La macchia umana La macchia umana

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    07 Gennaio, 2022
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Apologia di un professore di lettere classiche

Philip Roth è un autore che mi incuriosiva da qualche anno e pensavo di iniziare proprio da "La macchia umana" perché ne ho sempre sentito parlare in termini elogiativi; purtroppo, in una di queste recensioni, mi sono imbattuta in un gigantesco spoiler indesiderato. Ho cercato quindi di lasciar passare un po' di tempo per dimenticarlo ma, non essendoci minimamente riuscita, ho deciso di leggere ugualmente questo romanzo senza aspettare: è stata una buona scelta, in primis perché lo stile di Roth mi ha conquistata, e anche perché il colpo di scena non è presentato come tale nel testo, quindi in definitiva non mi ha rovinato la lettura.
Il romanzo si presenta come un'accorata difesa composta dallo scrittore Nathan Zukerman nei confronti del vicino Coleman Silk, professore di lettere classiche in pensione che, pur essendosi speso durante l'intera carriera per rendere più efficiente e competitivo il college in cui insegnava, viene ricordato unicamente per aver definito spettri (spooks, nell'originale) due studenti neri che non avevano mai preso parte alle sue lezioni; il termine ambiguo (in inglese è utilizzato come insulto desueto nei confronti delle persone di colore) viene strumentalizzato da alcuni colleghi per etichettarlo come razzista. Anni dopo, Coleman è nuovamente vittima delle malelingue locali quando intraprende una relazione con Faunia Farley, una donna molto più giovane e dal passato estremamente controverso.
La narrazione non segue una trama vera e propria, almeno all'apparenza: come succede ne "Il buio oltre la siepe" (romanzo con il quale condivide più di un punto di contatto) lo spunto iniziale viene ripreso nella parte finale, creando un senso di chiusura in una storia che altrimenti si limiterebbe a raccontare episodi della vita dei personaggi principali. In questo caso, il rapporto tra Coleman e Faunia e tutti i pettegolezzi che gli ruotano attorno fanno da collante alle vicende e anche all'interesse di Nathan nel voler riabilitare il suo amico.
I personaggi sono forse l'aspetto più riuscito del romanzo, e ad essi Roth da giustamente maggiore attenzione. Da notare come tutti i protagonisti vengano indagati a fondo, mettendo in luce sia i difetti di coloro che tendiamo a vedere come i buoni, sia i pregi -o meglio, le motivazioni a volte comprensibili, se non condivisibili- degli antagonisti: perfino il personaggio più ignobile viene analizzato senza pregiudizi o moralismi, rendendo la caratterizzazione realistica.
L'altro motivo per cui ho apprezzato la lettura sono le tematiche scelte da Roth, ed il modo in cui le ha affrontate. Il libro parla principalmente di razzismo, analizzandolo anche in diversi momenti della Storia recente, ma si concentra con la stessa attenzione sulla discriminazione in senso più ampio, sulle conseguenze della guerra e sulle relazioni, sia familiari che sentimentali. Di questi temi vediamo gli aspetti più frustranti e odiosi, inoltre l'autore accenna in modo marginale ma non per questo superficiale anche a suicidio e pedofilia.
Come anticipato, lo stile di Roth mi ha colpita in positivo, in particolare per l'armoniosità della prosa. Il tono e le espressioni scelte dall'autore fanno pensare quasi ad un classico, più che un romanzo contemporaneo, eppure questo non rallenta minimamente la lettura. L'unico difetto è la tendenza a interrompere la frase principale con una secondaria (e a volte anche più di una!); questo vale anche per gli eventi narrati: la vicenda principale è frequentemente inframmezzata da episodi collaterali, con il risultato di far perdere al lettore il filo logico della narrazione a tratti.
Infine, due parole sull'edizione. Ho trovato estremamente valida la traduzione, soprattutto per le utilissime note che rendono più chiari dei dettagli culturali o linguistici difficili da rendere nel testo. Sono però perplessa dalla scelta di lasciare in inglese alcuni termini, come lunch o boyfriend, che reputo estremamente semplici; si tratterà forse un dettaglio stilistico?

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anna rosa di giovanni Opinione inserita da anna rosa di giovanni    29 Agosto, 2021
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“la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza”

LA MACCHIA UMANA (2000)
di PHILIP ROTH

GENERALE. Come in altri romanzi, Roth racconta una storia dando la parola a Nathan Zuckermann (NZ), che è al tempo stesso uno degli attori della storia e il romanziere che racconta sia le cose che ha vissuto personalmente nel contesto di quella storia sia ciò che la sua immaginazione di scrittore gli suggerisce avendo conosciuto le persone di cui parla. Questa volta NZ racconta la storia di Coleman Silk (CS) e di Faunia Farley (FF), “che ora sono morti” (p. 59).

IL TITOLO. È Faunia che parla della “macchia umana” e NZ commenta: “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui (…) è in ognuno di noi” (p. 266-7). Insomma, non è diverso per esempio da quel che dice Baudelaire nel poema liminare dei Fiori del Male “Al lettore” … Comunque il titolo vuole coagulare i tanti temi che si intrecciano nel romanzo intorno al concetto della “macchia” che ogni personaggio ha in sé e che costituisce il suo segreto.

TRAMA. USA, fine ‘900. Lui, CS, era solo un vicino di casa con cui NZ aveva giusto scambiato un Buongiorno! Buonasera! finché un giorno non era piombato sconvolto in casa sua dopo i funerali della moglie. “Dovevo scrivere una cosa per lui”, “scrivere di come i suoi nemici ad Athena, nel menar botte contro di lui, dicendo di lui tutto ciò che non era e non avrebbe mai potuto essere, avevano non soltanto snaturato una carriera professionale svoltasi all’insegna della massima serietà e dedizione, ma anche ucciso quella che era stata sua moglie per più di quarant’anni” (p.14). NZ apprende così che CS, docente di letteratura greca, anni prima aveva rivoluzionato l’università di Athena in qualità di preside per migliorarne il livello e si era così inimicato non poche persone, le quali alla prima occasione gliel’avevano fatta pagare approfittando della denuncia di razzismo da parte di due suoi studenti di colore che avevano voluto interpretare in quel senso una parola - una parola! - da lui pronunciata. Quella parola aveva innescato una serie di fatti che lo avevano condotto prima alle dimissioni da preside di facoltà, poi anche alle dimissioni dall’insegnamento e all’esclusione dall’ambiente accademico. Di quello che CS gli ha chiesto di scrivere non si fa più menzione nel romanzo, però i due uomini stringono una forte amicizia, tanto che, due anni dopo, il primo confida all’altro che “all’età di settant’un anni [ha] una relazione con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavor[a] al college” (p. 3). Si tratta di Faunia (nome che evoca la selvatichezza), non bella né colta, ma talmente disincantata, per le prove cui la vita l’ha sottoposta da essere refrattaria a qualunque idealismo e anche aspettativa sentimentale. E questo amore, forte senza pretendere di chiamarsi amore, in cui l’una e l’altro si possiedono senza promessa di un domani, permette a CS di ritrovare il piacere di vivere e a Faunia … non lo so, un po’ di serenità, credo. Senonchè pochi mesi dopo che NZ è venuto al corrente di questa relazione morranno uscendo di strada con la loro auto. NZ è convinto che l’incidente sia stato provocato dall’ex-marito di lei, Lester Farley (LF), un reduce del Vietnam che non ha mai superato le sue ossessioni. In occasione del funerale dell’amico, cui partecipa la sorella di CS, NZ scopre che l’amico aveva un segreto grande come una casa: lui non era un ebreo bianco come si era accreditato fin da quando si era arruolato nei marines, bensì figlio di neri che nei secoli si erano talora incrociati con dei bianchi, per cui, per uno scherzo della genetica, lui poteva sembrare un bianco. Ovviamente lo aveva fatto per avere tutte le chance dei bianchi. E perché nessuno, nemmeno sua moglie potesse saperlo, aveva escluso la sua famiglia dalla sua vita. Al funerale di CS NZ tenta di spingere i familiari di CS a far sì che si indaghi sulla morte dei due amanti, ma senza risultato. D’altra parte, la storia si conclude con una lunga conversazione di NZ con LF intento a pescare nel ghiaccio nella solitudine più assoluta (“Lontano dall’uomo, vicino a Dio”) ed armato di una trivella ben affilata per forare il ghiaccio. Alla fine NZ si allontana e, capendo che LF ha capito che lui ha capito, scrive: “Sapevo che, se e quando avessi terminato il libro, sarei dovuto andare a vivere altrove” (p. 394). Dopo aver appreso il segreto di CS NZ ha infatti deciso di scrivere la storia di Coleman e Faunia.

I TEMI. Troppi: non solo la discriminazione razziale e l’ipocrisia in materia sessuale (lo scandalo Clinton-Lewinski del 1998 è sullo sfondo), che Roth sovrappone o comunque associa a mio avviso indebitamente, ma anche il recupero psicologico dei reduci del Vietnam, la critica del sistema scolastico e accademico, il mobbing e persino l’agricoltura (vedi le pagine dedicate alla fattoria modello dove lavora Faunia), temi su ognuno dei quali scrive pagine che sembrano dei pezzi d’autore appunto su quella materia.

GIUDIZIO. Dopo aver letto “Pastorale americana” francamente mi aspettavo che il piacere della lettura si rinnovasse nella stessa misura, e invece no. Riconosco senz’altro la grandissima acutezza di Roth in materia di psicologia, però 1. accumula troppi temi, come detto sopra; e 2. la lingua ha l’immediatezza ma anche i difetti di una narrazione orale abbastanza impromptu, soprattutto la verbosità (vedi il frequentissimo ricorso alla ripetizione del tipo “era un uomo, un uomo così, un uomo che …”) e la monotonia sintattica delle molte pagine in cui frasi brevi o brevissime si susseguono così veloci che non se ne sente … il sapore, se così si può dire. Personalmente, poi, non amo molto che un autore o un regista giochi a rimpiattino con me come se lui fosse il gatto e io il topo. Mi riferisco al segreto di CS. Nel primo capitolo ma anche oltre, per bocca di NZ, Roth si esprime più volte in modo da indurre il lettore a pensare che CS sia un ebreo bianco, però a posteriori si capisce il senso di questo passaggio a p. 19: “Tutto sommato rimaneva, anche alla sua età, un discreto pezzo d’uomo, il tipo di ebreo col naso piccolo e la mascella sporgente, uno di quei neri molto chiari che a volte vengono scambiati per bianchi”.

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Al lettore (Baudelaire), Il bambino che sognava la fine del mondo (potenza della calunnia e delle falsità)
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LuigiF Opinione inserita da LuigiF    10 Agosto, 2021
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L'UMANITA' A NUDO

Dopo aver letto e amato "Pastorale Americana" nutrivo grandi aspettative verso questo romanzo.
Roth conferma una straordinaria capacità nell'indagare e descrivere psicologie di personaggi tanto moderni quanto immortali, senza tempo. Figure che non stonerebbero all'interno dei grandi classici, latini o greci, che il professor Coleman Silk, protagonista della "Macchia Umana", insegna ai suoi scolari in una Università americana del New England.

Come in "Pastorale", anche in questo romanzo il punto di partenza è la scalata sociale di un uomo in una società Americana soffocata da ipocrite convenzioni. Qui pero' il protagonista nasconde una macchia, un segreto tanto assurdo quanto inconfessabile, una colpa originaria. Coleman è negro, ma i suoi connotati negroidi, a cominciare dal pallido colore della pelle, sono talmente tenui da indurlo a spacciarsi come bianco, un ebreo bianco, per meglio affermarsi in una società in cui la discriminazione razziale ha un peso determinante. Coleman rinnega le sue origini e la sua famiglia fino a giungere al crudele ripudio della madre stessa pur di perseguire il suo scopo. Un gesto abietto ed immorale che tuttavia rivela nella sua risolutezza estrema, nel suo narcisismo spietato, qualcosa di stoico.

Giunto all'apice della carriera accademica e prossimo alla pensione,  il destino del professore, quasi obbedendo ad oscure regole del contrappasso, riserverà una amara svolta a quella vita di successo.  Ridicolmente incolpato da due pigri studenti di colore per una innocua battuta ipocritamente fraintesa, egli si troverà paradossalmente, lui negro, a doversi difendere dall'infamante accusa di razzismo. Tutto incredibile, grottesco persino ... ma il grottesco può assumere forme gigantesche e mostruose se convenzioni, perbenismo ed ipocrisia prendono il sopravvento sul buon senso in un diffuso clima da "cancel culture". Seguiranno le dimissioni dalla Università e l'inizio di una parabola che spingerà il professore fuori da quella elite alla quale con ogni mezzo aveva aspirato di appartenere e per la quale aveva sacrificato i suoi affetti famigliari. La frattura diviene insanabile quando, alla morte della moglie, Coleman si unisce alla giovane e semi-analfabeta Faunia, anch'essa emarginata e con un atroce passato alle spalle. La scandalosa unione è al contempo atto di ribellione libertaria e di orgoglioso riappropriarsi di istinti e passioni soffocati per troppo tempo. Soltanto in Faunia, peraltro, Coleman troverà conforto ed a lei sola giungerà a confessare l'inconfessabile segreto prima dell'inevitabile tragico epilogo.

Fin qui la storia, ricostruita brandello dopo brandello dallo scrittore il quale, nella complessa struttura narrativa fatta di continui salti temporali, appare come amico di Coleman e testimone delle sofferenze dei suoi ultimi anni.

Ma è nei singoli "quadri" riservati ai suoi personaggi che le grandi qualità di Roth emergono cristalline. Ogni personaggio ha un suo background, un suo tessuto, non è mai tutto bianco o tutto nero (per restare in tema ...). Così l'amante Faunia col suo struggente identificarsi nelle cornacchie nere in uno dei passi piu' belli del romanzo. Oppure Delphine, direttrice dell'Università apparentemente allineata col mediocre sentire comune, ma in realtà lacerata tra ambizione, solitudine e desiderio di affetto. O ancora, la sorella Ernestine, confortante figura di donna solidamente e pragmaticamente ancorata alla vita. Infine Lester, ex marito di Faunia, eroe tragico, reduce dal Vietnam, segnato nello spirito e nella mente dagli orrori della guerra, tormentato dai fantasmi del passato e condannato all'impossibilità di controllare la sua rabbia violenta. Al suo incontro con lo scrittore ed al memorbaile dialogo che ne deriva si lega uno dei più potenti ed originali finali che mi sia capitato di leggere.
Una umanità dolente messa a nudo con grande raffinatezza ed acume. "Macchie umane" svelate senza moralismi di sorta perchè, in fondo, intrinseche alla nostra debole natura.

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siti Opinione inserita da siti    14 Dicembre, 2020
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Scemi di guerra


L’opera di Philip Roth, me ne convinco sempre più, è un unico grande disegno, una sorta di canovaccio che l’autore ha scritto nel tempo, ampliando la sua visione della vita ma sempre dentro alcuni temi ben definiti, i punti focali della sua esistenza. L’appartenenza etnica, l’appartenenza culturale, l’appartenenza geografica, quella sociale, e la totale, assoluta, mancanza di appartenenza a una qualsivoglia classificazione. Non c’è niente che possa imbrigliarlo, né lui, né tantomeno i suoi personaggi, piccole schegge impazzite di un male che qui, in questo grande romanzo, sono accomunate dal fatto di essere ontologicamente il male stesso. Un’opera intensa, amara come al solito, ma viva e perfettamente capace di restituire quell’alone di incompiutezza che gravita, tragicamente, sui suoi personaggi migliori e di pari passo sull’uomo in sé. Lo svedese, esempio brillante di una vita apparentemente brillante, un’identità frantumata, Sabbath, una ridicola controfigura di quello che avrebbe potuto essere un uomo e ora il brillante professore Coleman Silk, burlato dal logos, pensiero e parola che lo incarnano a finzione di se stesso. Un uomo nero che si finge bianco, che recita la sua esistenza sul filo di lama, una lama tagliente che potrebbe fendere la sua carne in ogni momento. Non solo personaggi tragici però, come si sa, nel caso di Seymour Levov e dello stesso Coleman Silk, l’equilibrio è ripristinato con l’espediente del ponderato narratore, colui che veste il ruolo del testimone degli eventi e di novello tedoforo, capace di rischiarare i punti bui di un’esistenza mentre la consegna ai lettori per mano del suo stesso inventore. Nathan Zuckerman, l’alter ego di Philiph Roth, è il nostro mentore ancora una volta, è colui che ci guiderà a dare un significato all’esistenza appena rappresentata. L’epilogo di questo romanzo infatti , pur generando gli stessi quesiti suscitati dall’esperienza parainfernale di Sabbath, lascia il lettore in uno stato completamente diverso, nell’accettazione di un destino terribile, crudele.
Consapevole di non aver affatto parlato del romanzo, lo consegno ai futuri lettori, totalmente appagata da una lettura che ancora una volta offre una visione disincantata dell’uomo, dell’America, del suo falso mito delle “belle sorti e progressive” che si frantumano nell’incapacità di un sistema di istruzione lacunoso e deficitario, nel falso mito del melting polt e nella totale inadeguatezza della sua classe politica. Roth chiama Pirandello, per la parte squisitamente filosofica, come America chiama Italia per il contesto socio-culturale e politico. Mai così vicini, a noi manca il Vietnam ma i ragazzi del ’99 non furono poi tanto lontani dagli americani quando divennero “scemi di guerra”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Settembre, 2019
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LA VERITA' E' SEGRETA

“C’è qualcosa di affascinante in ciò che la sofferenza morale può fare a una persona che, nella maniera più evidente, non è debole o irresoluta. E’ ancora più insidioso di quello che può fare un malanno fisico, perché non c’è iniezione di morfina, anestesia spinale o radicale intervento chirurgico capace di alleviarla. Una volta che sei nella sua morsa, è come se, per liberartene, le dovessi permettere di ucciderti. Il suo crudo realismo non assomiglia a nessun’altra cosa.”

“Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui.”

Dopo “Pastorale americana” l’alter ego di Philip Roth, Nathan Zuckerman, ritorna in un romanzo per molti versi simile, che non a caso chiude idealmente la trilogia sulla storia americana contemporanea comprendente anche “Ho sposato un comunista”. Ne “La macchia umana” Roth-Zuckerman si dedica a rievocare la vicenda umana del professor Coleman Silk, mettendo ancora una volta in evidenza come l’immagine pubblica di un uomo ben raramente corrisponde alla sua più autentica, intima e segreta verità, inaccessibile agli occhi degli altri (attenti solo a captare in maniera superficiale e necessariamente erronea i segnali “sociali” che provengono dall’individuo); inaccessibile agli occhi degli altri, ma non a quelli della letteratura più illuminata, la quale per Roth assurge a un ruolo quasi medianico (è emblematica la scena notturna di Zuckerman al cimitero dove è sepolto Coleman) di tramite per ristabilire la corretta e il più possibile oggettiva versione delle vicende umane (lo scrittore in questo senso sarebbe una sorta di storico delle esistenze individuali). Non è un caso che ho parlato di “segreta verità”, perché il protagonista (come già lo Svedese di “Pastorale americana”) si porta addosso da decenni un segreto pesantissimo, che lo ha tagliato radicalmente fuori dalle proprie origini, dalle proprie tradizioni e dalla propria famiglia: da quando ha deciso, lui nato di colore ma dalla pelle insolitamente chiara, di passare “dall’altra parte” e diventare un bianco, senza che nessuno, neppure sua moglie e i suoi figli, lo sappiano, Coleman Silk vive con una sorta di doppia identità, quasi un novello Mattia Pascal che non per caso, ma con lucida e volontaria determinazione (per poter avere, in una rivendicazione di orgoglioso e sfrenato individualismo, tutte le opportunità in grado di portarlo al successo che un “semplice negro” nei primi anni ‘50 in America non poteva ancora permettersi), sceglie di cancellare completamente il passato per costruirsi senza condizionamenti il proprio futuro.
La parabola umana di Coleman Silk è venata di una beffarda ironia, in quanto il professore, al culmine del suo successo professionale, subisce un’infamante (e ingiusta) accusa di razzismo, avendo apostrofato come “spettri” (che nell’inglese gergale è anche un modo spregiativo di dire “negri”) due studenti assenteisti che non conosceva e che, casualmente, erano di colore. Tale accusa, e l’inchiesta interna che viene sollecitamente aperta, costringe Silk a dimettersi dall’università in cui lavora e a esiliarsi polemicamente dal mondo accademico in cui aveva vissuto e mietuto allori per decenni. Crudele nemesi del destino per chi aveva abiurato la sua razza in un’epoca in cui mai uno studente nero avrebbe potuto far valere i propri diritti contro le discriminazioni (vere, figuriamoci quelle pretestuosamente infondate) di un professore bianco, e tanto più crudele e beffarda in quanto viene a sconvolgere e ribaltare l’audace e spregiudicato progetto di vita che Coleman Silk aveva con tanto scrupoloso raziocinio messo in piedi. Pochi romanzi come “La macchia umana” hanno descritto in maniera così stringente e incisiva l’incontrollabile imprevedibilità del destino, che irride gli sforzi degli uomini (soprattutto in America, la patria del self made man, dove il diritto alla felicità individuale e all’autorealizzazione è perfino rivelato dal modo di scrivere il primo pronome singolare con la lettera maiuscola) di forgiarsi autonomamente, in spregio ad ogni condizionamento di censo, razza e religione, la propria esistenza.
“La macchia umana” è anche un potente romanzo di critica sociale, che mette alla berlina tutta l’ipocrisia, il perbenismo e il bigottismo di cui è permeata la società americana, e che si manifesta periodicamente in vere e proprie epidemie di maldicenza capaci di annientare, per biechi e ottusi motivi ammantati dalla falsa esigenza di salvaguardare la morale pubblica, la dignità di una persona. Non è un caso che la storia di Coleman Silk venga collegata a quella, per molti versi analoga, dello scandalo a sfondo sessuale che ha portato il presidente americano Clinton a un passo dalla destituzione. Il messaggio “politico” di Roth è chiaro, e va contro quell’odioso puritanesimo che fa sì che magari si perdoni a un presidente una guerra crudele e sanguinosa (e nel 2000 non c’erano ancora stati i conflitti con l’Afghanistan e l’Iraq dell’era Bush!) ma non una banalissima relazione extra-coniugale. I suoi strali sono tutti per Delphine Roux, la giovane e brillante insegnante che si sente investita della maniacale missione di punire Coleman Silk per tutti i peccati che la sua paranoica immaginazione di novella Giovanna d’Arco è disposta ad attribuirgli (salvo poi usare cinicamente la sua morte per salvarsi la poltrona), e per tutti quei “gretti frequentatori della chiesa locale, attaccati alle convenienze, retrogradi di ogni genere ansiosi di smascherare e punire le persone” che infestano il mondo come una pestilenza. E’ però ingiusto ridurre il romanzo di Roth a un’invettiva, tanto equilibrato e controllato è il suo stile, rispettosissimo nell’assumere il punto di vista psicologico di ciascun personaggio, sia esso proletario o borghese, erudito o analfabeta, senza mai sbilanciarsi in giudizi morali netti e trancianti. Allo scrittore interessa solo la verità, e la verità non risiede mai nel demonizzare i “cattivi” (Les e Delphine sono in fondo solo degli infelici, dei frustrati, dei poveri diavoli, pericolosi sì – e anche assassini, come nel caso del primo - ma non due mostri, soprattutto non in grado di comprendere tutto il male che stanno facendo), perché altrimenti si ricadrebbe in un manicheismo altrettanto deteriore di quello che si vorrebbe combattere. «Ogni giorno che passa le parole che sento pronunciare mi sembrano una descrizione sempre meno convincente di come stanno realmente le cose», afferma Ernestine, la sorella di Coleman, alla fine del romanzo. Ecco, questa è la vera missione dell’intellettuale, quella di “lavorare” le parole per farle finalmente aderire alla realtà, in un’instancabile sforzo di palingenesi e di rigenerazione, perché le parole possono fare male e distruggere vite umane non meno delle armi, e insegnare a usarle con umiltà, esattezza e discernimento è il solo modo per fare un po’ di luce su quell’immenso e insondabile mistero che è l’essere umano.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    06 Giugno, 2019
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Ci siamo quasi...

Ogni uomo lascia sempre una sua macchia. Alcuni di essi possono lasciare anche impronte positive ma azzerate dal potere della macchia, sia essa vera o falsa, l'importante è che se ne faccia menzione perché "nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero" e "la semplice accusa è già una prova. Ascoltarla significa crederci."
Non ho visto il grande romanzo "americano" onestamente, ma solo "UN" grande romanzo: America potrebbe essere sostituita da un qualsiasi paese e la guerra del Vietnam di una qualsiasi altra guerra, la persona di colore da una qualsiasi minoranza che viene discriminata e il risultato sarebbe lo stesso. I governi sono gli stessi, i bigotti sono gli stessi, i puritani sono gli stessi, i perseguitati sono gli stessi e le guerre sono le stesse. Le persone sono le stesse, la stessa è la voglia di cancellare le origini che crediamo non ci rappresentino in un dato momento o che sono scomode per mille motivi, la stessa voglia di scappare e di rinnovarsi come persona. Gli stessi errori, stesse vittime e carnefici contemporaneamente, stesse macchie.
Non sono una lettrice appassionata di letteratura americana perciò magari qualcosa mi sfugge ma in realtà io ho trovato un grande romanzo europeo dal punto di vista stilistico ma anche delle idee, trovo che Philip Roth si sia ispirato a molti grandi scrittori europei, mi sentivo "a casa" leggendolo. Ho trovato lo stile solilloquiale di Thomas Bernhard, il personaggio "principale" Coleman Silk ha una forte impronta kafkiana, ingiustamente accusato e incompreso, struttura del romanzo proustiana: alla fine del libro il narratore esprime l'intenzione di scrivere tutta la verità nel libro appena letto, dandone anche il titolo. Anche il contenuto mi ha mandato forti richiami bernhardiani: come ne "La cantina": la necessità di andare in una direzione opposta per poter essere felici o quanto meno realizzati: come ha fatto Coleman e Dalphine Roux in La macchia umana, l'attacco feroce contro il governo, contro l'insensatezza della guerra e contro il sistema di istruzione: tutti argomenti vivisezionati da Bernhard e carichi degli stessi difetti... Quindi per tutti questi motivi, ma anche per i numerosi riferimenti letterari europei non grido alla denuncia della società "americana" o "al romanzo americano", che sicuramente è giusto ma personalmente estendo questa denuncia a una denuncia universale, perché le cose funzionano così un po' ovunque.
Ci sono stati anche dei momenti lenti nel romanzo ma è cosa comune. Ho qualche critica da fare alla forma narrativa in quanto l'ho trovata un po' confusionaria e seppur piacevole non mi ha convinto questo mix di monologhi intimi in prima persona e narrazione nella terza persona, cioè non mi è dispiaciuta la scelta in sé ma come sono stati "incastrati" questi tasselli. Inoltre verso la fine del romanzo compaiono degli elementi nuovi e che incuriosiscono il lettore come potenziali chiavi di lettura ma poi spariscono nel nulla, come ad esempio il padre naturale di Faunia e il suo diario segreto.

E' sicuramente un buon libro e sono appagata della sua lettura, sicuramente la sua scia la lascia dentro al lettore, tuttavia Roth secondo me ha avuto paura di osare e farlo diventare un libro perfetto, armonioso. Ci è QUASI riuscito.

"Con gli occhi aperti vede il proprio disonore e con gli occhi chiusi vede la sua disintegrazione, e per tutta la notte il pendolo della sofferenza la fa oscillare dall'uno all'altra."

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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    25 Ottobre, 2018
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LE MACCHIE DI COLEMAN

Contiene alcune anticipazioni.

Anche questo romanzo si inscrive nel grande affresco della società americana disegnato dallo scrittore con la sua produzione.
“La macchia umana” ci proietta, in particolare, nei mesi dello scandalo sessuale che coinvolse il presidente Clinton. Roth lancia i suoi primi strali, intinti nel veleno di un’ironia feroce e dissacrante, contro “ […] l’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo- che aveva rimpiazzato il comunismo come minaccia prevalente alla sicurezza del paese- subentrò, come dire, il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata ventunenne impulsiva e innamorata, comportandosi nell’Ufficio Ovale come due adolescenti in un parcheggio, ravvivarono la più antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo piacere più sleale e sovversivo: l’estasi dell’ipocrisia”.
Non sfuggirà come l’autore, in questa sorta di introduzione, si sia riferito implicitamente agli altri due romanzi della cosiddetta “seconda trilogia”: “Pastorale americana”, che ha al centro il personaggio di una giovane terrorista, e “Ho sposato un comunista”, ambientato tra i furori ideologici del maccartismo.
Il tema dell’ipocrisia sociale investe l’intera trama di questo terzo elemento del trittico, congiungendo le vicende private con quelle pubbliche e politiche. Lo stesso accanimento morboso, lo stesso puritanesimo moralistico scagliato dall’America contro il proprio presidente, si replicherà infatti nell’ambiente accademico dell’Athena College nei confronti del professor Coleman Silk.
La prima tappa della via crucis percorsa da quest’ultimo nasce da un ridicolo equivoco linguistico: aver definito spooks” (“spettri”, ma anche “negracci”) due alunni sempre assenti alle sue lezioni, che in realtà non aveva mai visto, incorrendo così nell’infamante, specie in quel contesto , accusa di razzismo. L’umanista aveva adoperato il termine nella sua accezione alta, shakespeariana, mentre i suoi alunni, ma perfino i docenti, si erano malevolmente appigliati al suo impiego moderno e gergale.
Questa ipocrisia, matrice di un “politically correct” invadente e degenerato, trova in Delphine, un’insegnante del college di nazionalità francese, la sua esponente più determinata. E’ lei che avvia il processo persecutorio – subito fatto proprio dagli altri - che induce Coleman alle dimissioni. Ritiratosi per la rabbia di quell’accusa ingiusta, il vecchio accademico trova conforto in Faunia, un’inserviente di mezza età, analfabeta, che egli viene accusato di aver plagiato sfruttando la sua posizione sociale e il suo livello culturale superiore. Ed è ancora Delphine a dare inizio alla seconda persecuzione nei confronti del protagonista con una lettera anonima, il cui incipit minaccioso: “TUTTI SANNO”, viene rovesciato da Roth (o per meglio dire dall’io narrante, il solito Nathan Zuckerman, presente anche in altri romanzi) attraverso una requisitoria lucida quanto accorata contro coloro che credono di sapere e in realtà non sanno, quelli che ragionano in base a pregiudizi e convenzioni, incapaci di vedere in quel rapporto apparentemente anomalo, squilibrato, asimmetrico, (ma per chi? In base a quale criterio di giudizio?), la realizzazione da parte dei due del loro più vero e profondo desiderio.
“Tutti sanno…Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? […] Nessuno sa, professoressa Roux, “tutti sanno” è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula cliché a risultare così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in modo non stereotipato, nessuno sa nulla”. Così riflette Zuckerman, in un discorso indiretto libero pronunciato mentre osserva la coppia seduta davanti a lui durante un concerto, persuaso dall’armonia che li unisce reciprocamente fin dai minimi gesti.
In questo modo Faunia (un nome “parlante”, indicativo di una purezza istintiva e ferina, lontana da qualsiasi sovrastruttura intellettualistica) va ad occupare, nel sistema dei personaggi, il polo opposto rispetto a Delphine.
Ma i grandi romanzi, si sa, sono fatti a strati, e quando credi di possedere la formula che li spiega, c’è sempre un sentiero che se ne allontana e la smentisce, o comunque l’arricchisce di nuove sfaccettature.
Coleman nasconde un segreto che ha rivelato solo in rare occasioni e ha celato perfino alla moglie e ai figli: è di colore. La pelle chiara gli ha consentito di barare e l’accusa di razzismo sembra aver toccato un antico nervo scoperto. Per fingersi bianco, ha preteso dalla famiglia e dalla madre che lo adorava di non vederlo, di non cercarlo più, e questa decisione pesa su di lui, dentro di lui, più di quanto egli non creda. L’ipocrisia sociale che gli ha attaccato sul volto la maschera del “razzista”, sembra aver colto nel segno, anche se era diretta verso un bersaglio errato. E’ questa, dunque, la vera “macchia” che Silk si porta dietro? No, perchè l’autore si diverte a confutare anche questa risposta che sembrava acquisita ed affida a Coleman stesso una diversa interpretazione: quella scelta fu, a suo dire, motivata da una volontà eroica di farsi da solo, di plasmare la propria vita libera da qualsiasi condizionamento (lungo questo asse, egli si pone agli antipodi rispetto al fratello Walter, attivista nella difesa dei neri d’America). Così quello che in un’ottica convenzionale sembrerebbe un rinnegamento, potrebbe anche essere stata una scelta di libertà, difficile, dolorosa e non esente da sensi di colpa e da contraddizioni.
E’ questo il secondo, grande tema del romanzo: quello dell’identità e, in termini pirandelliani, della dialettica essere-apparire, volto-maschera, forma-vita.
Coleman, la sua amante Faunia, Delphine, in qualche misura lo stesso Zuckerman, sono privi di una identità definita e sicura.
Le ambiguità di Zucherman sono intimamente connesse col suo ruolo di narratore, solo in parte onnisciente. Un esempio per tutti è la sua affermazione iniziale secondo la quale Coleman era ebreo, smentita in seguito dallo svolgersi della storia che, si presume, avrebbe dovuto conoscere fin dall’inizio e che sembra invece scoprire anche lui, a poco a poco, insieme al lettore, fino alla versione definitiva fornita da Ernestine, la sorella dell’ex accademico. Assistiamo dunque ad una sorta di limitazione dell’onniscienza che rende la figura dell’io narrante anch’essa cangiante come gli altri personaggi e come la stessa realtà narrata, attraverso la non coincidenza tra fabula e intreccio e le anacronie che ne conseguono.
Questa disgregazione dell’individuo trova conferma nella tormentata personalità di Delphine, mossa contro il protagonista da una passione nascosta e morbosa nei suoi confronti, che ad un tratto sorprendentemente le si rivela e che ci riporta alle sue opzioni culturali, al suo intellettualismo “europeo” che non le ha mai consentito di vivere la realtà e le esperienze in modo istintivo e diretto, “americano”, ponendola in continuo conflitto con i suoi desideri profondi (si veda la sua amarezza nel constatare di aver in ciò tradito la lezione del grande romanziere Kundera, conosciuto negli anni della sua formazione europea). E così il giudizio negativo sull’America bacchettona e ipocritamente puritana, sembra capovolgersi quando Roth confronta la cultura americana, diretta e istintiva, con quella europea, devitalizzata dal filtro dell’ideologia e dell’intellettualismo.
Di questo carattere inafferrabile e cangiante del personaggio di Roth è ulteriore esempio Les Farley, l’ex marito di Faunia, reduce della guerra in Vietnam. Ancora una volta la vicenda narrata si inquadra nella grande storia e le pagine in cui Roth-Zukermann racconta i traumi mentali subiti dai soldati sopravvissuti al conflitto sono di una nitida e lacerante drammaticità. Memorabile la scena del ristorante cinese in cui l’ex combattente viene condotto per metterlo a contatto con i “musi gialli” che odia, per “assuefarlo” alla loro vicinanza e aiutarlo così a controllare la rabbia omicida maturata in Vietnam nei loro confronti. Una rabbia che però non si spegne, una pulsione distruttiva che sembra irrefrenabile e che si incanala contro la ex moglie e Coleman stesso, provocandone, a detta di Zuckerman, la morte in un incidente automobilistico.
Siamo all’episodio finale, una pagina di altissima letteratura, dove romanzo sociale e thriller psicologico si fondono mirabilmente.
Imbattutosi nel pick-up di Les Farley lungo la carreggiata, Zuckerman scende dalla sua auto e si inoltra verso un lago ghiacciato, sulla riva del quale il presunto assassino sta pescando. E’ un dialogo tramato di sottintesi, sul filo di un nuovo possibile sbocco di violenza e di un rinnovarsi della furia omicida di Les Farley, che si mette invece a giocare come il gatto col topo, blandisce e minaccia, dice e non dice, con una losca pacatezza, una lucida follia, che sembra rovesciare l’immagine di un uomo fuori controllo che finora ci era stata trasmessa. Una tensione da grande autore drammatico che la solitudine del paesaggio boschivo non stempera, ma amplifica miracolosamente, suscitando echi forti ed emozioni profonde in chi legge.
E’ il genio poliedrico di Philip Roth che attraverso queste pagine ci parla e ci parlerà sempre della nostra inafferrabile psiche, delle ambivalenze sociali, culturali, psicologiche in cui siamo inesorabilmente immersi, macchiati dal peccato originale del nostro essere uomini.




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Consigliato a chi ha letto...
Pastorale americana
Ho sposato un comunista
Minimaetmoralia.it, Pianeta Roth, Luca Alvino, La macchia umana, 13 maggio 2013
Dalla mia tazza di tè.com, Philip Roth e l’Europa: il caso di Delphine Roux, Elena Grammann, 22 febbraio 2018
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AsiaD Opinione inserita da AsiaD    13 Aprile, 2017
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LA LIBERTA' DI ESSERE PRIGIONIERI

Che intensità, un libro davvero intenso.
Difficile provare a raccontare Roth, perché ogni suo libro ha più di un livello di lettura e si rischia sempre di minimizzare il messaggio. Sul filone della denuncia della società americana anche ne La Macchia Umana ritroviamo la critica al pensiero americano, alle sue dinamiche contorte che ti portano ad essere vittima e carnefice, perché Coleman che soffre del razzismo, nascosto con molta difficoltà e poco successo, di cui è bersaglio, verso la classe afroamericana si ritrova ad esserne lui stesso rappresentanza, fingendo di essere bianco e dissimulando perché per sua "fortuna" non è abbastanza nero. E' incredibile pensare come un uomo viva tutta la sua vita sul filo della menzogna, la menzogna più profonda, quella che ti porta a rifiutare te stesso. E quindi se soffre nel profondo quando viene tacciato per "negro" , è lui stesso che cancella il suo passato con una spugna fingendo di essere orfano, ripudiando la sua famiglia, uccidendola virtualmente per tentare una rinascita che in fondo non raggiunge mai; perché un uomo non può rinascere dal rifiuto delle proprie radici, può solo fingere di mischiarsi come un camaleonte tra le pieghe della vita e delle relazioni sociali, ma quando sei solo quella macchia è lì indelebile, quel segreto riaffiora in ogni momento..sei un attore della tua stessa vita. Lui dice che lo fa per essere libero, ma quale libertà è quella che ti costringe a imprigionarti in un personaggio, in una recita! Non chiamiamola libertà..Questo è l'aspetto a mio parere più forte di tutto il romanzo di Roth, forse maggiore della questione del giudizio impresso senza alcuna ragione fondata o meglio su un, chiamiamolo, malinteso, io oserei dire più cecità e ignoranza della gente là fuori che decide per te, definisce i tuoi pensieri anche se sono anni luce lontani dai tuoi pensieri reali; Coleman, uomo nero che passa la vita a fingere di essere bianco, viene accusato di razzismo verso altri neri; che incredibile giostra!
I personaggi che incontra si susseguono tra dolori e storie tormentate, figli che ripudiano genitori, genitori che perdono i figli, incomprensioni, giudizi e pre-giudizi.
C’è tanto dell’America di oggi, o forse di tutta la società occidentale che viviamo e subiamo. Ipocrisia e tormento. Ho trovato Roth ancora più diretto nell’espressione del messaggio e della sua critica rispetto a Pastorale Americana ad esempio, qui è come se avesse voluto urlare senza mezzi termini, non rischiando di affidarsi all’interpretazione del lettore, mi ha dato questa sensazione.
E’ un libro incredibile, profondo, che tocca l’anima.

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68 Opinione inserita da 68    09 Febbraio, 2017
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Impronta indelebile nell' oceano della vita

Attorno ad una espressione contenente il termine " spook " ( spirito, spettro, fantasma, ma anche " negro " in senso spregiativo ) per quanto vaga, opinabile, o semplicemente male interpretata, pronunciata con sufficienza, noncuranza, ironia, può aprirsi un processo ed una gogna mediatica da parte di una comunità ipercritica e moralmente stupida, divenendo giudizio inappellabile, colpa, condanna.
Ma per quanto una semplice battuta può essere interpretabile e fallace, invero un inganno ben più grande si è compiuto, ed ha attraversato una vita intera, costruita su forme e modi alimentatisi di apparenza, autorità, supponenza, all' interno di un mondo accademico da sempre agognato ed altrimenti precluso e da rapporti intra famigliari congelati da rigide tradizioni conservatrici, incarcerati in una socialità ancora vincolata ad orribili e penalizzanti discriminazioni razziali.
Per contro vi è un se' desideroso di libertà ed autoaffermazione, un po' egoistico, quel volere anticipare i diritti umani ai diritti civili e cambiare il proprio destino, ripudiando il passato, ignorando i sentimenti e gli affetti più cari, in nome di un decisionismo e di uno spirito risoluto che rischiava di smarrirsi laddove questi confini calzavano stretti.
Quella " macchia umana " che inevitabilmente ci segna, che "....esiste prima del suo segno....", è il complesso romanzo di un mondo, quel cinquantennio di storia americana ( tra gli anni '50 e la fine degli anni ' 90 ) che, partendo dalla dettagliata analisi del particolare ( la vita dei protagonisti ), allarga l' orizzonte al sottile confine pubblico-privato, legge-morale, famiglia-tradizione, relazione- desiderio, intrisa di rabbia repressa, tragedie passate, inquietudine e disperazione del presente con un futuro paradossalmente già scritto e sviscerato.
Coleman Silk, settantenne ex professore di lettere classiche dell' Athena College ( siamo in New England ) e per anni preside di facoltà nello stesso ateneo, è l' anima pulsante della narrazione, ma attorno alla propria storia ed a quella accusa gravosa ( di razzismo nei confronti di due studenti ) c' e' un intero mondo a tratti impercettibile, che si sfiora, si intreccia, si tocca, si lascia, ed un crogiuolo di personalità rappresentative di una America delle grandi tematiche sociali e degli eccessi smodati, infarcita di una propria " cultura " estranea a un modello europeizzato, con una visione del mondo unica e personale, come la peculiarita' dei suoi abitanti e dei protagonisti della narrazione.
Come sempre, nei grandi romanzi, vicende storiche e personali si intrecciano e si influenzano.
Sono storie di uomini inseriti a loro volta nella " storia ", e da essa indirizzati, emblematica la figura di Faunia Farley, amante di Coleman, trentaquattrenne disperata, fintasi analfabeta, continuamente in fuga, con una infanzia di vessazioni famigliari ed il trauma della morte violenta dei propri figli, o dell' ex marito Les Farley, reduce del Vietnam "... ufficialmente morto....", alcolista con disturbi da stress post-traumatico, o della professoressa Delphine Roux, giovane e brillante ma in fondo con una vita vuota e solitaria, alla disperata ricerca di un uomo che possa capirla e valorizzarla.
È poi vi è quel Nathan Zuckerman, voce narrante, amico e confidente di Coleman, da lui chiamato a scrivere e riscattare la propria storia, tirandone le fila. Egli ricostruirà la complessa vita dei protagonisti, dalle origini al presente, quel 1998 macchiato nella storia americana dallo squallido scandalo sessuale del presidente Clinton.
Il caso, quel destino crudele e immodificabile che sembra abbattersi sui personaggi, non si rivela essere tale.
Come possiamo distinguere e cercare di capire chi siamo, fino a che punto prodotto di questa società, del passato, della storia, e come viceversa la abbiamo percorsa, indirizzata, mutata?
Ogni scelta passata, piu' o meno ponderata, elisa, omessa, ovattata, riemerge inquietante a rappresentare la nostra vera natura perché non possiamo nasconderci per sempre.
Coleman e' un uomo con un segreto, un terribile segreto, un quid enigmatico, Faunia "... lo sapeva ed insieme lo condividevano... ". Sembrano due esseri agli antipodi ( culturalmente e socialmente ) ma si somigliano terribilmente, tutto il loro dolore si è raggrumato in passione e l' accoppiarsi ( " ...perché in fondo è solo sesso... " ) è il dramma in cui decantano tutte le rabbiose disillusioni della loro vita.
Certamente la dura realtà ha influenzato le proprie scelte, anche dolorose, obbligate, ma la discrepanza soggetto-realta' finisce con il soffocare ed il vomitare situazioni ormai irrimediabili.
Quali le nostre colpe ( nel caso di Coleman ), o le colpe dei nostri padri ( per Faunia ), o della nazione ( nel caso di Les ), o dei propri smodati desideri di arrivismo ( Delphine ), quale il confine tra reale e percepito, errore e cinica volontà di potenza, fagocitati dalla inevitabile gogna del presente?
Invero non vi è alcuna possibilità di redenzione o salvezza, ne' la vita può essere rivissuta cambiando scelte ed affetti, non resta che prendere atto dei propri fallimenti, con un indistruttibile struggimento per come le cose non sono e non potranno mai essere, accettando quella parte di se' che ha lottato per essere quello che siamo, per affermare e difendere la propria libertà ( o presunta ).
Resta la tragedia del reale ed il dubbio su quello che altri indirizzi avrebbero potuto determinare.
In fondo "...la verità che ci riguarda è infinita, come le bugie, e l' ignoto è senza fondo..."
" La macchia umana " è un romanzo a tutto tondo, con una stupefacente ricchezza narrativa ed espressiva, immerso in un oceano sconfinato di dubbi e riflessioni sul presente, sul passato, sulla storia, manifesto di una società e socialità complessa, contraddittoria, esasperata ed esasperante, laddove un rigido moralismo e puritanesimo convive con nefandezze e bassezze spirituali del quotidiano ed il confine pubblico-privato alimenta continue isterie e distopie sullo sfondo di una società multietnica ancora irrisolta ed escludente.
È un affresco di una America cambiata, intrisa d' odio, ma ..." l' odio a cosa serve, quando cominci ad odiare non smetti più..." in cui ogni cosa era diversa, prima. Quando ?
..." prima del rinnovamento urbano, prima che i classici venissero abbandonati, prima che smettessero di regalare la Costituzione ai liceali che si erano diplomati, prima che nei college si istituissero dei corsi di recupero per insegnare ai ragazzi ciò che avrebbero dovuto imparare alle medie. Prima del mese della Storia dei Neri, prima che perseguitassero un professore universitario per avere detto ai suoi studenti la parola spettri, prima che tutto cambiasse, compreso Coleman Silk..."
Trattasi di una grande prova narrativa, completa, complessa, riccamente vestita, con il respiro che appartiene solo ai grandi romanzi e romanzieri.












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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    27 Giugno, 2016
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L'intolleranza dei tolleranti

Il pregiudizio, il razzismo, la maldicenza, la discriminazione, e le loro conseguenze: la violenza psicologica, fisica e quella forse peggiore di tutte quella morale, quella autoinflitta per tentare di uniformarsi, per diventare quello che la società vuole che tu sia... Questi e molti altri i temi al centro della trattazione de La Macchia Umana, un romanzo che non a torto molti definiscono il migliore di Roth. È questo infatti, ancor più di Pastorale e del Complotto contro l’America, l’opera di uno scrittore compiuto, totale, che è consapevole all’infinitesimo di ogni suo mezzo e che non si pone limiti se non solo quelli dettati dalla logica e dal buon senso. Quelli dettati dalla consapevolezza ormai raggiunta nell’arco di quarant'anni di carriera che può spingersi nel ragionamento e nella riflessione fino addirittura a trascurare la storia e trattenere una sorta di dialogo con se stesso e con noi lettori, un dialogo che, una volta accettato, non potremo far a meno di notare come sia illuminato dalla scintilla di un’intelligenza, una sensibilità e una cultura fuori dal comune.
Scordatevi leggendo La Macchia Umana di scene avvincenti ricche di pathos o di passioni ardenti, scordatevi persino del film, nel caso l’abbiate visto, la vicenda è marginale, ciò che accade lo si può riassumere in due righe: un professore universitario di chiara fama (e di “mimetizzate” orgini afro americane) viene ingiustamente accusato di razzismo e lentamente emarginato da un mondo, quello accademico e quello bacchettone del paesino americano in cui vive, finché egli stesso diventa vittima della discriminazione e del razzismo, finché egli stesso, proprio come aveva fatto in gioventù è costretto a crearsi una nuova realtà e una nuova vita... Bene, scordatevi di tutto questo, è solo marginale, ciò che conta è il pensiero, la profondità a cui giunge la riflessione di Roth, una profondità tale che gli consente di presentarci il problema dell’intolleranza sotto una luce nuova,, autenticamente anticonformista e per questo realmente coraggiosa: l’intolleranza dei tolleranti.
Non amo nelle recensioni mettere citazioni testuali, poiché m’è sempre sembrato un po’ come un modo di “fregare” il lettore, risparmiarsi la fatica del compito scopiazzando qua e la, tuttavia poiché qui concretamente esaustive del significato del romanzo, nonchè dell’onestà e del coraggio dell’autore, farò un paio di eccezioni.
Si parla del protagonista che lascia la provincia americana per sfuggire ai pregiudizi e le mal dicenze della piccola città alla ricerca di un’identità individuale scevra dal bigotto machismo della retorica nazionale, scevra dalle facili accuse e gli ingiustificati processi pubblici:

“… Poi partí per Washington e, nel primo mese, fu prima un negraccio e nient’altro, poi un negro e nient’altro. No. No. Vide il destino che lo aspettava e non gli piacque. Ci arrivò intuitivamente e spontaneamente si ritrasse. Non puoi lasciare che il grande “loro” t’imponga la sua intolleranza e non puoi nemmeno permettere che il piccolo “loro” diventi un “noi” e ti imponga la sua etica. No alla tirannia del “noi” e alla prima persona plurale con cui essa si esprime e a tutto ciò che il “noi” ti vuole ficcare in testa. Non era per Coleman la tirannia del “noi” che muore dalla voglia di assimilarti, lo storico e inevitabile noi morale coercitivo e assorbente col suo insidioso E pluribus unum. (….) L’io nudo e crudo, invece, con tutta la sua agilità. Andare alla scoperta di se stessi: ecco il vero pugno alla labonza. La singolarità. La lotta appassionata per la singolarità. Il singolo essere umano. La mobile relazione con ogni cosa. Non statica ma mobile. Autocoscienza, ma dissimulata. Cosa c’è di altrettanto potente?”

E ancora quando ormai da professore anziano, la cui carriera è stata irrimediabilmente rovinata dall’ ignorante e dittatoriale perbenismo di un ambiente puritano, torna al campus per allontanarsi da un nuovo presunto (e falso) scandalo sperando che i tempi siano cambiati, che ormai la gente sia maturata, e con grande delusione, udendo le chiacchiere di tre giovani assistenti sul caso Clinton - Lewinsky, capisce che nulla è cambiato e se in realtà ci sono delle differenze, grazie ai media che hanno reso l’opinione un mezzo di coercizione di massa, violentando il pensiero logico individuale, queste sono solo in peggio:

“…si sedette su una panchina ombreggiata dalla vecchia quercia nocchiuta più famosa della corte (…) e si sforzò, con calma di riflettere sulle coercizioni del decoro. Sulla tirannia della decenza. (…) la briglia che il decoro è per la pubblica retorica, l’ispirazione che fornisce agli atteggiamenti personali, la persistenza, quasi dappertutto, di questo svilizzante “virtuosismo” da pulpito che H. L. Mencken identificava con la stupidità, che Philip Wylie definiva mammismo, che gli europei, astoricamente, chiamano puritanesimo americano, che i pari di Ronald Regan chiamano valori irrinunciabili dell’America, e che mantiene un ampia giurisdizione mascherandosi da qualche altra cosa: da ogni altra cosa. Come forza il decoro è proteiforme, un dominatore in mille travestimenti, che s’ infiltra, se neccesario, come civica responsabilità, dignita Wasp, diritti alle donne, orgoglio nero, fedeltà etnica o sensibilità etica ebraica gonfia di emozioni. Non è come se Marx o Freud o Darwin o Stalin o Hitler o Mao non fossero mai esistiti: è come se non fosse mai esistito Sinclair Lewis. È come, pensava Coleman ( Silk ), se Babbit non fosse mai stato scritto. È come se nella coscienza, a provocare il minimo turbamento, non fosse mai stato ammesso neppure quel livello assolutamente elementare di pensiero immaginativo. Un secolo di distruzioni diverso nei suoi eccessi da ogni altro viene a intristire la razza umana: decine di milioni di persone comuni condannate a patire una privazione dopo l’altra, un’atrocità dopo l’altra, un male dopo l’altro, mezzo mondo, o più di mezzo, sottoposto a patologico sadismo come politica sociale, intere società organizzate e ostacolate dalla paura di violente persecuzioni, la degradazione della vita individuale raggiunta in una misura ignota nella storia, nazioni vinte e ridotte in schiavitù da criminali ideologici che le privano di tutto, intere popolazioni cosí demoralizzate da essere incapaci di alzarsi dal letto la mattina col minimo desiderio di affrontare la giornata… Tutte le terribili pietre di paragone offerte da questo secolo, ed eccoli levarsi e prendere le armi per una Faunia Farley. Qui in America o è Faunia Farley o Monica Lewinsky! Il lusso di queste vite cosí turbate dai comportamenti inappropriati di Clinton e Silk! Questa, nel 1998, è la depravazione che devono sopportare. Questa, nel 1998, è la loro tortura, il loro tormento e la loro morte spirituale. La fonte della loro più grande disperazione morale, Faunia che mi fa un pompino e io che mi scopo Faunia. Sono un depravato non soltanto per aver detto una volta la parola “spettri” (in inglese spooks, termine usato anche denigratoriamente per identificare persone di colore), in un aula piena di studenti bianchi, e di averla detta badate, non mentre stavo lí a riesaminare l’eredità della schiavitù, le invettive delle Pantere Nere, le metamorfosi di Malcom X, la retorica di James Baldwin, o la popolarita radiofonica di Amos ‘n’ Andy, ma mentre facevo l’appello abituale. Sono un depravato non soltanto a causa di....


Questo il “piccolo loro” e il “grande loro”, alle prese con il “noi”, con come ovvero noi siamo costretti dalla società ad adeguarci a costumi, mode, opinioni e come a sua volta noi facenti parti di questa società costringiamo altri dettando regole, arrogandoci il diritto di considerare gli altri copie conformi alla nostra, con il nostro stesso modo di pensare, il nostro stesso modo di sentire e allorchè ci accorgiamo che non è cosí, come siamo sempre pronti ad ergerci a paladini del bene e del giusto, schiacciando, distruggendo qualunque cosa differente, qualunque cosa singolare, individuale, personale, intima. Questo è ciò contro cui si scaglia Roth ed è valido oggi giorno per qualunque scelta, qualunque affermazione. Qualcuno che giudica e condanna nel sua “superba bontà” ci sarà sempre: Non sei di destra? Comunista! Non sei di sinitra? Fascista! non sei pro America? Terrorista. Non sei filoislamico? Guerrafondaio! Non sei nero, giallo, verde, gay, lesbica travestito, donna, handicappato, disabile, malato, vecchio? Misogeno, violento, razzista! Non sei bianco, ricco, atletico, cristiano? Sfigato! Opportunista? Ipocrita! Fino ad arrivare alle forme nostrane più becere, stupide, e per questo forse anche volgari e comiche: non sei milanista? Merda! Non sei interista? Merda! Non sei Juventino...
E l’uno? L’individuo? Quello che il singolo è a prescindere dall’appartenenza ad un gruppo, un credo, una bandiera? E ancor più dell’essere? Quello che uno vuole? Quante violenze morali, fisiche, psicologiche siamo costretti a sopportare per uniformarci, quante violenze ci auto imponiamo per far parte di questo “grande loro”?
No, non c’è niente da fare non lo capiamo proprio e anche se a suo tempo, dopo le guerre e le vere violenze e le vere atrocità di cui rimanere scioccati, moralmente deturpati, l’avessimo capito, ormai, instupiditi dal benessere, l’abbiamo dimenticato. L’uno! Il singolo contan più del gruppo! Perchè la vecchietta va in chiesa e l’ultra allo stadio, o viceversa? Perchè entrambi cantano i propri inni? Perchè uno urla olè e l’altro alleluja, se non per sentirsi parte di qualcosa di più grande, se non per sentirsi, in compagnia, più forti, più al sicuro? Ma la vecchietta additerà l’agnostico fuori sul sagrato come l’ultrà interista il milanista (solo il dito forse cambia) e I “Buoni”, I “ Tolleranti” gli “Irriducibili modaioli difensori delle minoranze” additeranno entrambi, senza capire che anche loro hanno bisogno di credere in qualcosa, che anche loro esattamente come tutti gli altri possono volere, desiderare, sbagliare… L’intolleranza della tolleranza, le minoranze che forti della protezione delle maggioranze diventano esse stesse sovverchianti maggioranze: il professore un tempo detentore del potere in aula che per l’uso incauto di un termine viene cacciato, rovinato senza possibilità di appello, senza possibilità di difesa. L’ uomo qualunque che viene condannato da un’intera comunità per una storia con una donna di qualche anno più giovane e che proprio per questo viene identificata come debole vittima di un soppruso. Ma se è lei che lo vuole? Se anche a lei piace?
Farsi forti della forza degli altri, condannare quando gli altri condannano, applaudire quando applaudono. Per appartenere, per sentirsi, anzi, giacchè coinvolge tutti, per sentirci accettati, per illuderci di far parte di qualcosa, per non vedere che in realtà siamo solo ombre d’uomini, deboli macchie che al primo cenno di bontà siamo pronti a ripudiare interamente noi stessi, che per un abbraccio, per una pacca sulla spalla per un coro allo stadio e un cenno di assenso di una decina di teste, siamo pronti a prosituirci, a svendere la nostra individualità. Ma ci sarà poi qualcosa in quelle decine di teste? E nelle nostre? Macchie! Nient’altro che macchie!
Questo è il significato di quelle frasi e del libro, questo è il succo del pensiero di Roth, non che quello di questa recensione, e quelle, le sopra citate frasi, come molte altre presenti nell’romanzo, andrebbero lette e rilette a certe schiere sociali che se ne approfittano vivendo, e prosperando, sulla stupidità di molti e il reale disagio degli altri; andrebbero ripetute allo sfinimento, per convincerli della loro ipocrisia, anzi altro che leggerle, anche a costo di macchiarmi del medesimo reato, andrebbero urlate loro in faccia, per assordarli, per non permettere più di ascoltarsi e crogiolarsi nel loro finto perbenismo! Ma tanto loro non capirebbero, tanto loro sono in troppi e non ascolterebbero e anche se per una volta ascoltassero, per bene come sono, per bene come solo noi sappiamo essere..., in barba all’individualità, di Roth, in barba alla sua intelligenza, al suo coraggio, sarebbero subito pronti a condannare... Macchie!
La macchia umana, forse il romanzo migliore di quello che forse è lo scrittore migliore, almeno del nostro tempo.

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chicca Opinione inserita da chicca    31 Luglio, 2011
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la macchia umana

Un libro geniale, scritto con assoluta maestria dal migliore scrittore vivente.
I personaggi sono veri, complessi, pieni di contraddizioni, proprio come tutti noi. La capacità di analizzare psicologicamente, di scandagliare l'animo umano da parte di Philip Roth è spiazzante.
La trama è densa di denunce e invita a riflessioni importanti, più di ogni cosa sconvolge lo sguardo cinico ma sempre realistico sulla società e sulle " regole" che la governano.
Indimenticabili le pagine in cui l'autore descrive le difficoltà che incontrano i reduci del Vietnam nel ritornare alla vita di prima.
Un libro non facile, a tratti insidioso, ruvido, in cui la trama risulta secondaria rispetto alle riflessioni a cui l'autore ci induce. Riflessioni sulla società Americana, sul falso moralismo di cui è impregnata, sui pregiudizi e sull'impatto che tutto ciò ha sull'individuo.

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