli e i paragrafi sono spesso corti e spezzettati, il linguaggio scorrevole e ricco di dialoghi. La storia in sé non è brutta ed è stato anche molto bravo l’autore a non esagerare con il numero di pagine vista la continua ripetizione di scene, paesaggi e personaggi che avrebbero potuto ala lunga risultare ripetitivi e noiosi. In conclusione è un libro breve e che si legge velocemente anche se a tratti rischia di diventare un monotono. Una lettura leggera di qualche giorno.
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ATTENZIONE! MANEGGIARE CON CURA!
Approcciatevi alla lettura di questo libro con molta delicatezza. Entrateci in punta di piedi.
Alla fine di questo viaggio vi sentirete diversi, con una consapevolezza nuova verso il mondo che ci circonda e gli esseri che lo abitano. Penserete: in fondo ciascun libro, al suo epilogo, ti lascia qualcosa dentro. È vero, non lo nego. In questo caso, però, l'impatto è forte, tanto forte.
La scrittura di McCarthy è di fronzoli, è "pane al pane, vino al vino", non prevede descrizioni e dettagli che, a volte, possono risultare estenuanti e smorzano il ritmo della narrazione. Non ci sono sfumature nel suo modo di vergare: o è bianco o è nero.
In questo caso è tutto nero, il buio pesto cala come un manto su una cittadina americana, colpita da una catastrofe. La gente del luogo è stata decimata quasi totalmente. È come se la catastrofe avesse spostato l'asse temporale fino all'era primitiva, dove governano gli istinti, soprattutto quello di sopravvivenza. I pochi sopravvissuti sembrano viaggiare a ritroso nel tempo e ne tornano cannibali. Vagano in cerca di vite umane da spezzare per poi nutrirsi dei loro corpi straziati. Che siano adulti o bambini, non fa differenza.
Solo un padre e il suo bambino conservano un animo buono e affrontano l'impervio paesaggio tra pioggia, neve, freddo, fame e febbri da cavallo, stando accorti a nascondersi dai cannibalj nei boschi. Frugando nelle case ormai disabitate, tentano di racimolare cibo, coperte, indumenti, teli di plastica e un po' di benzina per accendere il fuoco. Raccolgono il tutto in un carrello del supermercato.
La natura della catastrofe non viene specificata, l'uomo e il bambino non hanno un nome. Queste omissioni non tolgono alcun valore alla storia.
Vi ho consigliato di entrarci in punta di piedi, perché, è inutile nasconderlo, questo è la disperazione fatta libro. Avrete l'esigenza di sospendere per un po' la lettura, perché farà troppo male, perché vi sembrerà di ingoiare tanti piccolj pezzetti di vetro, perché alcune immagini sono davvero crude.
Vi chiederete se mai arriverà qualche spiraglio di luce in tutta quella cenere, in quel mondo monocromatico. La luce arriva, ma a piccole, piccolissime dosi e sarà come respirare ossigeno a pieni polmoni dopo un tentativo di soffocamento.
Fate attenzione al bambino, fate attenzione ad una frase che l'uomo pronuncia parlando del figlio: "Se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato."
Vi ci imbatterete nelle prime pagine, ma l'apprezzerete fino in fondo solo alla fine.
Il bambino è la chiave, è l'oasi nel deserto, è "colui che porta il fuoco", è il simbolo di una speranza che ancora non si è spenta. Non posso dirvi altro su di lui. Rischierei di non farvi vivere a pieno questa esperienza, perché, si, questo libro è un'esperienza di vita, nella quale, ancora una volta, è un bambino ad indicarti la strada.
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Una lunga e grigia delusione
Premio Pulitzer per la narrativa 2007, scritto da uno dei maestri contemporanei della lettaratura americana autore di molti altri scritti di successo, incensato dalla critica trasversalmente.
Con queste premesse ho iniziato questo libro convinto di leggere un sicuro capolavoro, purtroppo la realta` e` stata contraria alle mie aspettative. Un romanzo ambientato in un grigio e nebbioso futuro post-apocalittico dove i due protagonisti, padre e figlio senza nome entrambi, sono gli unici personaggi che appaiono accompagnati da un carrello da supermercato, nella loro costante ricerca di cibo per sopravvivere.
Pochissimi altri personaggi fanno capolino tra le pagine e questi sono perlopiu` accessori ignorabili che aggiungono poco al totale. Un mondo disabitato, dove il cannibalismo e` pratica comune e dove i valori sono stati rovesciati per sopravvivere ad una totale mancanza di ordine.
Lungo la strada, da cui il titolo, si accompagna la coppia e pagina dopo pagina si realizza che il vero protagonista del libro e` il rapporto bellissimo tra padre e figlio; un padre che nonostante tutto continua a instillare un'educazione ai principi sani e giusti del genere umano, attraverso i modi piu` disparati, che conferiscono alla storia i momenti di climax piu elevato visto la tenerezza ed empatia che suscitano.
Oltre a questo poco altro, si continua a leggere aspettando che succeda qualcosa, aspettando un picchio di emozioni, un destino, un qualcosa che non arriva e che lascia quella sensazione di incompiutezza per la quale probabilmente e` stato scritto il romanzo, dove forse lo scrittore ha voluto evidenziare l'importanza dei rapporti familiari piuttosto che distarre con trame accessorie.
Lo stile di McCarthy non mi ha entusiasmato, l'uso costante della terza persona singolare, la descrizione ripetitiva di paesaggi sempre uguali, il non dare nome ai personaggi sono tutti elementi che hanno contribuito a non farmelo piacere e a rendere la lettura pesante.
In definitiva un libro che a mio parere e` sopravvalutato, che promette piu` di quello che mantiene e che mi ha deluso non poco.
Mai è un sacco di tempo.
Una storia triste e tetra da immaginare in bianco e nero, un papà e suo figlio che cercano la salvezza in un mondo in cui non ce n'è.
Non sappiamo i nomi dei protagonisti ma sappiamo che c'è un forte legame tra i due, il padre che cerca con tutte le sue forze di far sopravvivere lui e il suo bambino, unica purezza e ragione della sua attuale vita.
Sporadiche scene del passato raccontate dal padre che il bambino non può ormai più capire perchè il suo mondo è quello che vivono alla giornata, distese di cenere e paura, tanta paura che corrode la loro vita ma fortunatamente non riesce a uccidere il loro lato umano.
Incontri sfortunati con altri sopravvissuti che sono quasi difficili da leggere e concepire, la scena della botola mi ha lasciato del male dentro.
Una storia che potrebbe riguardare chiunque in un mondo devastato dagli eventi ed il finale è davvero troppo veloce per un libro così sentito.
Lo consiglio a tutti anche se è un romanzo che ti lascia la disperazione addosso.
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Il verbo di Dio
Quanto può fare male un libro?
Quanto mi ha fatto male "questo" libro?
Pensate un numero, il numero più alto che riuscite ad immaginare...la risposta sarà sempre e comunque "di piu". Molto di più.
Può una scrittura essere spietata, asciutta, cruda e allo stesso tempo tremendamente poetica?
Può toglierti il fiato con uno scenario doloroso oltre ogni immaginazione e riscaldarti il cuore con poche parole?
Sì, può.
E di fronte a tutto questo io mi sciolgo come burro al sole.
È tutto finito...il mondo, i colori, i profumi, il cielo, il mare, la luce...e proprio mentre tutto finisce e brucia per non si sa cosa né perché, lui, "il bambino", nasce.
E non saprà mai com'era prima...prima della cenere, del grigio, dell'infinito nulla su cui si ritrova a camminare accanto a suo padre, "l'uomo".
Lei, la mamma, si è arresa...non ce l'ha fatta ad accettare tutto questo.
Neanche per amor suo.
E così ci ritroviamo a seguire questo padre e questo figlio in questa agghiacciante lotta per la sopravvivenza, in questo deserto di anime, dove anche i sentimenti sono stati uccisi, dove o sei buono o sei cattivo...
Tutta la desolazione, la devastazione, la disperazione di un mondo finito, bruciato, apocalittico, è in netto contrasto con la dolcezza e l'intensità dei dialoghi tra padre e figlio, così concisi, ermetici, secchi, eppure così potentemente significativi, traboccanti di amore, reciproca fiducia, reciproca protezione, speranza...
Lui, un bambino che non ha conosciuto il "prima", è portatore sano di un amore senza limiti, di un'umanità che ti fa vergognare delle tue piccole miserie, di un'innocenza che persiste nonostante lo sciacallaggio che la vita gli ha riservato.
Mi sono ritrovata a commuovermi per un sorso di Coca Cola, a tremare di paura per un terremoto, a sentire freddo e fame, fame da morire...
Questo romanzo va oltre la sorda disperazione...mi ha scavato un tunnel dentro che, probabilmente, non riuscirò più a richiudere, e "l'uomo e il bambino" alloggeranno lì per sempre. Dentro di me. Con il loro fuoco, il fuoco della vita.
E faranno di me una "buona".
Leggere "La strada" non è stato semplicemente "leggere", ma piuttosto "vivere un'esperienza"...e come tale, dopo averla vissuta, non potrai più essere la stessa persona di prima.
Io non credo di esserlo.
Ti spezza qualcosa dentro...e ti lascia in eredità tutto il peso della "rinascita".
"Se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato"
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Il mondo secondo McCarthy
Ho testato sulla mia pelle che addentrarsi inconsapevolmente nella scrittura di McCarthy può portare a serie conseguenze quali: senso di disagio durante la giornata, perdita del senso del tempo e dello spazio, bisogno di isolamento e visioni apocalittiche durante i sogni notturni, o forse sarebbe meglio chiamarli incubi.
Leggere questo autore è davvero un'esperienza al limite dello straordinario.
Il mondo descritto da McCarthy ti buca la pelle come un ago e poi ti si propaga come un siero che ti uniforma agli uomini e alle donne, senza passato e senza futuro giunti lì prima di te, che vagano per luoghi senza nome.
Sai solo di essere in un limbo di terra sospesa tra realtà e paradosso, nel punto esatto dove una mente sana oscilla verso l'insano.
È un libro senza trama ma con una visione.
Un uomo e un bambino, vagano su di una terra senza tempo durante giornate tutti uguali scandite dai loro passi trascinati nella polvere di strade senza nome.
Sono stretti l'uno all'altro e comunicano tra loro attraverso brevi domande e sintetiche risposte a cadenza ripetitiva, come a simulare una litania funebre.
Le loro teste sono sovrastate da cieli di metallo e in lontananza si scorgono orizzonti spettrali, panorami arsi e mari lividi.
L'aria è irrespirabile. Densa. Fumosa.
I loro volti sono emaciati e segnati da un freddo del tutto irriconoscibile che penetra persino nei pensieri del lettore, ghiacciandoli.
Vagano cercando cibo e riparo. Quello è l'unico vero scopo, continuare a trascinarsi su di una terra che non è più quella che conosciamo, quella di cui abbiamo fatto parte e di cui ci hanno raccontato le generazioni precedenti.
Questa terra è stata completamente ridisegnata, quello che c'era non esiste più e gli uomini sopravvissuti sono cambiati.
Sono sagome esangui senza dignità o mostri mascherati da uomini.
Padre e figlio provano a raggiungere la costa.
Il padre è attento a mantenere in vita il figlio e il figlio si aggrappa agli insegnamenti del padre, perché un giorno dovrà cavarsela da solo.
La trama è tutta qui, si annoda e si snoda attraverso il rapporto padre/figlio in un mondo post apocalittico percorso da flashback onirici provenienti da un passato a colori.
Poche pagine che scorrono come oro fuso sotto gli occhi di un lettore paralizzato.
È una lettura psichedelica ed esasperante.
Le parole vanno assaporate goccia a goccia come se si vivesse in un deserto e si necessitasse di acqua.
Lo stile di McCarthy è raffinatissimo, potente, una parabola discendente che si aggrappa ad una speranza che fluttua nell'aria, ma che non si riesce mai ad agganciare del tutto.
Un finale un po' scontato, da movie americano, che mi ha fatto sorgere una domanda: "perché voler a tutti i costi sostenere l'umana speranza quando, per tutto il tempo, la storia mi convince insistentemente che è persa da tempo?
Avrei preferito un finale filosofico e alternativo.
Una via d'uscita che aprisse nuove domande.
Così non è stato ma per me è ugualmente un piccolo capolavoro di scrittura.
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c'è ancora umanità?
Non c'è un luogo specificato. Non c'è un nome pronunciato. Non c'è una speranza concreta. Paradossalmente non c'è nulla di quello che tutti noi agogniamo quotidianamente: dare un nome, avere tutto sotto controllo, sapere dove si sta andando.
Romanzo da togliere letteralmente il fiato, La Strada, si apre su una realtà (forse) post-apocalittica, dove i protagonisti sono un padre e suo figlio che devono andare verso sud. Il bambino rappresenta la speranza e l'animo umano ancora intatto, animo che il padre non ha più e che difende con una pistola nella quale son rimasti solo due proiettili.
Durante il loro cammino incontrano desolazione e cenere e qualche individuo poco raccomandabile, come se insieme alla Terra si fosse estinto anche il sentimento umano (in una scena trovano addirittura delle persone vive tenute prigioniere per diventare i pasti dei loro aguzzini).
Più volte durante la storia il bambino domanda al padre se stiano per morire..e non sempre il padre riesce a mentirgli.
Incisivi ed efficaci i dialoghi privi di qualsiasi punteggiatura e composti da lapidarie e brevi frasi, in alcuni casi solo singole parole. Descrizioni semplici del paesaggio circostante, con elementi costanti, come la cenere, il freddo di notte, la pioggia grigia e tutto bruciato.
Come giustamente ha scritto Arianna nella sua recensione, è un paesaggio in bianco e nero..il lettore stesso non riesce ad immaginarsi i colori. E personalmente non mi sarei mai immaginata di leggere un libro così.
Fondamentalmente i contenuti non sono un granchè, voglio dire, per tutto il romanzo non si fa altro che camminare, fermarsi, dormire, cercare da mangiare..per poi ricominciare da capo, come se il mondo si fosse fermato: eppure McCarthy è stato in grado di scendere così a fondo nell'animo umano da coinvolgere il lettore a livello emotivo, lasciandogli addosso una sensazione di straniamento e smarrimento.
Quasi a volerti dire "prova a pensare se succedesse a te".
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Un libro silenzioso, in bianco e in nero
“La Strada”, un romanzo scritto nel 2006 da Cormac McCarthy, è un libro veramente inusuale, mi piace definirlo un libro silenzioso in bianco e in nero. Questi aggettivi, seppur insoliti per un libro, lo rispecchiano perfettamente. McCarthy infatti presenta al lettore una situazione estremamente triste e difficile per i personaggi, dove la gioia, i colori e le persone sono state bruscamente spazzate via, per lasciare il posto ad un’atmosfera cupa e buia dove regna il silenzio e la desolazione.
La trama del romanzo è fondamentalmente semplice: McCarthy narra di uno spaccato di vita, (sempre se vita si può definire), di un padre e di un figlio, che in balia del nulla si trovano giorno dopo giorno a lottare per la loro sopravvivenza.
Un vecchio carrello della spesa dalle ruote arrugginite, un pentolino e qualche coperta bucata, questo è tutto ciò di cui dispongono i due protagonisti.
L’elemento eccezionale che rende unico questo libro è lo sfondo, estremamente cupo e misterioso. Si tratta di un panorama indefinito, forse una regione o una valle, dove tutto è stato raso al suolo, tutto è stato distrutto. Le pianure sono aride, non ci sono animali, non si trova acqua pulita, l’atmosfera è immersa in un gelo penetrante, buio e senza vita. Il background fa pensare alle conseguenze di un’improvvisa apocalisse, una specie di inferno dove regna il silenzio, la diffidenza e dove la pace non è mai esistita.
L’uomo e il bambino vagano per questo panorama desolato in cerca di risorse e di qualcosa di commestibile, ogni tanto vedono un cadavere, ogni tanto un uomo vivo.
Nel primo caso passano oltre, completamente noncuranti della disgrazia, limitandosi a derubarlo in caso di averi considerati preziosi, come un coltello, un filo o un bottone. Nel secondo caso invece, colti alla sprovvista, se possono si nascondono, altrimenti premono il grilletto.
Durante il percorso gli incontri, seppur rari, sono particolarmente significanti, si imbattono una volta in una banda di superstiti, che si trovano più o meno nelle stesso loro condizioni disumane. Il bambino durante questo “incontri” assiste a scene raccapriccianti, che lasceranno un solco profondo nel suo animo fragile: un gruppo di uomini e donne, seduti attorno ad un falò, che cuociono, infilato in un ramo, un neonato. Questa appena riportata è una delle scene più crude e violente del libro, che rende partecipe il lettore, mostrandogli fin dove l’uomo può spingersi nei momenti di disperazione.
Al contrario però ci sono scene estremamente dlci e commoventi, dove il padre nonostante le avversità cerca di crescere il proprio figlio al meglio, sacrificandosi al suo posto, cedendogli la razione maggiore di pane, o l’ultimo goccio d’acqua.
Il tema della morte è una costante ripetuta per tutto il libro, il bambino domanda più e più volte al padre la struggente frase “papà, stiamo per morire?”.I discorsi tra il padre e il figlio sono ridotti a poche battute, i due si parlano solo nei momenti di estremo bisogno o nei momenti di assoluto sconforto, questo conferisce al libro un tono particolarmente silenzioso. Ciò che accentua la sobrietà e semplicità dei dialoghi sono l’assenza di aggettivi e avverbi, e l’assenza di virgolette nei discorsi diretti.
“La strada” è il tipo di libro che mantiene il lettore incollato alle pagine fino alla fine, chi lo legge può sentirsi confuso e anche dopo aver terminato la lettura potrebbe non comprendere il senso del libro. McCarthy probabilmente ha voluto mettere in risalto l’importanza dei rapporti tra le persone, che poco a poco stanno scomparendo silenziosamente. I rapporti e le emozioni si intensificano però nel momento del bisogno, come nel caso del padre e del figlio, sono uno la ragione di vita dell’altro, questo perché sono l’unica cosa che hanno. Ma se invece le condizioni in cui si trovassero fossero diverse? Se non avessero bisogno di percorrere chilometri per mangiare e bere e non avessero bisogno di foglie per non morire di freddo, si sarebbero comunque voluti così bene? Avrebbero capito che l’unica cosa che l’uomo può possedere in eterno è l’amore?
Forse no, non l’avrebbero mai capito, e senza quest’imperdibile lettura molte persone non lo capiranno mai.
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Mai è un sacco di tempo
“La strada”, premio Pulitzer 2007 a Cormack McCarthy, è un romanzo post-apocalittico con due protagonisti: l’uomo e il bambino (“Il bambino era l’unica cosa che lo separava dalla morte”).
Si è verificata una catastrofe (nucleare?) e il mondo si spalanca desolato (“Impiegarono interi giorni per attraversare quella piana cauterizzata”) e devastato (“Tutto era ridotto in cenere”) davanti agli occhi dei pochi sopravvissuti. Il clima è mutato (“Lungo l’arido crinale, alberi scorticati e neri sotto la pioggia”) e i paesaggi sono desertici e grigi. Il padre intraprende il viaggio (“E stiamo sempre andando a sud”) con il figlioletto: i due sono i buoni, forse sono l’ultima chance per rifondare un’umanità distrutta, spaventata e condannata alla solitudine (“Perché non c’è nessuno a cui fare dei segnali. Giusto?”). Si aggirano con un carrello nel quale ripongono i viveri; una pistola è l’unico strumento di difesa del quale dispongono (“Tieni sempre la pistola con te. Devi trovare altri buoni, ma non puoi permetterti di correre rischi… Non puoi. Devi portare il fuoco”).
Il viaggio si svolge tra pericoli, stenti (“Stavano veramente morendo di fame”) e segnali preoccupanti (“Uno schianto fra gli alberi”). Le soste avvengono in prossimità di case abbandonate o bunker che talvolta celano l’orrore, del quale il bambino prende consapevolezza (“Non sapeva se il bambino avrebbe mai ripreso a parlare”).
Lungo il percorso, i due s’imbattono in esuli solitari o bande di superstiti (“Avanzavano strusciando i piedi nella cenere e dondolando le teste incappucciate. Alcuni portavano maschere antigas. Uno aveva una tuta antiradiazioni”) che spesso praticano il cannibalismo (“Se li mangeranno, vero?”). Quando arrivano al mare, la delusione s’impossessa del bambino (“La pelle cerea del bambino ormai era quasi trasparente”), che si ammala. Anche l’uomo si sente sempre più debole e una tosse insistente lo affligge…
Lo stile dell’autore si tronca in periodi brevi, spesso costituiti da singole parole; i dialoghi sono rapidissimi e mai in forma esplicita. L’atmosfera catastrofica incombe sull’intero romanzo che, nel finale, si squarcia in una prospettiva incerta, degna della luce minacciosa che illumina tutta la storia (“La traccia di un sole smorto che si muoveva invisibile oltre le tenebre”). Che sia avvertimento, futuro possibile o pericolo da scongiurare (“Migliaia di notti a sognare i sogni della fantasia di un bambino, mondi di volta in volta generosi o terrificanti ma mai il mondo che sarebbe stato davvero”), il romanzo entra direttamente nelle vene di chi lo legge. Ed è destinato a rimanervi (“Mai è l’assenza di qualsiasi tempo”).
Bruno Elpis
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Allucinante realtà tra morte e rovine
Frastornato! Sì, è proprio questa la sensazione che ho avuto durante la lettura ed è rimasta anche alla fine del romanzo; nello stesso tempo ho acquisito notevole consapevolezza su ciò, anche se in maniera remota, potrebbe realmente accadere al nostro mondo. La narrazione è del genere post-apocalittico; due persone, padre e figlio i cui nomi non è dato sapere, camminano lungo un percorso fatto di estremo degrado ambientale, scheletri di città, rovine e morte. Altre persone, molto poche, sopravvissute a una catastrofe termo-nucleare, si aggirano tra la cenere, la nebbia, una natura composta di alberi abbattuti, secchi, anneriti, campi che non producono nulla, strade, sentieri e abitazioni invase da ciò che rimane dopo una distruzione collettiva che, oltre a generare morte, ha cambiato drasticamente la civiltà fino a una immane regressione che ha trasformato i superstiti in fantasmi senza meta, alla ricerca di cibo e di riparo necessari alla sopravvivenza.
Tutto ciò che l’uomo ha costruito negli scorsi millenni, non esiste più; la tecnologia, che ha tanto contribuito al benessere della società, è ormai ridotta a sterili detriti di ferro arrugginito, di chiazze scure a macchia di leopardo, di spunzoni di materiale vario che si ergono verso un cielo plumbeo a similitudine delle dita di innumerevoli mani che cercano un aiuto da qualche superiore entità che non esiste più. I colori sono spettrali e si fondono in un atipico alone di foschia.
In questo cammino di profonda desolazione, padre e figlio cercano di raggiungere una meta che possa dar loro l’esile di speranza di poter ricominciare anche partendo da un nuovo stato primitivo, preistorico; ma devono affrontare l’orrore e le miserie cui gli altri esseri rimasti sono impregnati a causa di una sub-umanità che ha connotazioni più basse e terribili di un animale senza freni inibitori per i quali l’arcano cervello rettiliano ha preso totale possesso.
Il romanzo segue queste grandi linee in un allucinante lotta per la sopravvivenza in luoghi dove la vita ha cessato la sua attività ed è stata sostituita da un vuoto lacerante.
La riflessione è la seguente: ci vuole più coraggio a farla finita con il suicidio oppure continuare a nutrire un barlume di speranza che va conquistato ora dopo ora in situazioni di estrema difficoltà e barbarie?
L’epilogo è un connubio tra una forte tristezza e la possibilità, ancorché teorica, di provare a ricostruire cominciando dall’età della pietra.
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L'uno il mondo dell'altro
“La strada”, pubblicato nel 2006 e vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2007, è l’ultimo romanzo del grande autore americano Cormac McCarthy.
Scenario post apocalittico. Il mondo è stato colpito da un improvviso ed indefinito cataclisma che ha distrutto tutto radendo al suolo il paesaggio terrestre, ormai ridotto ad un cumulo di ceneri. La popolazione umana è stata decimata ed obbligata a tornare ad uno stile di vita primitivo. Gli altri esseri viventi si sono pressoché estinti.
Un padre e un figlio, di cui non verranno mai svelati i nomi, intraprendono un lungo e faticoso viaggio diretti verso un imprecisato Sud, per sfuggire alla rigidità dell’inverno e procurarsi del cibo. Nel terrore di imbattersi in altri uomini divenuti, in un simile contesto, pericolosi avversari.
È una storia straziante, incentrata sull’istinto di sopravvivenza dei protagonisti come unica molla per andare avanti e non lasciarsi andare. Gli esseri umani superstiti si sono trasformati in animali feroci, bestie affamate e diffidenti vaganti in una terra ostile, afflitte da paure ancestrali ed intrappolate da un destino tragico.
Fa eccezione il rapporto tra il padre ed il bambino, ricco di calore e preoccupazione reciproca. Soprattutto il figlio, nato dopo la catastrofe, dimostra in più di un’occasione pietà e desiderio di aiutare il prossimo. È una fiammella accesa. Rappresenta il futuro, la speranza, la scelta. In qualsiasi circostanza, si può sempre scegliere se comportarsi come un essere umano o come una bestia.
Lo stile di McCarthy, scarno, essenziale e minimalista, è perfetto per una storia angosciosa e desolante. “La strada”, al netto di alcune eccessive e statiche ripetizioni, è un romanzo intimo ed importante. Il suggello finale di uno dei grandi autori americani del Novecento.
Nel 2009, per la regia di John Hillcoat, è stata tratta una versione cinematografica con protagonisti Viggo Mortensen, Charlize Theron, Robert Duvall e Guy Pearce.
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Un uomo, suo figlio, il carrello della spesa e una
Un uomo, suo figlio, il carrello della spesa e una strada da seguire.
MI piace immaginarlo come un documentario sulla vera natura dell'uomo. La vita in un mondo dopo una catastrofe non meglio precisata. Se sia stato l'uomo o la natura a cambiare il mondo non è da sapersi ma sicuramente sia l'uomo che il mondo sono cambiati profondamente. La gioia e stata spazzata via insieme ai colori e agli animali. Il cielo è oscurato e per sopravvivere l'uomo rispolvera un cannibalismo che sembrava sepolto da millenni di evoluzione invece è ancora li, quasi a far da padrone per una necessaria sopravvivenza.
L'inizio del libro volutamente ripetitivo e statico da l'idea della quatidianità ormai essenziale dell'uomo e del figlio. Questi rappresentano l'ultimo scampolo d'amore in questo nuovo mondo. Infatti è fortissimo il legame che tiene stretti padre e figlio, figlio che verso la fine del libro sarà quasi venerato dal padre. Il carrello della spesa pieno di coperte e pochi pezzi di cibo in scatola per le emergenze. La strada da evitare perché pericolosa è anche l'unico sentiero da seguire così come è inevitabile seguire il sentiero della vita. Il figlio, che verso la fine del libro sarà venerato dal padre, rappresenta una bella immagine del futuro infatti è l'antropomorfizzazione della speranza che non si rassegna neanche quando l'esito delle loro vite sembra inevitabile. Man mano che il romanzo va avanti prende un po' di ritmo senza picchi eccessivi di interesse.
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Stephen King - 22/11/'63
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Un incubo per le nostre paure
Questo libro ha il dono della semplicità.
Un uomo e il suo bambino vagano quasi senza meta in un mondo devastato, dove nulla è rimasto integro, la morte è dominante; un mondo grigio ("Quanti colori invece nei sogni").
Sembra un incubo, dove le nostre paure prendono forma : noi occidentali, che viviamo nelle comodità, nel benessere e consumismo, se apparentemente tutto questo ci pare naturale e stabile, nel profondo avvertiamo invece che tutto è precario, che ordigni micidiali, nascosti ormai in punti innumerevoli sulla Terra, possono produrre una devastazione mai sperimentata nella Storia.
Per questo la vicenda ci tocca particolarmente, tanto più che il personaggio adulto non deve solo provvedere alla propria sopravvivenza, ma è costantemente teso all'amorevole e trepidante protezione del suo bambino, che qui assume progressivamente il ruolo di vero protagonista. Le parti che ho trovato più vibranti sono proprio i dialoghi fra i due :
" Noi moriremo ?
Prima o poi sì. Ma non adesso. (...)
Che cosa faresti se io morissi ?
Se tu morissi vorrei morire anch'io.
Per poter stare con me ?
Sì. Per poter stare con te ".
La storia narrata è piuttosto lineare. Ho però trovato le descrizioni collaterali un po' ripetitive, tanto che in più punti ho avvertito una certa monotonia, benché sempre sostenute da uno stile di grande qualità.
Quando un libro, che si ritiene bello, non ci appassiona nella lettura, forse significa che non l'abbiamo affrontato nel momento giusto.
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letteratura americana contemporanea
Un uomo e un bambino
Un lunghissimo cammino di cenere, terra, catrame e morte. Il libro è quasi completamente scritto in “bianco e nero”, le scene che lo compongono lasciano pochissimo spazio ai colori, i colori sono dei pochi ricordi pre-apocalisse e del finale, dove i colori sono appena accennati.
Favoloso il clima che lo scrittore riesce a creare, porta il lettore ad un livello tale di interesse, che si è sempre in attesa che succeda qualcosa di eclatante, di sensazionale e ad un certo punto ci si rende conto che tutto il racconto è eclatante, sensazionale. Il padre ed il figlio in perenne lotta con gli eventi, in continuo conflitto tra la semplicità di lasciarsi morire e l’estrema difficoltà di sopravvivere.
Un padre che anche in tanta disperazione, in tanta devastazione, riesce a proteggere il figlio educandolo e rendendolo uomo. Il bambino è il simbolo di pura e genuina bontà, toccante quando incontrano un altro bambino, forte il significato del dialogo con il padre, il più alto gesto di carità e solidarietà in uno scenario di disintegrazione totale.
Un uomo e un bambino, non Peter e Andrew, non Paul e John due personaggi eccezionali, ma senza nome, come a voler sottolineare il fatto che si tratta di due persone qualsiasi, alla quale è stato tolto tutto, anche il nome. Un uomo e un bambino, l’umanità tutta, tutti noi che dobbiamo lottare tutti i giorni, e camminare su quella strada, magari verso sud, quella strada che potrebbe anche ucciderci da un momento all'altro o che forse ci salverà.
Il bene e il male, l’odio e l’amore, il conflitto tra queste dualità sono insite nella nostra natura, l’apocalisse è cenere, è un sole che non si vede più, è un mare gelido e in burrasca, l’apocalisse sono corpi devastati e brutalizzati e senza un nome, non vi fa venire in mente l’olocausto?
“...Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.”
Questa è una citazione di Primo Levi.
Questa invece è la bellissima frase che McCarthy fa dire al suo Uomo:
“… ma ancora una volta si ripeté quello che già si era detto in precedenza. Che la fortuna poteva anche non essere tale. Erano poche le notti in cui, sdraiato nel buio, non provava invidia per i morti.”
Sempre a sottolineare il concetto di lotta per la sopravvivenza e identità fino all’ultimo respiro.
Un romanzo sulla lotta, sulla vita, nonostante sia disseminato di morte, sui conflitti, sul coraggio e sulla forza di volontà. Un libro importante da leggere, nonostante il fortissimo impatto emotivo, da leggere per capire di cosa può essere capace l’uomo, nel bene e nel male, un libro che fa riflettere.
McCarthy vinse il premio Pulitzer nel 2007 per questo libro e la cosa non mi stupisce, la sua pulizia e linearità nello scrivere scorrono paralleli a quella strada che è al contempo la via per chissà quale salvezza e il luogo dalla quale stare lontani per evitare di morire.
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Confermo: angosciante
Mi son decisa a leggerlo dopo tanta titubanza dovuta alle precedenti letture di figlio di Dio e il guardiano del frutteto.
Nonostante i tanti pareri positivi e le opinioni esaltanti, ho impiegato più di una anno a prendere la decisione di leggerlo. Certamente mi aspettavo qualcos'altro, non avevo idea di come la scrittura potesse essere così coinvolgente e struggente.
La storia in sé è abbastanza trita e ritrita, ho già letto parecchie volte degli effetti devastanti che potrebbero verificarsi negli anni a venire, quindi fin qui niente di nuovo.
E' lo stile che fa la differenza!
L'uomo e il bambino sono presenze primarie. Angoscia, paura, terrore, freddo, fame, sonno, dolore... sono presenze costanti. Ma anche amore, speranza e affetto tra padre e figlio, tanto da essere commoventi.
Sono l'istinto di sopravvivenza e la disperazione che li fa proseguire lungo questa strada e la speranza di trovare qualcosa di umano.
Un libro che merita assolutamente d'essere letto.
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Un drammatico cammino
Morte e desolazione ovunque, dappertutto inquietanti segni di una civiltà ormai estinta e di una natura devastata dalla follia umana. Terreni neri e spogli, tronchi carbonizzati e senza rami, città deserte, case disabitare, arse, saccheggiate. Nessun segno di vita animale se non un cane randagio e schivo. Cadaveri umani disseminati in ogni angolo mentre i pochi superstiti si ammazzano l'un l'altro per accaparrarsi quel po' di commestibile che ancora si riesce a trovare. E quando non si trova si finisce con il mangiarsi l'un l'altro. In questo scenario apocalittico un uomo e il suo bambino avanzano verso sud lungo una strada che sembra non finire mai. Il primo incarna la razionalità, il pragmatismo, l'istinto di sopravvivenza che non viene meno neanche davanti alle peggiori difficoltà. Il secondo sembra essere l'ultimo depositario della pietà, dell'empatia, della carità, virtù oramai scomparse in un mondo sopraffatto dalla più nera catastrofe. Il freddo, la fame, la paura, i pericoli sempre in agguato attanagliano i due protagonisti rendendo estremamente difficoltosa la loro marcia verso una vita migliore. L'epilogo di questo drammatico cammino sarà tragicamente commuovente ma al tempo stesso foriero di speranza. Pur apparendo lampante che dietro il disastro descritto ci sia la mano degli uomini, McCarthy non fa menzione delle cause che hanno portato il pianeta a ritrovarsi in condizioni tanto nefaste. Si potrebbe dedurre che si sia trattato di una guerra, probabilmente atomica, ma l’autore lascia il lettore nel dubbio scaraventandolo senza pietà in uno scenario allucinante in cui tutto rimane indefinito, ingiustificato, anonimo, dai luoghi dove gli eventi si svolgono ai nomi dei due protagonisti, indicati semplicemente come “l’uomo” ed “il bambino”, quasi a voler dire che in una situazione del genere ci si potrebbe trovare chiunque ed ovunque. L’angosciante atmosfera poi è resa ancora più realistica da una prosa scarna, fredda, essenziale, che contribuisce ad accrescere il senso di distruzione e afflizione che pervade l’intera opera e che penetra prepotentemente nelle ossa e nell’anima del lettore. McCarthy ha inoltre il grande merito di riuscire ad affrontare il tema della fine del mondo senza cadere, come spesso avviene quando si parla di questo argomento, in pompose e fastidiose faziosità politiche, religiose o ideologiche, riuscendo al tempo stesso a lanciare un duro monito ad una razza umana che, senza rendersene conto, sta portando se stessa e il mondo in cui abita sempre più vicini all’orlo del baratro.
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Elegia dell'orrore
“Quando ce ne saremo andati tutti qui resterà solo la morte, e anche lei avrà i giorni contati. Vagherà per la strada senza niente da fare e nessuno a cui farlo. Dirà: Dove sono finiti tutti? Ecco come andrà”.
Un uomo e un bambino. Senza un nome (che significato possono più avere i nomi? Che significato le parole qui, ora?)
Un uomo, un bambino e la strada da percorrere, fatta di cenere come tutto il resto, a volte di terra bruciata, oppure di catrame bollito dal sole e poi riasciugatosi in forme disumane e contorte (come i cadaveri, che possono spuntare dappertutto e in qualsiasi momento).
Un uomo, un bambino e il mare: una méta da raggiungere, senza nemmeno sapere esattamente il perché. Non importa quanto tempo servirà (qui e adesso il tempo non significa più nulla). Importa la distanza, invece: perché i sopravvissuti passano cauti e impauriti lungo il ciglio di una strada al cui centro cammina eretta la morte.
L'uomo non sa esattamente quanto manca alla costa. E il bambino tantomeno: non può far altro che seguire l'uomo, dormire con lui, mangiare quel poco di commestibile che si trova in giro.
Un uomo e un bambino.
Un padre e suo figlio.
“La strada” è un libro spietato e doloroso, ma splendido.
Una scrittura ridotta all'osso, come il mondo rimasto dopo l'apocalisse. Di cui McCarthy non spiega il perché (che importanza può avere, ormai? La civiltà è alle spalle, e dunque cancellata).
Una storia angosciante, di disperazione e istinto di sopravvivenza, di abisso (gli sguardi sul cannibalismo sono puro orrore per quanto siano appena tratteggiati... o forse proprio per quello). Tutto calibrato in funzione di una consapevolezza da grandissimo autore: non c'è posto migliore, per rendere visibile un barlume di umanità, che un infinito deserto (di cenere e dell'anima).
Un barlume di umanità:
quello di un uomo guidato dall'atavico istinto di proteggere suo figlio finché gli sarà possibile,
quello di un bambino che si dimostra l'unico depositario dell'antica pietà di cui è stato capace il genere umano, prima che tutto questo accadesse.
“Il bambino distolse lo sguardo. L'uomo lo abbracciò. Ascoltami, disse.
Cosa.
Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso. Capisci? E tu non ti puoi arrendere. Io non te lo permetterò.”
“La strada” è un capolavoro. Si può giurare che lo sia stato già nella testa del suo autore, prima ancora di essere scritto. E come accade ai capolavori è difficile catalogarlo in un genere. Può essere un libro di fantascienza per chi è convinto che tutto ciò di cui parla non accadrà mai. Ma solo per chi ne è convinto.
Una Terra grigia e terrificante
Quanti scrittori, autori, fumettisti hanno immaginato la fine del pianeta Terra? In quanti innumerevoli modi diversi tra loro hanno descritto la fine del nostro, spesso trascurato, pianeta? Guerre nucleari, epidemie, carestie, alieni conquistatori, alieni costruttori di autostrade intergalattiche... e l’elenco potrebbe continuare per lungo tempo. Anche “La Strada” di Cormac McCarthy ci rende partecipi di un futuro apocalittico della Terra. Ma la cosa particolare è che lo scrittore non si sofferma sulle cause del declino del pianeta, bensì sulla cupezza e sul grigiore delle terre una volta piene di colore e di vita; sull’esistenza dei sopravvissuti, attanagliati da un terrore costante e privi di una qualsiasi voglia di vivere, che portano avanti la propria esistenza per inerzia, solo perché lasciarsi morire, o uccidersi sembra sbagliato, o semplicemente, perché la nostra anima si aggrappa alla vita anche nella peggiore delle condizioni. Nel libro lo scrittore lascia tutto anonimo, volutamente.
Vaghiamo quindi in un pianeta Terra distrutto (non si sa come), in compagnia di due protagonisti senza nome (un uomo con il suo piccolo figlio), in un territorio senza nome (America? Europa? Australia? Chissa.), permeato dal grigiore dell’aria e dal terrore che si presenta in modi differenti, la fame, la sete, il freddo, la pioggia, i sopravvissuti che, resi senza scrupoli dall’egoismo di una vita fatta di ristrettezze, non sono che un pericolo gli uni per gli altri.
L’autore per me in questo libro fa un lavoro egregio, seppur la trama non sia ricca di colpi di scena, le descrizioni di quella landa desolata; l’illustrazione delle ristrettezze alle quali sono costretti i protagonisti, dovute alla mancanza di risorse; il terrore che li circonda e non li abbandona in nessun momento, è descritto da McCarthy in maniera egregia e coinvolgente. Durante la lettura si crea nella mente del lettore l’esatta immagine che l’autore vuole descrivere.
Certe scene sono di una crudezza spiazzante, in alcune parti mi ha portato alla mente anche il grande Edgar Allan Poe, mettendo in risalto l’istinto crudele che si impossessa dell’essere umano che vuole sopravvivere, portandolo ad essere in grado non solo di uccidere un altro, con la forza bruta o rubandogli ciò che ha per vivere, ma anche di cibarsi dei propri simili e addirittura dei propri neonati. Questo istinto forsennato di sopravvivenza, porta all’impossibilità di rifondare una società dalle ceneri, ognuno troppo occupato a sé stesso, a sopravvivere nelle ristrettezze, pronto a sacrificare un proprio simile per un po' di cibo in scatola.
Con il loro vagare, i protagonisti ci mostrano il post-mondo immaginato da McCarthy nella sua interezza, contrapponendo lo spirito egoistico dell’uomo adulto, capace di (quasi) tutto al fine di garantire la sopravvivenza a sé e al proprio figlio, rispetto allo spirito altruistico del bambino, pronto a privarsi del cibo, dei vestiti, per aiutare anche un povero vecchio. I bambini portano il fuoco, da loro riparte la nostra speranza. Non conoscono rancore, odio, egoismo, e forse, se tutti conservassimo dentro di noi qualcosa dei bambini, potremmo impedire forse non a una razza aliena di distruggere la terra per costruire un’autostrada, ma sicuramente di andare incontro all’autodistruzione. In qualsiasi modo essa possa presentarsi.
“E forse oltre i flutti nebbiosi c’era davvero un altro uomo che camminava sulle sabbie morte e grigie insieme a un altro bambino. Dormivano solo a un mare di distanza da loro, in mezzo alle amare ceneri del mondo, oppure stavano in piedi nei loro stracci, rinnegati dallo stesso sole impassibile.”
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Bioshock: Rapture
Le avventure di Gordon Pym
PAURA E SPERANZA
La strada di Cormac McCarthy è un'opera fuori dagli schemi, concepita e realizzata in una maniera assolutamente geniale. Il libro, suddiviso non in capitoli bensì in paragrafi, è ambientato in uno scenario post-apocalittico, probabilmente a causa di una guerra nucleare, dove non esiste più la civiltà e la gente lotta per la sopravvivenza. Il senso di smarrimento, di perdizione e di terrore è meravigliosamente evocato nel romanzo con uno stile particolare, ovvero descrivendo i dialoghi come parte del racconto, senza usare le virgolette per introdurli, creando un'atmosfera coinvolgente e drammatica.
I protagonisti senza nome dovranno affrontare un viaggio per cercare terre più accoglienti, incontrando numerose difficoltà a causa della mancanza di cibo e di riparo. Nonostante non ci sia una trama molto complessa, il romanzo è comunque un'opera grandiosa, dotato di un finale estremamente toccante e splendidamente ambiguo.
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UN BAMBINO, LA VITA CHE CONTINUA
Non ho mai sofferto tanto, leggendo un libro. Non conoscevo McCarthy, ho letto di "La strada" in un saggio di Massimo Recalcati ("Patria senza padri") e mi è venuta voglia di leggerlo: lo trovo straordinario, un libro che scava dentro, che porta alla mente, attraverso le vicende di quest'uomo e questo bambino in un mondo che ormai sembra avere solo una natura minacciosa, interrogativi sulla vita e sulla natura degli esseri umani. L'uomo è un esempio grandissimo di determinazione e di abnegazione in favore del proprio unico figlio; il bambino è il custode dell'umanità residua in un mondo che si è liquefatto e mostra solo scheletri di persone e di cose, dove pare che non vi possa essere spazio per altri sentimenti che non siano il sospetto e l'interesse a sopravvivere, a qualunque costo e contro chiunque altro. Mi piace la lettura che ne ha dato Recalcati, che ha scritto che la conclusione del libro dimostra che "finché c'è un bambino c'è Dio" (ed a Dio si può attribuire qualunque significato, anche un non-credente come me può parlare di Dio), come d'altronde recitano alcune delle ultime parole del libro, quelle dette da una madre che accoglie il bambino come un altro suo figlio e che pensa che "il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all'altro in eterno". Sono felice di aver letto un libro così, attraverso la sofferenza che mi ha dato credo di avere scoperto delle parti di me nelle quali non mi ero ancora imbattuto. Un libro, quindi, da leggere e da ri-leggere.
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Ho tanta paura, papà.
Freddo. Freddo e buio.
Grigio. Grigio e desolazione. Nessuna forma di vita.
E se toccasse a voi proteggere un figlio in un mondo che non offre più nulla, senza alcun futuro, senza un domani. Giorni freddi e vuoti in cerca di una minima fonte di alimentazione, con una coperta ed un telo di plastica per proteggersi dalla pioggia e dal freddo. Quel freddo che ti entra nelle ossa e ti fa tremare.
Poi la paura. Paura di non arrivare al domani, anche se il domani non ha più senso di esistere.
Poi c’è la strada, quella principale, dove puoi incontrare i cattivi che senza pietà sarebbero disposti a tutto pur di prendere ciò che hai.
Poi c’è tuo figlio, unica ragione di sopravvivenza. Unica fonte di luce. Unico amico.
Non puoi lasciarlo solo in questo mondo abbandonato da Dio.
McCarthy riesce a trasmetterci tutta la paura e la disperazione di un genitore che combatte da ormai 10 anni in un mondo che non c’è più. Deve proteggere a tutti i costi suo figlio, raccontandogli qualcosa del passato e nascondendo il futuro che ormai non c’è più.
Diventeremo loro amici, condividendo le stesse paure, gli stessi pensieri e gli stessi dolori. Insieme sulla strada verso sud, circondata da un paesaggio grigio e morto, ricoperto di cenere, immondizia, cadaveri bruciati e case deformi.
Troveremo del cibo ed un posto “sicuro”, ma bisogna proseguire il cammino verso quel mare caldo e blu come lo ricordavamo.
E’ un libro che potrebbe non piacere, ma indubbiamente ti rimane dentro, ti tocca l’anima e ti gela il cuore.
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La strada
Nessun colore, solo un accenno di bianco, il nero delle notti senza stelle e un’infinita serie di sfumature di grigio. Cenere ovunque che, prima ancora che giunga a terra, sporca la neve che cade da un cielo in cui il sole è sempre coperto dalle nubi. E’ un mondo morto quello in cui avanzano l’uomo e il bambino, padre e figlio diretti da qualche parte verso sud armati solo di una pistola con due colpi e un carrello della spesa in cui stanno tutti i loro averi: mangiano quel poco che ancora si trova e cercano di ripararsi in qualche modo dal freddo onnipresente e da precipitazioni sovente furiose. Nella desolazione attorno a loro, i pochi esseri umani sopravvissuti sono ormai regrediti a uno stato bestiale e a scaldare i protagonisti, più che i falò improvvisati che accendono con fatica, è il fuoco dell’amore reciproco, in cui trovano la forza di andare avanti anche se la loro impresa può apparire insensata. Leggere i romanzi di McCarthy non è di norma una passeggiata, ma questo è disperante in modo particolare e così per un bel po’ gli ho girato attorno: se è vero che ci sono poche tracce della violenza che contraddistingue le altre opere dell’autore di Providence, la sua Terra post-apocalittica (molto post, l’azione si svolge svariati anni dopo un’ecatombe non spiegata) si intrufola nell’animo del lettore spandendovi un’insidiosa angoscia. Eppure, malgrado l’ambientazione opprimente e con la sola, tenue fiammella di umana speranza che muove i personaggi, il libro sa coinvolegere con forza inaspettata grazie anche a una scrittura che procede per frasi brevi in una lingua ritmata che riesce a ricostruire un mondo con il minimo di parole possibili e a modellare dialoghi fondamentali anche quando paiono ai limiti dell’afasia. Se si esclude qualche paragone artisticheggiante che un po’ stride con l’estrema concretezza di gran parte della narrazione, lo scrittore dimostra ancora una volta di sapere come farsi seguire in un territorio di poca immediatezza: per raggiungere lo scopo, qui c’è la rinuncia ai capitoli e la scelta di un racconto spezzato in gruppi di poche frasi che scolpiscono un susseguirsi di scene dando vita a uno sviluppo quasi cinematografico. Così le pagine scorrono anche se, a ben guardare, nel libro ben poche cose succedono a parte il viaggio, sorta di icona statunitense in versione raggelata perché il grigiore uniforme rende il paesaggio sempre uguale: il vero fulcro è il rapporto tra padre e figlio (il volume è dedicato all’erede avuto dall’autore in tarda età) con il primo che, tormentato da qualche ricordo della vita di prima, cerca disperatamente di difendere il secondo, la cui innocenza va svanendo con il passare dei chilometri. Quando, dopo poco più di duecento pagine, il genitore non ce la farà più, il ragazzo sarà infine costretto a scegliere da solo in un finale di meravigliosa ambiguità.
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Insieme sulla strada
Un libro straordinario, non trovo altre parole per descrivere un romanzo che ti entra dentro, che lascia il segno , dal quale fatichi a staccarti e che mentre lo leggi senti gli odori, vedi ciò che vede il protagonista, provi la paura, l' angoscia, il terrore di un padre e un figlio dispersi in un mondo ostile e apocalittico.
Lo stile è scarno e asciutto e i dialoghi ridotti all' osso riescono pienamente ad evocare quella potenza emotiva che scuote il lettore.
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La Strada
Storia di un padre e di un figlio in un viaggio perenne, un viaggio verso un miraggio, verso una salvezza che non esiste ma che rappresenta l'unica speranza e il motivo per vivere. Probabilmente in moltissimi conoscono questa storia attraverso il buon film "The Road" e bisogna ammettere che ben la rappresenta, o almeno io non ne sono rimasta affatto delusa. Unica cosa o una delle poche cose che il film rende con superficialità e che invece è il fulcro del romanzo è la sacralità del rapporto del padre verso il figlio. Due sono i punti focali della vicenda: uno è la necessità di preservare il figlio in quanto sacro e l'altro è la caduta dell'essere umano in un contesto di degrado, in cui non vive ma sopravvive, che non necessariamente doveva essere una Terra apocalittica e contaminata (tant'è vero che l'autore non si perde nello spiegare il perchè del cataclisma in quanto non importante). Lo stile è semplice, scorrevole ma di impatto. Si sogna con questo romanzo tra le mani. Bello, lo consiglio.
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La strada
Storia post moderna. Un padre e un bambino percorrono le strade di un paese dell'America dopo un evento terribile che ha causato grandi devastazioni. Sono diretti verso la costa ma anche lì non sembra che la situazione sia migliore. Lo scenario di deserto globale, dove i pochi uomini sopravvissuti sono diventati cannibali, non sembra lasciare spazio alla speranza nel futuro, eppure la presenza del bambino rende indispensabile cercare una via d'uscita.
Nella storia, la mancanza di eventi, la lentezza del percorso danno l'idea del tempo che passa e dell'attesa della fine.
Ho avuto la sensazione che lo scrittore avesse progettato un epilogo ben più terribile ma poi non ha avuto il coraggio di abbandonare il piccolo protagonista al suo destino. Già mi immaginavo arrivare i cannibali o vedevo il piccolo continuare il cammino solo, nella strada deserta spingendo il cigolante carrello. Terribile comunque.
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Cenere alla cenere, polvere alla polvere
“La strada” è obbiettivamente un buonissimo racconto allungato, ha il pregio e il difetto di essere troppo corto, per essere un romanzo, ma troppo lungo per essere un racconto.
E’ un testo che si legge in un pomeriggio, a patto però, che si riesca a reggere lo stato di desolazione, angoscia, abbandono, oppressione,malinconia in cui versa un ipotetico futuro prossimo.
Un futuro drammatico di cenere, fame, freddo, putridume,e ancora fame, morte, disperazione, un futuro dipinto con tutte le sfumature di grigio e nero. Un futuro dove la luce è un bianco opaco.
Il mondo, o meglio ciò che ne rimane, sono coriandoli e stratificazioni di cenere che rivestono ogni cosa, si ammassano lungo le strade, aleggiano nell’aria, si aggrappano e si mischiano ad ogni azione.
E in tutta questa sterilità e grigiore, in tutto questo mondo ormai senza vita, totalmente incapace di portare nuova linfa, in questo mondo dove solo il parassita peggiore è riuscito a resistere. (Forse perché costruito a sua immagine e somiglianza) In questo futuro plumbeo,freddo e al limite del asfittico, in tutto questo arde una fiamma, piccola ma intensa, una fiamma rossa, giovane e calda, una fiamma che sa di speranza una fiamma che non arde ma risplende .
I portatori della fiamma sono un uomo e un bambino, non hanno nome, non hanno da mangiare, non hanno un progetto, se non un unico inarrivabile obbiettivo mosso dalla speranza:quello di andare il più a sud possibile, per incontrare chi ? cosa ?
L’umanità è quasi estinta, e i pochi rappresentanti ancora in circolazione sono per lo più biechi individui, famelici, cannibali, e voraci. Padre e figlio, fiamma e portatore, hanno solo una pistola due colpi e un modo ostile che li circonda, popolato dalla bestia uomo.
Un romanzo che, a mio avviso, risulta essere più realistico di tanti altri romanzi del genere. Purtroppo un testo che volutamente omette il prima, una fine del mondo, e della vita su di esso, ignota. Si pensa ad una esplosione atomica, una guerra ? qualcosa di simile, anche se per quanto McCarthy cerchi di dare degli indizi.
Il romanzo è quasi flusso di coscienza, omettendo volutamente caporali e virgolette prima dei dialoghi. Dialoghi che tra l’altro sono veramente pochi e parchi. Ma è questa pochezza che li rende eccezionali, contribuendo ad arricchire di disperazione e drammaticità questa storia d’amore paterno di lotta per la vita, questa storia di disarmante speranza.
Volendo essere pignoli però, “La strada” ha i suoi difetti. Difetti che potremmo definire dei peccati veniali, che però ci sono, e si sentono. Primo tra tutti le mele “mummificate”,normalmente in qualche anno si decompongono non è che si seccano e rimangono commestibili per decenni, in particolare se rimangono all’aperto e si trovano in climi umidi.… Secondo: una fonte di calore che riesca a liquefare il vetro, liquefa sicuramente anche il rame (come mai ci sono cavi di rame ai lampioni e vetro liquefatto nello stesso luogo ?)… e se fonde il rame fonde anche il catrame ma le strade sono intatte … quindi in definitiva McCarthy non ha saputo trovare coerenza nell’ambientazione oppure ...
Oppure questi “errori” possono anche essere voluti, per generare ancora più entropia nella mente del lettore e allontanarlo ancora di più dalla domanda a cui è più difficile rispondere: Che cosa è successo al mondo ???
In conclusione un ottimo testo che consiglio a tutti: immediato, intenso , drammatico e commovente.
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Il fondo può essere tremendamente basso
Un libro durissimo, tremendo nella cruda (in tutti i sensi) descrizione della realtà che vivono i due protagonisti, una specie di fine del mondo talmente totale da non essere mai apparsa nemmeno nelle più nere fantasie. Ma proprio in questa immensa desolazione apparentemente senza speranza, in cui tutte le cose sembrano convergere verso una fine peggiore della morte stessa, i protagonisti regalano al lettore insegnamenti nascosti fra le righe del libro, in una prosa contratta e minimale che rispecchia fedelmente il mondo rappresentato, di cui non credeva di aver bisogno ma che aveva semplicemente dato per scontati.
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banale
CONTIENE SPOILER
Davvero banale. Ripetitivo e noiosissimo, dopo 20 pagine ogni pagina e' uguale alle precedenti, sai continuamente cosa aspettarti. L'autore e' assilato da banalissime metafore e similitudini, da una continua pioggia ghiacciata, da una tosse maligna che dalla prima volta che viene nominata si capisce che uccidera' l'uomo. La minutissima decsrizione dei pasti e delle scatolette e' completamente inutile. Se ci sono insegnamenti morali, e di certo ce ne sono...bastano 20 pagine per farli propri. Non c'e' sicuramente bisogno di andare avanti lungo questa noiosissima strada da film di fantascienza di second'ordine.
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capire l'america di sempre
un romanzo durissimo, ma che fa emergere molto bene la vera essenza dell'america di sempre: dura e spietata, che non ha mai abbandonato lo spirito di conquista di una meta; che per lei vuol dire sopravvivenza. E per giungere a questa pone delle sfide etico-morali quotidiane.
chi legge il libro sarà, ad ogni pagina, sfidato dal ribrezzo delle scene ma con la sottile certezza di riuscire a voltare pagina ed andare avanti.
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un colpo al cuore
Storia angosciante di un padre e un figlio lungo la strada, quella della vita in cui tutto intorno ci è ostile e si lotta e si cerca di sopravvivere almeno un giorno in più.
L'ambientazione sembra quella di un sogno, anzi un incubo fatto di mostri che ti inseguono senza pietà; il protagonista viaggia con suo figlio lungo una strada, che non si sa dove deve condurre e perchè la si deve percorrere; commovente è il desiderio pervicace di vivere a qualsiasi costo e sopratutto di salvare il prorio figlio; in questo senso ben si descrive l'amore per i figli.
Raggio di luce nel finale.
ho visto anche il film, che rende abbastanza.
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Come reagisce l’essere umano, dopo millenni di evo
Mi ha ipnotizzato, incollato alle pagine dalle prime righe fino alle ultime.
Ho seguito passo passo anch’io la strada, la protagonista principale del libro.
La strada è dove si compie il dramma di un padre e un figlio di cui si narra un brandello di vita, ma anche di tutti i superstiti ( “buoni” o “cattivi” che siano) di un mondo post-apocalittico dove non è sopravvissuto pressoché nulla, men che meno il senso dell’umano.
Mi viene in mente “Cecità” di Saramago e altri romanzi simili, ove si descrive l’uomo in balia nuovamente di se stesso e di un ambiente circostante ostile. Come reagisce l’essere umano, dopo millenni di evoluzione e civiltà? Regredisce a bestia, nel senso più dispregiativo possibile del termine, ritorna fiera affamata e sanguinaria che per sopravvivere e soddisfare i prorpi bisogni primari non si fa scrupolo alcuno.
Pagine devastanti, un cupore grave che scende sull’anima come quella stessa cenere che ha ricoperto il mondo dopo la catastrofe, soffocandolo e rendendolo un ammasso grigio di nulla.
Disperazione palpabile, unita all’affetto intenso e puro che sussiste tra il padre e proprio figlio, un’unione disperata e forte, l’unica luce e calore nella devastazione.
La vita diventa un viaggio il cui fine unico è sopravvivere almeno un altro giorno, ma senza uno scopo o una meta. Anzi, forse morire sarebbe preferibile. Solo dolore, del fisico e dell’anima, magmatico e palpabile.
Il finale, a mio gusto personale, si sarebbe fermato qualche pagina prima di quello effettivo, l’avrei trovato maggiormente in sintonia con il resto del romanzo.
In ogni caso, consigliatissimo e stupendo.
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la strada
La mente geniale di Mc Carthy immagina un' epoca futura in cui la terra è ridotta ad una landa sterile in cui vagano senza meta gli ultimi esseri umani sopravvissuti a qualche imprecisata catastrofe: una visione disarmante di una umanità derelitta, resa vorace e bestiale dalla fame e dalla disperazione.
I protagonisti assoluti sono un padre e un figlio, a cui volontariamente l'autore sceglie di non associare un nome, definendoli semplicemente l'Uomo e il Bambino, come a farne simboli di un' umanità intera: tra i due un legame di amore spassionato, di spirito di sacrificio, di condivisione all'ennesima potenza.
Col suo stile secco e tagliente, dove nessuna parola risulta superflua, Mc Carthy ci propone due personaggi indimenticabili, tremendamente reali seppur collocati in un contesto di tutt'altra natura, ritratti in tutto il loro essere umani,ossia deboli, impauriti, sfiduciati e stanchi , ma al contempo forti, inarrestabili e pronti a lottare.
Una contraddizione palpabile anima il cuore e la mente dei due: da un lato la durezza della situazione spinge verso un abbattimento morale e ad una sorta di placida accettazione della fine, dall'altro la forza di sopravvivenza sembra urlare il proprio desiderio di continuare a percorrere la strada della vita.
Siamo di fronte ad una narrazione coinvolgente e travolgente, fatta di immagini crude e strazianti destinate a rimanere indelebili, accompagnata da dialoghi essenziali e incisivi di una bellezza elegiaca.
Una mirabile analisi dell'uomo, colto in una situazione di estrema difficoltà in cui appare più semplice e meno doloroso morire piuttosto che affrontare la fatica di vivere; un uomo a cui è venuta meno la speranza, costretto a vagare in un mondo freddo e inospitale, dove la parola futuro ha perso ogni significato, un uomo lacerato dalla consapevolezza di non poter lasciare nulla al figlio eccetto l'amore che prova per lui.
La strada è un'opera che da voce ad un'esplosione di emozioni, sentimenti e riflessioni, che canta l'amore di un padre per il figlio, che urla la disperazione di chi ha perso tutto e di chi continua a camminare alla ricerca della luce nonostante l'orizzonte sia avvolto nelle tenebre.
Una narrazione potente, inquietante, agghiacciante, commovente e appassionante, insomma preziosissimo spunto per meditare sul significato della vita e sulla forza insita nell'essere umano.
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