Il processo Il processo

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kafka66 Opinione inserita da kafka66    12 Mag, 2024
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Le angosce del nostro vivere

Romanzo complesso e profondissimo, surreale e delirante, denso di immagini che lasciano annichiliti. Visioni lucide e potenti, ricche di spunti sui malesseri del nostro io più intimo e riflessioni sulle angosce dell'uomo, sulla colpa, sulla impossibilità della redenzione. Riflessioni sulla giustizia distorta e spietata dell'uomo sull'uomo, sulla giustizia divina, sul rapporto dell'uomo con la religione e con Dio. E poi immagini che raccontano dei difficili rapporti umani, del senso di sconfitta, di vuoto, di profondissima angoscia nei rapporti personali, amorosi o semplicemente intimi, della incapacità di raggiungere autenticità, condivisione e verità. Un mondo subdolo, dove nessuno può fidarsi degli altri, dove i propri pensieri non rassicurano, non chiariscono, non aiutano. Le sensazioni provate mentre si legge sono angoscianti, claustrofobiche, persino fisiche, si percepisce l'ansia e la si vive noi stessi assieme a K. e manca davvero l'aria come manca a K. e sembra quasi di provare la fatica di respirare. Sensazioni forti che sono prima di tutto sensazioni dell'anima. Pur essendo un manoscritto per certi versi frammentario, soprattutto nel finale, quasi abbozzato, dobbiamo ringraziare Max Brod per aver disobbedito alle volontà testamentarie di Kafka, il quale avrebbe voluto distruggere questo straordinario romanzo che tanto ha rappresentato e rappresenta ancora oggi per ognuno di noi.

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La metamorfosi, il primo racconto che solitamente si legge dell'autore praghese.
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    07 Febbraio, 2020
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Qualcuno doveva aver calunniato Josef K.

IL PROCESSO di Franz Kafka è un breve interminabile incubo, narrato con l’eleganza affilata di un coltello da macellaio.

Il paradosso della colpa inevitabile è narrato in luoghi quotidiani, trasfigurati da un doppiofondo metafisico. I personaggi, descritti con minuzia surreale, ricordano gli alieni della porta accanto. I dialoghi palleggiano con grazia l’assurdo, scorticando la superficie razionale della realtà: la stessa che sembra appartenerci, la stessa che sembra ancorata alla solidità ingannevole della materia.

Il ritmo narrativo è lento, ma incalza il lettore fin dall’incipit, come il processo che invade la vita di Josef K. in poco tempo. Il tribunale, con i suoi locali saturi di aria poco respirabile, allunga i suoi tentacoli ovunque, vicino alle case, nelle soffitte, dietro i letti, nascosto da porte improbabili.

La legge è umana, divina, onnipresente, eterna. La legge è un ingranaggio di significati inafferrabili dalle parole, un mostro che ingombra, soffoca e uccide. Le nostre parole si perdono in circoli viziosi senza ritorno, quando tentano di esprimerla. Un’unica certezza: l’assoluzione reale è impossibile, soprattutto se si è innocenti. Al massimo, si possono ottenere dei simulacri. Povero Josef K. Poveri noi.

Una delle opere più angoscianti che mi sia capitato di leggere. Una delle migliori.

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    13 Ottobre, 2019
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Agonia parte terza

Agonia parte prima: l'America
Agonia parte seconda: il Castello
Agonia parte terza: il Processo

La triologia di Kafka sull'ineluttabile destino dell'uomo stritolato dal sistema comprende queste letture: il processo, il castello e l'America.
Il processo è forse quello leggermente più scorrevole dei tre tomi.
Ma a mio avviso per leggere Kafka, bisogna armarsi di una pazienza e una forza di animo che scoraggerebbero anche il lettore più cocciuto.
L'autore vuole con il processo, tirare un atto di accusa contro ogni sistema burocratico e legislativo, dove in una selva di articoli, leggi, processi, contro processi, appelli si entra in un meccanismo perverso e totalmente assurdo, dove le parti in causa finiscono alla fine per soccombore o meglio ancora finiscono quasi alla soglia della follia.
In questa opera, ci viene messo sotto il naso, un meccanismo legislativo che vede il cittadino come un semplice spettatore di una commedia tragicomica il cui finale sembra non arrivare mai.
E' una macchina infernale che una volta messa in atto pare non abbia più un sistema di arresto.
Il protagonista, suo malgrado, sarà costretto a far fronte a una serie di norme, leggi, personaggi che sembrano come organizzati in modo tale da creare un girone dantesco dove non vi è la fine di uscita e dove ogni persona dovrebbe guardarsi bene dal caderci dentro.
Per Kafka, secondo me, la società non da scampo alle persone.
E' sicuramente un autore molto negativo. Dai diversi testi che ho letto di lui, non ho mai trovato un clima sereno e disteso nei vari racconti. Ogni romanzo è come un lento inesorabile precipitare verso la disperazione dei personaggi che ne sono i protagonisti.
Egli è un realista, poichè sa bene che la società così come è strutturata è atta a reprimere il singolo, per potersi preservare, assicurare il potere a una ristrettissima elité, alla faccia della tanto paventata democrazia e che la legge è uguale per tutti.....

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    09 Giugno, 2019
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La rassegnazione di fronte alla Legge.

Con “Il castello”, è una delle opere più significative dello scrittore di Praga, uno dei capolavori del primo Novecento pubblicato nel 1925 da Max Brod, contro la volontà dell’autore che voleva distruggere il manoscritto. Sono dieci capitoli, che la Libraria Editrice s.r.l. ha pubblicato nel 2018 in una Collana dedicata ai Classici, aggiungendovi sei capitoli incompiuti. Il lavoro è del 1914/15 e, come noto, è stato ed è oggetto di svariate interpretazioni, tante sono le chiavi di lettura che i critici letterari hanno voluto usare per leggere tra le righe qualcosa che forse Kafka aveva intuito o solo percepito, pur senza esplicitare i veri nodi delle critiche che in cuor suo voleva manifestare nei confronti del sistema giudiziario in primis, dei rapporti umani e della vita più in generale. E’ la storia, sospesa tra realtà e immaginazione, di un impiegato di banca, Joseph K., al quale improvvisamente viene notificato un mandato di arresto per gravi colpe mai chiarite e mai commesse. Il malcapitato si trova coinvolto in un processo assurdo e inesplicabile, si rifiuta di accettare la propria sorte, crede fermamente in un errore giudiziario pur restando invischiato in una ragnatela di situazioni e incontri – scontri con una burocrazia cieca e complessa, popolata da personaggi surreali e sfuggenti. Lo stile narrativo è freddo e disadorno, a tratti delirante e astratto, quasi avulso dalla realtà degli accadimenti. La legge segue il suo corso, inesorabile e complessa: il poveretto alla fine verrà giustiziato, mormorando “Come un cane!” (e fu “ come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”!). Il romanzo, che ebbe una versione cinematografica ed un famoso sceneggiato televisivo nel 1978, si presta a interpretazioni svariate. Oltre alla più comune, vale a dire una critica feroce e scontata contro la “giustizia”, troppe volte caratterizzata da meccanismi imprevedibili e tragici che escludono rapporti di fiducia e che rendono inutile qualsiasi tentativo di difesa, altre possono essere le chiavi di lettura. Vi si può, a mio parere, intuire un latente senso di colpa, aggravato dalla solitudine e dall’impotenza ineluttabile di fronte agli ingranaggi inarrestabili di leggi preconfezionate o addirittura di un mondo che non ascolta e soprattutto non perdona. Un individuo solo contro tutti, che sembra, alla fine di un calvario, accettare la condanna e la morte come una desiderata liberazione. Illuminante il capitolo VII, che disquisisce su vari tipi di assoluzione: la “vera”, quasi mai comminata, quella “apparente”, che protrae le inchieste all’infinito, il “rinvio”, che consiste in un basso profilo delle procedure che mai si concludono. Una sorta di intrighi, degni dell’Azzeccagarbugli manzoniano. Un’altra chiave di lettura può leggersi nel capitolo IX: la predica, con “voce possente ed esercitata”, di un prete dal pulpito del Duomo della città, rivolta esclusivamente a Joseph K. ivi recatosi per incontrare un cliente della banca, si traduce alla fine in colloquio, apparentemente oscuro, nel quale il predicatore, sedicente cappellano del tribunale, cita ripetutamente una imperscrutabile Legge il cui accesso è proibito all’uomo da una sola persona, un fantomatico Guardiano. “ Il tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni, ti lascia andare quando vai”. Una metafora della vita, indifferente alle umane vicissitudini, un fluire lento, inutile lottare o cercare di capire.
I personaggi del romanzo, almeno alcuni, sembrano simboli irreali: l’ispettore del tribunale, i colleghi di Joseph K., il giudice istruttore, Karl, lo zio del protagonista, l’avvocato Huld, perennemente malato, inconcludente nel procedimento giudiziario, il vicedirettore della banca che s’approfitta delle difficoltà di Joseph K., cercando di trarne vantaggi, il pittore Titorelli, strana e ambigua figura di ritrattista , e poi le donne, sfuggenti, la signora Grubach, affittacamere, la signorina Burstener, le tre monelle del pittore, e soprattutto Leni, infermiera e domestica dell’avvocato Huld, dolce e compiacente, civettuola quanto basta per tingere di leggerezza e di sensualità una trama narrativa altrimenti cupa e angosciante. E sono proprio i personaggi simbolici a suggerire una nuova interpretazione del romanzo, inteso come paradossale visione onirica, un lungo, snervante sogno di un individuo tormentato, rassegnato di fronte all’incombere di un destino già scritto.

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" Il castello" di Franz Kafka.
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    12 Ottobre, 2018
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LA COLPA E' SEMPRE FUORI DISCUSSIONE

“Il principio… è questo: la colpevolezza è sempre fuori discussione.” (Franz Kafka, “La colonia penale”)

Quante volte abbiamo usato o udito usare, più o meno a proposito, il termine “kafkiano”, ad indicare una situazione angosciosa ed inquietante alla quale l’uomo, a dispetto dei suoi disparati tentativi, non riesce a dare una spiegazione logica e razionale? Molte volte, senza dubbio. Il termine “kafkiano” è infatti entrato di diritto nel linguaggio comune, assumendo per l’uomo contemporaneo una potenza evocativa ed una connotazione emozionale altrimenti irriproducibili. A partire dalla sua morte, l’importanza di Franz Kafka nella cultura contemporanea è andata crescendo sempre di più, fino a raggiungere nel secondo dopoguerra una universale e definitiva consacrazione. La ragione principale di questo successo risiede a mio avviso nel fatto che i temi portanti delle opere dello scrittore boemo sono diventati paradigmi sorprendentemente attuali della profonda crisi spirituale dell’uomo moderno. In un mondo dilaniato da isterismi e da rigurgiti di barbarie, straziato dall’affannosa ricerca di nuovi valori in grado di sostituire quelli vecchi ormai giunti al tramonto, caratterizzato dall’irrazionalismo, dall’insofferenza verso le istituzioni e dall’incapacità di comunicare con il prossimo, l’emblematica ed anticipatrice sfiducia di Kafka nell’Illuminismo e nel principio della ragione umana come saldo potere di composizione e di superamento delle contraddizioni dell’essere ci appare sempre più come la tragica e consapevole visione di un geniale profeta.
Della produzione letteraria di Kafka, “Il processo” è sicuramente l’opera più famosa ed emblematica. Il suo famoso incipit (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato”) getta subito il lettore in medias res, smorzando già sul nascere lo stupore e rendendo non più realizzabile il ritorno alla normalità. Né i capi di accusa (“Non le posso nemmeno dire che lei è accusato – afferma l’ispettore che conduce l’interrogatorio preliminare – o meglio, non so se lo sia. Lei è arrestato, questo è vero, ma non so altro”) né l’autorità che ha ordinato l’arresto vengono rivelati al protagonista, e l’intero romanzo in fondo altro non racconta se non i suoi strenui, inesausti ma pateticamente vani tentativi di venire a capo dell’imputazione mossagli dall’enigmatico tribunale. La Legge kafkiana non ha bisogno di ascrivere una colpa specifica ai suoi imputati, di accusarli di avere infranto questo o quel precetto: la colpa è completamente inconoscibile e immotivata. Nel tentativo, che noi intuiamo essere già fallito in partenza, di difendersi dall’imperscrutabile Tribunale, Josef K. è costretto a doversi difendere fino all’ultimo istante della propria vita. “Se sono condannato – si legge nei “Diari” – non sono condannato soltanto a morire, ma anche condannato a difendermi sino alla fine”. E’ questo, secondo me, il significato più profondo de “Il processo”, ed è illuminante analizzare in questa ottica la vicenda umana di Josef K. Egli inizialmente sottovaluta gli eventi, o meglio è convinto di poterli dominare agevolmente con la ragione: “Quando uno è al mondo da trent’anni e ha dovuto destreggiarsi da solo come è capitato a me – dice K. all’ispettore subito dopo l’arresto – è avvezzo alle sorprese e non le piglia troppo sul serio… D’altro canto però la cosa non può essere molto importante. Lo deduco dal fatto che sono accusato, ma non riesco a trovare la minima colpa della quale mi si possa accusare”. Ciononostante, il germe del processo, prima latente manifestazione di un dirompente complesso di colpa, si è irrimediabilmente insinuato nel suo animo. Egli ad esempio vorrebbe ristabilire l’ordine nell’appartamento della signora Grubach illudendosi che, con l’eliminazione di ogni traccia degli incidenti del mattino, l’esistenza possa riprendere il regolare andamento di prima; oppure pretende di esorcizzare l’idea dell’arresto e metterne in risalto l’inconcretezza semplicemente parlando della sua avventura con le persone della pensione. Josef K. in realtà non accetta la rivelazione dell’irrazionale di cui ha avuto improvvisa nozione ed è costituzionalmente incapace di stare al gioco paradossale del Tribunale. Di fronte alla grottesca sceneggiata del primo interrogatorio, K. volta le spalle e fugge via, ma la settimana successiva è di nuovo là, ad aggirarsi inquieto intorno alla sala delle udienze. Nel corso della visita alle cancellerie, K. dà un’ulteriore prova del suo rifiuto di sottomettersi alla logica del processo. Nella squallida sala d’aspetto, egli ha l’occasione di incontrare numerosi imputati seduti in paziente attesa di ricevere notizie della loro causa. Benché tutti appartengano chiaramente ad un ceto elevato, il loro aspetto è arrendevole e dimesso, evidentemente per le molte umiliazioni ricevute. Josef K. prova un fiero disprezzo per quegli uomini rassegnati ed acquiescenti e, non nascondendo la sua aria di sprezzante superiorità, giunge perfino a schernirli e maltrattarli. Ma quando, oppresso dall’aria soffocante e insopportabile delle cancellerie, K. è costretto a trascinarsi penosamente all’uscita sorretto da due persone, la situazione si capovolge: agli occhi degli stessi imputati si presenta ora un uomo profondamente cambiato, prostrato e mortificato, oggetto per giunta del sarcasmo dei suoi soccorritori. In queste pagine il simbolismo di Kafka assurge a livelli di straordinaria efficacia. I luoghi in cui regna la Legge appaiono come luoghi claustrofobici, mefitici e irrespirabili. La Legge vizia l’aria della vita, distrugge la libertà e la freschezza dell’universo, soffoca l’uomo e gli impedisce di respirare liberamente. Non appena K. raggiunge l’uscita, “ecco arrivargli, come se la parete davanti a lui si fosse squarciata, una corrente d’aria fresca”; il malessere scompare all’improvviso e, mentre le forze ritornano miracolosamente in lui, K. si allontana di corsa per le scale. Ma ormai il cerchio del processo si è stretto inesorabilmente intorno a lui e lo ha catturato. Josef K. non può più vivere che in funzione del processo e tutto, dal lavoro in banca agli svaghi, deve essere sacrificato alla sua difesa. “Il disprezzo che prima aveva provato per il processo non contava più… Egli non era quasi più in grado di scegliere se accettarlo o respingerlo, ormai c’era dentro e doveva difendersi. Se era stanco, peggio per lui”. La spavalda sicurezza iniziale di K. ha sortito il solo effetto di rendere più dolorosa ed umiliante la sua sconfitta. Perduta con il passare del tempo la fede nel naturale emergere della propria innocenza e diventato egli stesso un patetico personaggio al pari di quegli imputati verso i quali provava prima tanto disprezzo.
“Il processo” è, secondo la definizione di Carlo Sgorlon, una vera e propria “proiezione scenografica di un ancestrale complesso di colpa”. Nessun ragionamento è in grado di eliminare il senso originario della colpa: esso cresce, si diffonde, diventa sempre più grande e insopportabile fino ad annientare totalmente la coscienza. Pur essendo formalmente libero e desideroso di dimenticare l’esperienza del processo, Josef K. è come se fosse rinchiuso tra le sbarre di una prigione come l’ultimo dei carcerati. La cupa ombra del sospetto non lo abbandona neppure per un istante, mentre tutte le persone con cui si imbatte casualmente per strada, dal ragazzo incontrato nell’androne di casa ai tre scialbi impiegati di banca che hanno assistito in disparte alla scena iniziale dell’arresto, sono inconsciamente messe in relazione con il processo, quasi fossero anonime pedine dell’organizzazione incaricate di tenerlo sotto controllo. D’altra parte, il suo comprensibile desiderio di riserbo e di discrezione è vanificato dal fatto che tutti intorno a K. sono a conoscenza del processo, anzi sembrano per una ragione misteriosa saperne molto più di lui. Quando, nell’ufficio della banca, l’industriale lo interpella a bruciapelo sull’andamento del processo, confessandogli poi di ricevere spesso qualche notizia dal Tribunale, Josef K. commenta sconsolato tra sé: “Quanta gente ha rapporti col Tribunale!”. Il pittore Titorelli, ambiguamente immischiato nel mondo dei giudici e delle cancellerie, glielo conferma più tardi quando, fra lo scherzo e la spiegazione, gli confida: “Tutto fa parte del Tribunale”. Al senso di colpa non si può quindi sfuggire. Siccome esso proviene da un’autorità superiore e inappellabile non si può fare altro che accettarlo remissivamente. Ne “La colonia penale”, che ho citato all’inizio, Kafka aveva affermato che per l’Essere giudicante la colpa è sempre fuori discussione: ora ne “Il processo” questa consapevolezza si è propagata come un cancro nell’animo dell’uomo, annientandolo.
Insieme alla paura di aver violato la Legge, vi è talvolta nei personaggi kafkiani l’atroce sospetto di avere commesso un errore iniziale che possa vanificare tutti i loro sforzi, il dubbio di avere imboccato fin dal principio una strada sbagliata. La stessa decisione di K. di scrivere una comparsa difensiva in grado di rievocare tutti i fatti della propria vita non è altro che lo sforzo disperato di scoprire un qualsiasi indizio in grado di rimandare ad una colpa sconosciuta. La ricerca di questa colpa diventa per l’uomo una questione vitale, perché solo trovandola egli riuscirebbe a giustificare razionalmente la sua incapacità di raggiungere la rivelazione. Kafka avverte però nel racconto “I patrocinatori” che non c’è più il tempo di voltarsi indietro: “Il tempo che ti è assegnato è così breve che se perdi un secondo, hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi. Se dunque hai imboccato una via, prosegui per quella in qualunque circostanza, non puoi che guadagnare, non corri alcun pericolo, alla fine forse precipiterai, ma se ti fossi voltato indietro fin dopo i primi passi e fossi sceso giù per la scala, saresti precipitato fin da principio, e non forse, ma certissimamente”. Novello Sisifo, l’uomo di Kafka è così costretto ad andare sempre più avanti, facendo rotolare il greve peso della sua colpa.
La filosofia di Kafka può essere anche sintetizzata, a mio avviso, come la tragedia della ragione che, pur sognando di sollevarsi dal relativo, non riesce, per quanti sforzi essa faccia, a raggiungere l’Assoluto. “Il processo” è infatti senza dubbio centrato sul problema della colpa e della punizione, ma può allo stesso tempo essere letto come una disperata ricerca di Dio da parte dell’individuo. In questa prometeica scalata all’Olimpo, Josef K. è completamente solo. Non voglio riferirmi qui alla solitudine intesa come impossibilità di intrattenere rapporti umani, bensì alla solitudine metafisica che prova colui che, dopo aver abbandonato il consesso degli uomini, si incammina senza conoscere la meta lungo l’impervio sentiero della conoscenza eterna, a quella cioè, narrata dal cappellano del duomo nella parabola “Davanti alla legge”, dell’uomo di campagna che si presenta davanti alla porta della Legge. E’ significativo che, nel finale della leggenda, il guardiano dica al contadino, proiezione simbolica dell’imputato del romanzo: “Questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”. Parimenti, in una sorta di simmetrica apertura di parentesi, quando K. si reca al primo interrogatorio, la donna che lo invita a entrare nella grottesca aula del tribunale gli sussurra: “Dopo di lei devo chiudere, nessun altro potrà più entrare”. In questo solitario tentativo di giungere fino al giudice supremo, Josef K. tocca con mano la terribile lontananza della sfera umana da quella divina, distanza che è materializzata nel romanzo dalla elefantiaca e labirintica burocrazia, nella cui enigmatica sfera i valori sono costantemente sovvertiti e l’assurdo diventa la normalità.
Pur dedicando tutta la sua vita al tentativo di venire a capo dell’imputazione mossagli dall’enigmatico tribunale, Josef K. morirà senza riuscire a conoscere la colpa commessa. Una mattina due uomini si presentano alla porta della sua camera e, senza che venga opposta da parte sua alcuna resistenza, lo conducono ad una cava di pietra, dove uno dei due lo uccide brutalmente colpendolo al cuore con un coltello da macellaio. L’ultimo disperato pensiero di Josef K. prima dell’esecuzione è l’impressione che la vergogna sia destinata a sopravvivergli. La morte “come un cane” di Josef K. è uno straziante grido di dolore levato al cielo, che oppone fino all’ultimo la sua glaciale incomprensibilità a chi gli chiede soccorso. La malvagità del fantomatico dio kafkiano raggiunge qui il suo culmine e fa riecheggiare le presaghe parole che Josef K. aveva pronunciato a Titorelli: “Un unico giustiziere potrebbe sostituire l’intero tribunale”. L’iniquità divina è per Kafka assoluta e indubitabile, e all’uomo non resta che sperimentare fino all’estremo istante sulla propria pelle l’estenuante assurdità del mondo.

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"Il castello" di Franz Kafka
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    12 Febbraio, 2017
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Smarrimento

Questo testo entra di diritto nella lista di quelli più controversi che ho mai letto.
Kafka imbastisce una storia che fa dell'assurdo la sua materia principale: rende tutto inafferrabile, strano e mai comprensibile del tutto.
Eppure, sembra chiaro al lettore quanto questo sia voluto dall'autore, che fosse consapevole di stare lì a produrre una storia che provocherà un senso di profondo smarrimento. Ci ritroveremo a camminare nell'incubo kafkiano nella sua accezione più pura.

Josef K. si sveglia in una mattina che dovrebbe essere come tante altre, ma che in realtà lo trova incomprensibilmente sotto arresto. Non si sa quale sia l'accusa né chi lo abbia denunciato, gli unici fatti constatabili sono il suo arresto e le guardie fuori dalla porta. Eppure, quello di K. sarà un arresto che gli permetterà di essere libero per tutta la durata del suo misterioso processo.
Accompagneremo Josef nel seguito del suo processo: gli ambienti si faranno sempre più cupi, asfissianti e claustrofobici, definendo sempre più il senso di impotenza del protagonista, che cerca disperatamente di capire come venirne fuori vittorioso, pur essendo all'oscuro delle sue colpe e non conoscendo nulla del Tribunale che dovrebbe giudicarlo.
E lungo questo viaggio, come se la passa il lettore? Anche lui è spiazzato come il protagonista, anche se per altri motivi. Molte delle vicende sono confuse, poco chiare, e il lettore (in questo caso io) tenta invano di trovare un senso ai fatti narrati. A tratti, ci sembra assurdo quanto il protagonista sembri NON VOLERNE sapere di più, considerando che non fa mai domande esplicite riguardo a ciò di cui è accusato. E se il fine di Kafka fosse stato fargli sperimentare lo stesso senso di smarrimento che prova il protagonista?
In quel caso, ci sarebbe riuscito alla grande.
Insomma, non avete capito se mi è piaciuto o meno? Bene, vorrà dire che sarò stato Kafkiano proprio come volevo.

"Le donne hanno molto potere. Se riuscissi a muovere certe donne che conosco ad operare di comune accordo a mio favore, dovrei spuntarla. Tanto più con questo tribunale composto quasi soltanto da donnaioli. Mostra al giudice istruttore una donna da lontano, e per arrivare a tempo lui travolgerà il banco e l'imputato."

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annamariafabbian Opinione inserita da annamariafabbian    25 Novembre, 2016
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Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie

Lo scorso Natale, per mano di un caro amico, ho ricevuto il volume. Copertina morbida, spessore non troppo spaventoso. E sì, lo ammetto - ahimè - non avevo mai letto "Il processo" di Kafka.
Onirico, lo definirei. Siamo immersi nel surreale grottesco di una realtà inesistente. Eppure tutto è reale: gli odori così descritti ci sembrano attraversarci il naso, le sensazioni sono così reali che siano lì mentre il protagonista tocca la pelle morbida e calda di Leni. Siamo lì ad aspettare e temere in questa Marienbad fatta di solai polverosi. L'afa ci fa sudare le tempie mentre siamo seduti sul letto del pittore.
Il mondo del pensiero e dei vortici mentali supera di gran lunga i fatto che realmente accadono.
È davvero successo quello che fin dall'inizio sembra sia stato raccontato? Oppure nulla è possibile? Siamo intrappolati nella rete immortale dell'isolamento? Quale sfida si combatte tra l'irrazionale e il razionale?
Da leggere. Lo stile può a volte risultare difficoltoso, ma non può mancare Kafka nella nostra libreria.

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Nuni83 Opinione inserita da Nuni83    03 Novembre, 2016
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Una lettura grigia e polverosa

Ho appena terminato questo classico della letteratura. Lo stile è scorrevole anche se il libro in molti punti è noioso. Le situazioni sono ovviamente assurde ma c'è qualcosa in questo romanzo che proprio non mi ha convinta. Sono sempre a disagio quando un testo di questa portata in qualche modo mi delude, ho sempre come il dubbio di non averlo capito fino in fondo.
Sarà che "Il Processo" è un'opera postuma e in qualche modo incompiuta ma ho trovato troppa superficialità in questo romanzo. Secondo la mia modesta opinione i personaggi sono appena accennati, le decisioni maturano in modo che non pare sentito, il finale sembra troncare una storia che ancora non è realmente iniziata.
Nulla da eccepire per quel che concerne la scrittura di Kafka, nonostante alcune pagine di narrazione a dir poco lenta, il testo si lascia leggere agevolmente e trasmette al lettore la sensazione di inadeguatezza al cospetto della legge, nonchè inadeguatezza della legge nei confronti dell'uomo. Tutta la storia appare come un brutto sogno, un sogno grigio, polveroso, ambienti angusti nei posti più impensabili. La legge e la macchina giudiziaria sono incomprensibili il che trasmette una sorta di claustrofobia costante. Durante la lettura avevo il bisogno di luce, di spazio, di un cambio di prospettiva che però non c'è mai stato.
E' un libro che consiglio per la sua capacità di suscitare emozioni nel lettore, anche se non ci si deve aspettare che queste emozioni siano piacevoli.

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StefanoTecchi Opinione inserita da StefanoTecchi    21 Settembre, 2016
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Naturalmente assurdo

“Il Processo”



Il Processo (1925), così come Il Castello (1926) e America (1927), sono romanzi usciti dopo la morte dello scrittore (1924), anche se nel testamento letterario dello scrittore, affidato all’amico Max Brod, veniva chiesto di bruciarli. Tutti e tre questi romanzi sono rimasti incompiuti

Il Processo di Franz Kafka uscito postumo (1925), narra la storia di Josef K. impiegato bancario che sarà accusato di un reato non specificato. L’interna vicenda ruota attorno a questa accusa e vedrà il protagonista cercare in tutti i modi di essere assolto. Le ambientazioni in cui vedremo muoversi il protagonista sono luoghi chiusi, oscuri e con un’aria irrespirabile, (come l’aula del tribunale, i solai sparsi per la città dove si trovano le cancellerie del tribunale, la stanza dell’avvocato e lo studio del pittore) in più di un’occasione il protagonista si sentirà schiacciato da questi ambienti lugubri.
Inizialmente Josef K. non si occuperà troppo del processo ritenendolo futile, infatti continuerà a svolgere le sue attività sia lavorative che sociali. Con lo svilupparsi della trama vedremo il protagonista sempre più preso dal Processo, dopo l’incontro con suo zio, che è venuto a sapere di questo processo a carico del nipote, K. incontrerà l’avvocato (Huld) che lo aiuterà nella causa. Dall’avvocato come da altri personaggi tra cui il pittore Titorelli, il protagonista si recherà per ricevere aiuto e consigli sulla sua causa, ma le lunghe digressioni, con questi personaggi, che dovrebbero fare chiarezza sulle procedure del tribunale, lasciano sempre, sia al lettore che al protagonista, un senso di frustrazione; infatti nonostante nel dialogo con l’avvocato e il pittore venga dimostrato che ogni stranezza della causa ha una spiegazione, nulla viene realmente chiarito, così la logica è costretta a girare a vuoto.
Il protagonista, assieme al lettore, si perderà all’interno di questo processo, che diventerà la sua unica preoccupazione.
Si resta così bloccati e perduti nell’insieme di questi avvenimenti naturali per il protagonista, ma assurdi per il lettore. Questo è il punto di forza di questa storia, tutto ciò che succede dall’accusa mai specificata contro Josef K., ai dialoghi con i personaggi, fino al finale risulta essere tratto con una naturale assurdità.
Per catturare così il lettore Kafka sperimenta l’assenza di un narratore, difatti non ci sarà all’interno del romanzo nessun intervento chiarificatore da parte dello scrittore. Infatti il narratore è il protagonista stesso, tutto quello che succede viene descritto dal punto di vista di Josef K., di conseguenza il lettore non sa e non vede più di quello che sa e vede il protagonista. Ed è grazie a questa tecnica che i testi di Kafka hanno una costante capacità di turbamento sul lettore, che si sente accerchiato e schiacciato, come K.
In definitiva è un romanzo che consiglio, ha un stile piacevole e scorrevole e tutto è continuamente avvolto nell’incertezza, che fa sembrare tutto naturalmente assurdo. Non cercherò di dare una spiegazione delle intenzioni dell’autore, ci sono molte interpretazioni, che vanno dal senso di colpa dell’uomo ad una denuncia sociale, ma Kafka ha un utilizzato un simbolo ed i simboli molto spesso vanno oltre quello che uno scrittore si è prefissato.

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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    11 Luglio, 2016
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Un processo kafkiano.

Quante volte avrete sentito durante una conversazione il termine “kafkiano”? Magari con il classico significato di “paradossale” o “assurdo”. E vi siete mai chiesto perché e da dove arriva tale termine o accezione? Ecco la risposta la trovata interamente in questo libro, dove le situazioni kafkiane non mancano di certo, anzi…direi che probabilmente il termine è proprio qua che ha origine.

Il protagonista di questo breve romanzo (circa 240 pagine) è Josef K., e resterà K. per tutto il corso del romanzo, infatti di lui sapremo solo il nome e la professione: procuratore finanziario. Tutto ha inizio una mattina, quando Josef K. viene svegliato da due guardie che lo accusano di un reato non specificato e gli dicono che dovrà presentarsi in tribunale a breve per la prima udienza.
Da lì inizia l’avventura di Josef K. che, intenzionato a difendersi da una non precisata accusa, farà di tutto per uscirne fuori pulito da queste accuse. Nel corso delle sue avventure si imbatterà inoltre in diversi personaggi, dalla severa ma gentile padrona di casa, all’inquietante pittore Titorelli che prima rassicurerà il nostro Josef dicendogli che tramite le sue conoscenze può aiutarlo e poi subito dopo affermerà che se il tribunale chiama, volente o nolente, non perderà la causa.
La fine è tanto assurda quanto allineata con il resto del romanzo, infatti pur essendo tragica viene raccontata con la stessa linearità e con lo stesso understatement con cui è caratterizzato il libro, e riesce a far passare un evento tragico come una banale formalità. Molto divertente anche il capitolo sul sacerdote, che forse è il più kafkiano di tutto il libro...

Il romanzo ha uno stile leggero e piacevole, ed è continuamente avvolto da un manto di incertezza, tipica dello scrittore, che fa sembrare ogni situazione assurda ma allo stesso tempo naturale. Inoltre ogni situazione viene sempre descritta e non descritta, e questo stato di aleatorietà accompagna tutti i personaggi del romanzo che ci vengono sempre svelati solo parzialmente.
Alla fine della mia versione del libro c’erano inoltre delle aggiunte postume dei vari capitoli (infatti quest’opera è parzialmente incompiuta) molto divertenti e piacevoli.
Insomma se avete letto Kafka non ve lo consiglio neanche perché probabilmente già vi sarete imbattuti in questo ottimo romanzo, se invece non lo avete fatto mi sembra un’opera perfetta per iniziare a leggere lo scrittore ceco.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    24 Giugno, 2016
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Come un cane!

Interpretato allegoricamente in un’infinità di prospettive, ora interconnesse ora contrapposte, questo romanzo incompiuto, pubblicato postumo nel 1925 dall’amico Max Brod e divenuto uno dei capisaldi della letteratura moderna, ben riflette le inquietudini che travagliavano Kafka. Vi ritornano infatti immagini e riflessioni che ricorrono altrove nella sua produzione, nonché nei diari ed epistolari; e si tratta di suggestioni di varia natura (religiose, esistenziali, filosofiche, letterarie, storico-sociali), il che ha favorito il pullulare di interpretazioni sostanzialmente equipollenti.

“Come può essere colpevole un uomo?”
Quando in una mattina qualunque Josef K., un comune impiegato bancario, viene inspiegabilmente arrestato da due uomini in divisa, presentatisi a casa sua senza alcun preavviso, ha inizio la sua affannosa corsa nel surreale. Una corsa tesa a scavare e a districarsi nelle profondità dell’enigma irrisolto della condizione umana. Sempre indefinita rimarrà la colpa di cui K. è accusato, eppur sempre presente a gravare sulle sue spalle. Sempre indefinita rimarrà la somma autorità del Tribunale, che sembra muovere i fili degli accusati senza ragione. Sempre indefinito rimarrà il ruolo degli altri uomini e delle altre donne che compaiono nel romanzo a dar il loro misterioso contributo alla vicenda di K. E sempre indefinito rimarrà lo stesso protagonista, sospeso tra le sue contraddizioni, mai indagate romanticamente ma trasparenti dalle sue azioni.

Nel suo forsennato e claustrofobico tentativo di ricondurre tutto alla razionalità e all’oggettività, K. rivela tutta la drammaticità della situazione degli uomini. Nel corso della storia, lo stupore dell’innocente viene costantemente a scontrarsi con la realtà di un’atavica colpa, la ricerca di un ordine col dispiegarsi dell’insensato. Il tentativo di difendersi dunque lascia gradualmente il posto alla consapevolezza di una condanna già pronunciata. Non c’è per l’uomo possibilità di un’assoluzione completa, preclusa dalla sua stessa razionalità che gli impedisce di abbandonarsi ad assoluti; al più egli può aspirare a un’assoluzione apparente o al differimento: e se la prima non è che il vano trionfo dell’effimero, dell’istante, in un eterno ritorno alla drammatica oscillazione del pendolo tra colpa e assoluzione, l’altro non è che quasi un pascaliano divertissement, una continua lotta contro i mulini a vento, altrettanto tragica nella sua umanamente nobile, ma pur sempre vana perseveranza. La spinta vitalistica, poi, che vuole anestetizzare la coscienza di K. non attecchisce mai del tutto, anzi viene in ultima analisi sconfitta dalla scelta di vita nichilistica; una scelta difficile, ma l’unica rimasta possibile a chi sa di esser già stato condannato a morire come un cane, per il solo fatto di esser nato uomo.

Lo stile essenziale e disadorno, a tratti faticoso a leggersi nell’apparente e grottesca insignificanza, è attentamente ricercato dall’autore, che giunge così a scarnificare anche con la parola l’esistenza. Non è lasciato il minimo spazio alla liricità o al soggettivo, tutto è volto alla spersonalizzazione e all’oggettività, in un vuoto razionale che raggiunge l’akme della sua sconfitta nella cruenta ed impietosa scena finale. Kafka prosegue sulla strada della modernità inaugurata dal romanzo di fine Ottocento legandola alla propria angoscia esistenziale. L’indugio talvolta espressionistico nelle descrizioni, nella gestualità o in motivi liberi prettamente allegorici marcano l’alterità tra il linguaggio e la vita, tra l’ordine e l’insensato. Il linguaggio non risulta mai adeguato a cogliere o a descrivere il reale sconosciuto: del resto per lo stesso Kafka risultò a lungo impossibile contemperare la sua vita personale con la sua vita da scrittore, vissuta come un mondo altro rispetto a quello reale ma mai del tutto distaccato.

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El Ghibli Opinione inserita da El Ghibli    05 Mag, 2015
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Situazione assurda

Uno dei capolavori di Kafka. Mi è piaciuta, molto, la capacità di introspezione ed è impressionante il modo in cui riesce a trasmettere l'angoscia del protagonista. Praticamente mi sono così immedesimata nel dramma vissuto da Josef K che ogni rigo che leggevo mi caricava di ansia. Un altro elemento che pervade tutto il romanzo è l'assurdità con cui viene accettato dal protagonista: il sistema legislativo, le accuse che gli vengono rivolte, il processo stesso. Un destino incomprensibile che si abbatte sul protagonista, sembra che non sia possibile alcuna assoluzione quindi l'unico rimedio è quello di rinviare la sentenza il più lungo possibile. All'interno del romanzo è stato inserito dall'autore, anche, un racconto da lui stesso scritto "Dentro la legge" e da lui stesso messo a confronto con il romanzo.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    04 Marzo, 2015
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UN MONOGRAMMA!

“Il processo” di Kafka, scritto a intervalli dall’autore fra il 1915 e il 1917 senza mia portarlo a termine, è uno dei “classici” che ogni tanto, in periodi diversi della tua vita, devi rileggere. E via via che gli anni passano ti accorgi che anche tu come il protagonista del romanzo, Joseph K. sei sempre più un semplice monogramma: avevi un cognome con vocali e consonanti ora sei solo più un suono, una voce flebile che si perde nel nulla. Già perché esattamente come nel libro, valori, persone, fedi, ideologie e speranze si dispongono attorno a te in una girandola grottesca ed assurda, in cui l’unica nota stonata sembri essere tu con la tua affannosa pretesa di capire, di spiegare, di cercare una logica: il motore della vicenda, l’accusa imprecisata mossa da un fantomatico tribunale al funzionario di banca Joseph K, personaggi ambienti e situazioni .riflettono infatti l’angosciante mancanza di senso nella quale venendo al mondo precipitiamo. Ci portiamo dietro una colpa ancestrale di cui abbiamo smarrito il ricordo oppure determina il nostro destino di vittime una divinità tanto imperscrutabile quanto malvagia? Il peregrinare dell’accusato fra sordide stanze, soffitte e ambigui avvocati è una penosa discensio ad inferos senza possibilità di riemersione. Eroi tragici, sostiamo fino alla morte davanti a una porta sbarrata, aprendosi per assurdo la quale, ne troveremmo infinite altre a precluderci la conoscenza della legge immodificabile e indiscutibile a cui siamo sottoposti. “Allegorie di cui qualcuno ha portato via la chiave interpretativa”, cosi definisce la critica la prosa kafkiana e le pagine dello scrittore ceco sono in effetti soprattutto la traduzione in uno stile algido e spietato di uno stato d’animo d’impotenza di fronte al dolore dell’esistere. Kafka non concede ai suoi eroi stralunati neppure il conforto della lirica e della poesia, eppure forse anche lui è vinto dalla pietà :chi è infatti colui che nella notte si affaccia a una finestra e pare protestare nell’ ultimo istante di vita di K.?

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    05 Ottobre, 2014
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La calunnia e la giustizia

“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato”.

Un incipit letterario tra i più conosciuti in assoluto, che consegna da subito al lettore tutte le coordinate del romanzo: l'innocenza, l'inconoscibilità di un'accusa che resta tuttavia incombente, la conseguente impossibilità di difendersi.
A Josef K., stimato funzionario di banca, viene annunciato di primo mattino il suo stato di arresto (il che non significa prigionia o arresti domiciliari: egli continua ad andare al lavoro ed a portare avanti, nei limiti di quanto gli consente il sapersi accusato, una vita sociale). Da quel momento, tuttavia, il peso del procedimento aperto a suo carico inizierà ad erodere gli spazi della sua vita ed a prenderne il posto (sino ad un finale della vicenda noto quanto il suo inizio).

Se c'è una ragione per cui, aprendo un buon dizionario d'italiano, sotto la lettera K si trova l'aggettivo “kafkiano”, bisogna ricercarla in questo libro.
“Il processo” è la storia della discesa all'inferno burocratico, di un'attesa che si avvita su se stessa e diventa perenne: l'individuo che viene stritolato nelle maglie della “non giustizia” accetta infine la consapevolezza che non potrà nemmeno conoscerne il motivo, giacché la legge, in quanto si autolegittima, disprezza la pretesa altrui di essere conoscibile. E' l'esatto contrario del principio per cui la giustizia è amministrata in nome del popolo: il manifestarsi al di sopra di ogni vita umana la rende in realtà (e paradossalmente) somma.
Di fronte a ciò, l'accusato non può che salire al patibolo rassegnato: se riuscisse a infliggersi la pena da solo di certo lo farebbe, per non incomodare oltre giudici e codici.
Dal punto di vista della costruzione narrativa, il talento di Franz Kafka non si esaurisce nel dipingere la vicenda, ma si estende al modo – scientifico e “claustrofobico” al tempo stesso – con il quale egli ci arriva. Il riferimento è ai tre dialoghi che Josef K. intavola rispettivamente con l'avvocato Huld (cui si affiderà per la difesa, e che poi solleverà dall'incarico), il pittore Titorelli e il commerciante Block (anche lui cliente dell'avvocato, ma da molto più tempo di Josef, per un processo che prosegue ormai da tempo immemore). Tali dialoghi spoglieranno la stessa vicenda del protagonista di ogni possibile riscontro: il discorso dell'avvocato, nel definire i rapporti tra il difensore dell'accusato e i protagonisti della procedura, sembra privare di senso il processo in sé; quello del pittore (addentro alle cose di giustizia, sol perché è il ritrattista ufficiale dei giudici di quel tribunale) spoglia di ogni significato la giustizia; infine, quello del commerciante, nel suo voler tratteggiare le “sorti del processo” in categorie, sottrae in realtà ogni senso al diritto di difesa dell'accusato.
All'uomo che si scopre privo di processo, di giustizia e di difesa, non rimane, ovviamente, che il destino.

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Mancini Opinione inserita da Mancini    01 Luglio, 2014
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Il non processo

Il Processo narra una vicenda che vede protagonista un funzionario bancario di nome Josef K. il quale nel giorno del suo 30º compleanno riceve la visita di due sconosciuti che lo dichiarano in arresto.
Di qui parte la discesa verso meandri sconosciuti della mente e della giustizia umana attraverso i quali è facile perdere sia l'orientamento che la fiducia stessa verso una risoluzione positiva la quale non verrà mai.
Ed è lì dove ci si aspetta che una normale e più volte sentita storia di giustizia o ingiustizia prenda il suo svolgimento che il lettore rimane interdetto nello scoprire che la narrazione segue un filo al limite del logico, colorandosi di tratti puramente tipici dello stile kafkiano.
E si passa quindi attraverso un "non tribunale" formato da un "non giudice" accompagnato da un "non pubblico"; il tutto sovrastato da un insolita e ancor più terribile mancanza: l'accusa.
Eh si, perché nessuno in questa storia si preoccupa di capire di cosa il povero Josef K. sia stato accusato, nemmeno lui stesso per il quale la voglia di auto difendersi è di gran lunga superiore a quella di conoscere il motivo per il quale lo si fa'.
A poco servirà la comparsa di alcuni personaggi che cercheranno di dare un aiuto al protagonista che ormai è spacciato e non ha alcuna possibilità di riscatto.
Il Processo è un romanzo che porta in sé i tratti tipici di un racconto onirico con un misto di desiderio di soluzione da una parte e accostamento illogico di elementi e personaggi dall'altra.
Ed è forse questo accostamento al sogno che lo rende in sostanza unico e a tratti divertente alleggerendo un po' quell'aria soffocante che emerge dalla descrizione dei luoghi e degli stati d'animo.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    20 Gennaio, 2014
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Claustrofobico incubo giudiziario

Una mattina come tante, mentre aspetta che gli venga servita la colazione, il procuratore di banca Josef K. riceve la visita inaspettata di due sconosciuti che lo dichiarano in arresto. Una faccenda quanto mai inverosimile, lui è innocente, non ha fatto niente di male e per di più non si capisce quali siano le ragioni di questo provvedimento. Sulle prime pensa si tratti di uno scherzo, di una burla grossolana organizzata dai suoi colleghi di lavoro per qualche ignoto motivo, forse perché quello è il giorno del suo trentesimo compleanno. Ma presto il protagonista capisce che c’è ben poco da scherzare: la questione, per quanto possa apparire paradossale, è estremamente seria e molto più grave di quanto sembri. Ecco quindi che, senza neanche riuscire a capire quale reato gli venga imputato, il nostro eroe si trova coinvolto in una vana ed estenuante lotta contro un sistema giudiziario torbido e ingarbugliato, una battaglia impari ed estenuante che logorerà le sue forze ed i suoi nervi portandolo ad una lenta alienazione e che non potrà che culminare in un tragico quanto ineluttabile epilogo. Kafka ci catapulta in un intrigo di paradossi e situazioni surreali, in un labirintico viaggio nei meandri della legge e della burocrazia nel quale l’uomo comune si muove con la stessa agilità e le medesime possibilità di salvezza di una mosca nella tela del ragno. L’autore è straordinario nel creare un’atmosfera sempre più cupa ed opprimente, portandoci al fianco del povero impiegato in basse soffitte dall’aria pesante, stanze buie e polverose dal clima irrespirabile, scale vertiginose, corridoi affollati, in una città costantemente battuta dalla pioggia, dal vento o dalla neve, tra viscidi e ambigui personaggi e con la sensazione di essere sempre spiati, additati, giudicati. Un vero e proprio incubo giudiziario a dir poco claustrofobico, che appare palesemente emblematico di quella che è la concezione pessimistica della situazione umana secondo Kafka. L’indefinibilità del tempo e dei luoghi in cui la storia è ambientata, la vaghezza delle colpe, l’indeterminatezza del potere e delle istituzioni sembrano studiate apposta per far si che questa spietata analisi non si possa circoscrivere né ad un determinato periodo storico, né ad una specifica regione, né tantomeno ad un particolare regime politico, ma riguardi la condizione esistenziale dell’uomo ovunque esso si trovi, in qualsiasi epoca esso viva e qualunque classe politica lo guidi. “…Con occhi ormai spenti K. vide ancora come i signori, guancia a guancia davanti al suo volto, spiavano l’attimo risolutivo. – Come un cane! – disse, e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere.

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LUCA DA CASIRATE Opinione inserita da LUCA DA CASIRATE    14 Settembre, 2013
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AFFANNOSA LETTURA

Lo sanno tutti: questo libro è un capolavoro.
Io abuso dello spazio mediatico non per lasciare delle vere recensioni (dacchè non ne ho le capacità e la competenza) ma delle considerazioni personali. Come post-it su un libro che lascio da leggere ad un amico.
E qui lascio, con un pizzico di frustrazione ma in completa onestà, un post per appuntare tutta la fatica che ho fatto per non lasciare a metà questo romanzo.
Già tanti hanno descritto in modo chiaro gli aspetti pregevoli (per chi li sa notare) dello stile di scrittura di Kafka e del senso filosofico della storia rappresentata, perciò, prima (ma anche dopo) la lettura del "Processo" è utile leggere quelle recensioni.
Invece io mi azzardo a lasciare questa recensione per tutti quelli che come me si troveranno a disagio fra le righe di questo romanzo, che è una storia dagli spazi claustrofobici, da atmosfere cupe, da scene tremende e grottesche, che avrebbe potuto anche conquistarmi ma è scritta con uno stile che mi ha spinto più di una volta ad abbandonarne la lettura.
Certo questo dipende da me.
Ma un dubbio mi è venuto: mi è sembrato come quando guardo film vecchissimi, magari ancora muti, che sono stati considerati capolavori. Roba interessante dal punto di vista storico, ma che non può più coinvolgermi artisticamente.
Poi però mi tornano in mente i "Promessi Sposi" che ho riletto qualche anno fa senza avvertire alcuna noia e mi pare che tutto quanto appena scritto lasci il tempo che trova ...
O forse no ...

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tante opere classiche e ne sa apprezzare il valore, anche quando sono dei veri e propri "mattoni"
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chicca Opinione inserita da chicca    08 Settembre, 2013
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Un viaggio

Leggere un romanzo di Kafka è un viaggio, certo bisogna portarsi un bel bagaglio e spesso risulta comunque insufficiente in quanto ogni volta che si ripercorre questo itinerario si scoprono sempre paesaggi nuovi...
Fuor di metafora direi che la genialità di questo autore sta nel creare atmosfere oniriche angoscianti e ansiogene e riuscire comunque a costruire una trama coerente che inchioda il lettore dalla prima all' ultima pagina.
Nel caso de " Il Processo" si tratta della storia di Josef K. , un giovane bancario di successo che una mattina si vede accusato di un delitto, da questo momento in poi la sua vita è tragicamente sconvolta, il giovane si trasformerà da irreprensibile cittadino modello in un colpevole pronto a varcare la soglia della legalità pur di sfuggire alla legge e al suo inappellabile giudizio.
La giustizia è descritta come un meccanismo complesso e inesorabile , che all'uomo non è dato conoscere, infatti tutti i mezzi di cui il protagonista può disporre falliscono.
Dal rapporto del protagonista con la legge derivano i molteplici temi presenti nel romanzo: la solitudine dell'uomo; l'impossibilità di realizzarsi in una dimensione di autenticità; la consapevolezza della sua condizione di escluso, di straniero.
La scrittura adoperata da Kafka è fredda, neutra, distaccata, il narratore è estraneo alla vicenda, non si lascia coinvolgere pur ponendosi nella prospettiva del protagonista e descrivendone tutti gli stati d'animo.
In poche parole ritengo che questo romanzo descriva perfettamente la nostra condizione di uomini sempre in balia di eventi e poteri al di sopra della nostra comprensione.
Sconvolgente, soprattutto alla luce del periodo storico in cui è stato scritto.

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Francj88 Opinione inserita da Francj88    15 Agosto, 2012
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Magnifico incubo

Il processo narra la storia di Josef K., un uomo di successo, che viene messo al corrente, un giorno qualsiasi e inaspettatamente che è in stato di arresto.. niente di straordinario si potrebbe pensare, se non per un piccolo dettaglio: il motivo è sconosciuto. Anche il signor K., come Gregor Samsa, il commesso viaggiatore trasformato in scarafaggio ne La metamorfosi, si trova improvvisamente, una mattina, a dover accettare un' assurda e ostile realtà che lo porterà giorno per giorno al logoramento. K. passerà dal voler combattere per scoprire i motivi del suo arresto, alla tormentata esistenza di un condannato che cerca di discolparsi..anche se non sa da cosa! Quella delineata da Kafka è una realtà estremamente negativa, sordida. Il protagonista si muove tra gente corrotta e viscida, assurdi tribunali. Il lettore è portato ad immedesimarsi in K. e così come il povero imputato, finisce per accettare la folle situazione in cui si viene a trovare come fosse un dato di fatto, non si chiede più quale possa essere l'accusa ma la si accetta impotenti. Almeno a me ha fatto quest'effetto. Mi sono sentita totalmente coinvolta e partecipe degli eventi. La lettura non è piacevole, mi spiego meglio, la sensazione che ho avuto nel leggerlo è stata di straniamento, ansia quasi e impotenza. E' un libro che mi ha coinvolta ma non è di certo una lettura facile nè leggera. Il processo è un libro cupo che, per le sensazioni che mi ha dato nel leggerlo, mi sento di associare a 1984 di George Orwell e a Gente di Dublino di James Joyce, in particolare per la sensazione di immobilità e impotenza che mi ha trasmesso. Lo stile è freddo ed essenziale, si tratta di un'analisi puntuale e disincantata del "marcio" del sistema burocratico e della società nella quale vive K.

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Capriluc Opinione inserita da Capriluc    13 Agosto, 2012
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L'impossibilità di agire

Con Kafka ci avventuriamo nei meandri dell’alienazione mentale, remissiva al controllo di un vettore, istituzione, o più specificatamente della collettività; anch’essa alienata da altri connotati esterni.
Il Processo, libro postumo dello scrittore praghese, pubblicato nel 1925, si presenta come un’esemplificazione della solitudine sofferta dall’individuo nei confronti della burocrazia.Joseph K., alterego di Kafka e protagonista della vicenda, percorsa da dialoghi che sfociano in una narrazione da teatro dell’assurdo, è processato e poi condannato per una colpa non commessa, ignota al tribunale stesso.Egli stesso cercherà di far luce nei confronti dell’accusa, vagando da stanze chiuse a luoghi vorticosi, da aprassia ideativa a impossibilità della confutazione giudiziaria.
Lo stile del libro è volutamente straniante, reso mediante la ricerca di un linguaggio spersonalizzante.Ecco che allora i personaggi divengono totalmente scarnificati, incapaci di un’espansione affettiva, i quali possono essere riconducibili alla cinematografia di David Lynch.Un buco nero circondato da una parete di specchio, dentro il quale diventa difficile lasciare spazio all’emozione, cancellata da un supplizio che crea spazi claustrofobici, labirinti della mente e soprattutto un evidentissimo spaesamento del proprio diritto di difesa nei confronti della società accusatrice.

Einaudi ci propone l’edizione tradotta da Primo Levi, quando il libro sembra offrirsi come un’allegoria alle dolorose sevizie inflitte agli ebrei durante il secondo periodo bellico che trascinò il mondo nel novecento.



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Il Castello, America, Memorie dal Sottosuolo.
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Efix Opinione inserita da Efix    22 Marzo, 2012
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Ricordo di un bacio mai dato

Partendo dal presupposto che commentare Kafka è come commentare uno di quei sogni che hai fatto la notte ma che al mattino poi non ricordi del tutto bene , penso che non ci sia da scrivere molto su questo libro anche perché le cose a cui ti fa realmente pensare non le scriveresti mai. Un dolore fortissimo dalla prima all'ultima pagina , un'ansia continua e interminabile , una tristezza paradossale , ma che bella tristezza ! Josef K. , il protagonista impiegato di banca , la mattina del suo trentesimo compleanno riceve la visita di due uomini sconosciuti che gli comunicano che è in arresto e che è iniziato un processo a suo carico. Da questo momento in poi Kafka non svende la sua arte al mercatino delle pulci dell'erotismo ma si abbandona all'assenza di desiderio , alla contemplazione da oggetto a oggetto , al riguardarsi in atteggiamenti osceni ." Il più grande pornomane, pornografo, è Franz Kafka, non è Sade. Va assolutamente sottratto all' Eros e restituito a quello che è: l'unico , il vertice del porno , da Adamo a voi."

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Little_Dolly Opinione inserita da Little_Dolly    27 Dicembre, 2011
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Nonsense!

è il primo libro di Kafka che leggo e non c'è che dire,pazzesco!
Lo stile non riflette l'angoscia che in realtà il racconto racchiude, ci lascia sempre in sospeso come se alla fine ci dovesse essere un lieto fine o comunque un calo di tensione narrativa.
La storia è ciò che di più assurdo ho letto dopo Lewis Carrol, in realtà non riusciamo mai ad arrivare veramente a capo della questione.
Gli spazi descritti sono claustrofobici e inquietanti così come i personaggi vari incontrati dal protagonisti ci scoraggiano e ci opprimono spesso senza una reale motivazione.
Il libro si sa rendere piacevole pur non essendo per nulla ameno.

Per apprezzare questo libro, però, bisogna avere un buon background letterario.

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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    05 Dicembre, 2011
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"Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K."...

Con lo stile semplice che gli è proprio, quasi con noncuranza, come se narrasse una piccola disavventura capitata ad un uomo qualunque in un giorno qualunque, Franz Kafka racconta l'incubo, l'angoscia, i passi insidiosi e inesorabili di qualcosa che si impadronisce della vita di un promettente impiegato di banca. Quello che all'inizio sembra essere solo uno scherzo di cattivo gusto, col passare del tempo si rivela un peso opprimente da cui è difficile liberarsi e che suscita vergogna. E' un dito puntato contro, un'accusa non meglio specificata contro la quale Joseph K., il protagonista, deve difendersi. Il tribunale che tratta la sua causa - lo stesso imputato non osa dirlo ad alta voce - si trova in un solaio, a cui si accede attraverso un labirinto di corridoi dall'aria irrespirabile. Nessuna certezza su ciò che è giusto o sbagliato fare, nessun appiglio che dia garanzie di affidabilità. Così, pur professandosi innocente, K. appare sempre più rassegnato al destino che giudici sconosciuti hanno deciso per lui. Nel libro c'è l'assurdo tipicamente kafkiano, che a volte fa persino sorridere, ci sono personaggi (fino a che punto coinvolti non è dato sapere) che se ne escono a sorpresa con frasi inquietanti, lasciando intravedere una verità che aleggia fin dalle prime pagine: la condanna, se non è già scritta, è quasi certa. Il finale è agghiacciante, un autentico pezzo di bravura. Qualcuno ha visto in quest'opera una premonizione della Shoah (lo scrittore boemo apparteneva ad una minoranza ebraica di lingua tedesca), ma è solo una delle chiavi di lettura di un romanzo che mette implacabilmente in luce le paure più profonde dell'essere umano.

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