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La porta degli inferi
 
La porta degli inferi 2009-12-29 21:11:59 Luigi Alviggi
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
Opinione inserita da Luigi Alviggi    29 Dicembre, 2009

La porta degli inferi

Laurent Gaudé, scrittore e drammaturgo francese (Parigi, 1972) – ci regala un romanzo a tinte forti, dalle emozioni struggenti e dalla straordinaria potenza immaginativa, moderna rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice (Neri Pozza, 2009 – pp. 224, € 16,00). Orfeo scese nell’Ade per riprendersi la moglie morta, impresa che gli riuscì commuovendo con il suo canto Persefone, la regina del luogo, ma fallì poi per sua colpa. Anche nel caso presente la discesa agli inferi è mossa da un immenso amore che vuol riscattare una tragica fine, e riguarda un padre e un figlio. Sono questi i protagonisti del libro, agenti ciascuno in una diversa finestra temporale a distanza di 22 anni.

L’Autore alterna nella narrazione queste finestre, per cui viviamo in parallelo le vicende del padre e del figlio, che torna sulla terra in virtù di una eccezionale impresa del genitore, e che può finalmente portare a termine la vendetta sul balordo che ne ha spento la vita da bambino. Questo figlio, singolarmente, si trova perciò ad avere due diversi padri e due nascite. L’ambientazione è una città di Napoli tetra ed oscura, noir, quale giusto sfondo alle vicende che quasi per intero si svolgono nottetempo.

Il padre si ritrova morto al fianco l’unico figlio che sta accompagnando a scuola, vittima di una pallottola vagante in una delle sparatorie malavitose che infestano di tanto in tanto questa metropoli. Lui e la moglie è come se morissero insieme con il piccolo Pippo, l’amore supremo della vita. Matteo è ridotto a rivivere cento, mille volte, quella maledetta mattina. Di fronte alla disgrazia improvvisa la mente si tortura ad andare a quegli istanti, accusandosi per il non aver saputo risparmiare o perdere quei pochi secondi che sarebbero bastati ad evitare l’appuntamento fatale. Giuliana resta paralizzata da un dolore che non le consente nemmeno di recarsi a piangere sulla tomba del figlio, e che sa partorire solo maledizioni, sempre più grevi, sempre più estese, che finiranno col far vacillare la sua ragione. Non sanno, i coniugi, sfuggire all’avvitamento progressivo di sofferenza e rimpianto per la sciagura assurda, e si ritrovano con l’esistenza spezzata senza rimedio.

Si rinchiudono nel proprio dolore che, pur nascendo da uguale motivo, si isola all’interno del singolo, divenendo un affare privato che estromette l’altro. Sono adesso soltanto due ombre che camminano a fianco senza alcun conforto reciproco. Nel primo “lungo” dialogo tra i due, Matteo ascolterà le parole che tracceranno il suo destino:



“Giuliana prese a colpirgli il petto, e quei colpi sfer¬rati tra i lamenti - un miscuglio di lacrime e maledizioni - non volevano ferirlo, ma scuotere qualcosa che in lui rima¬neva ostinatamente immobile. La lasciò fare pensando che si sarebbe calmata, ma poi lei disse quelle parole — pronun¬ciate con una rabbia ancora maggiore, parole bagnate di lacrime che lo colpirono molto più dei pugni che non smetteva di dargli:

“Riportami mio figlio, Matteo. Riportamelo o, se non puoi farlo, portami almeno chi l'ha ucciso!” “



Ed è sempre la moglie a mostrarsi la più lucida:



“Ci hanno ucciso, Matteo” aggiunse. “La morte è qui, dentro di noi, contamina tutto. L’abbiamo nelle viscere e non se ne andrà mai.”



Ed ecco Matteo darsi da fare per scoprire chi sia stato l’assassino di Pippo, ma non sarà questa la strada che saprà percorrere. La vendetta del padre, cercata e desiderata come mezzo di riscatto contro la malasorte, fallisce miseramente per la sua debolezza, e questo distrugge quel nulla di base comune rimasta tra i coniugi. L’amore reciproco, dopo qualche vano tentativo di ripresa, segue la sorte del figlio perduto.

Si separano e, dividendo le poche forze rimaste che sole avrebbero potuto costituire la leva con cui trarsi fuori dal dramma, si consegnano allo spettro funesto del continuo ricordare. Lui, un tassista, riesce a sopravvivere solo di notte, percorrendo strade deserte e dimenticando nella solitudine l’angoscia che lo pervade. La donna vivrà in un primo tempo nell’albergo in cui lavora. Quando, però, i fantasmi del rimpianto non lo consentiranno più, partirà alla ricerca delle radici, sperando che un ritorno alle origini possa salvarla dall’abisso pronto ad ingoiarla. Si dedicherà al servizio degli ammalati ed arriverà a rimuovere ogni ricordo di essere stata moglie e madre, consegnandosi finalmente all’oblio.

Sono pagine di grande potenza descrittiva e ricche di un’analisi sottile che indaga nell’animo dei coniugi svelando ogni risvolto del cupo rimuginare. Un periodare preciso ed incalzante - potenziato da uno stile che sa rendere partecipi, senza enfasi alcuna, di quanto narrato - mette a nudo le mille facce di un dolore troppo grande per essere gestito.

Fortuitamente, nel suo continuo girovagare per la città, Matteo entra in contatto con uno strano quartetto, un po’ traviato, un po’ mistico, un po’ esoterico: un barista che sa preparare un caffé per qualsivoglia necessità, un travestito, un prete dalle frequentazioni di derelitti invise al Vaticano, un professore omosessuale dalle strambe teorie e che sa molte cose su questo mondo e sull’altro:



“La società odierna, razionalista e arida, sostiene che i confini sono impermeabili, ma non vi è nien¬te di più falso... Non si è o morti o vivi. No davvero... È molto più complicato. Tutto si confonde e si sovrappone... Gli antichi lo sapevano... Il mondo dei vivi e quello dei morti si accavallano. Esistono ponti, intersezioni, zone grigie... Abbiamo soltanto disimparato a vederli e a sentirli…”



È con questi quattro che comincia a sconfiggere la sua solitudine, ed è sempre con loro che trova il coraggio di confessarsi:



“Oggi avrei dovuto uccidere un uomo” disse. “Toto Cul¬laccio. L'ho avuto sotto tiro, stava lì, dall'altra parte della mia pistola, e io ho abbassato il braccio. Non so perché. È l'uomo che ha ucciso mio figlio. Un bambino di sei anni, morto tra le mie braccia senza che potessi dirgli una paro¬la. Quando penso a mio figlio, alla sua vita spezzata, quan¬do penso alla mia che si trascina inutilmente, non capisco cosa significhi tutto ciò. Il mondo è piccolo e io sbatto con¬tro muri che mi straziano la carne.”



I quattro lo comprendono, lo rispettano, lo aiutano, semplicemente accettandolo. Poi, come fosse nella natura delle cose, dalle parole Matteo, dato l’accaduto e vistosi incapace di soddisfare una richiesta della moglie, vuole impegnarsi a soddisfare l’altra e dunque passare all’azione, dichiarata possibile dalle parole e dalle carte squadernate con foga dal professore. L’impresa pare a portata di mano. Il prete, vicino alla fine, ha anch’egli voglia di affrontare il mondo per lui prossimo a dischiudersi. Saranno loro due che – attraverso una porta d’ingresso dimenticata nella zona del porto – entreranno nell’aldilà. Qui non mancherà l’attraversamento del classico Stige e, tra la folla immensa di anime in pena, affronteranno avventure di vario genere in scenari pienamente adeguati. Per alcuni versi sembra, nelle pagine sul mondo dei morti, respirare un’atmosfera dantesca.

Alla fine il padre, guidato dal prete, riuscirà a trovare nella calca il figlio cercato, ma i problemi non sono terminati:



“... presto rag¬giunse suo figlio. Il bambino alzò le braccia perché lo solle¬vasse contro di sé - ma in quel momento le ombre gli furo¬no di nuovo addosso. Non potevano fare nulla contro l'uo¬mo in carne e ossa, però potevano spingere via l'ombra di Pippo. Ognuna cercava di prendere il posto del bambino. Il piccolo fu assalito, afferrato da mille braccia, graffiato da unghie avide. Matteo cercava di fargli scudo con il proprio corpo. Teneva il bambino stretto a sé ma l'assalto dei tra¬passati sembrava non finire mai, e lui si ritrovò nel bel mezzo di una folla scatenata. Non sapeva cosa fare. Se aves¬se perduto Pippo, era certo che non l'avrebbe più rivisto. Guardò il viso impaurito del figlio. In quel momento, tutto scomparve. Non era più nel cuore degli inferi, assalito dai morti. Aveva appena ritrovato suo figlio, uguale a quando l’aveva abbandonato sul marciapiede di quel vicolo male¬detto. Negli occhi del ragazzino c'era lo stesso terrore. Allo¬ra tutto si confuse. Aveva l'impressione di rivivere la scena dell'incidente. Per la seconda volta, suo figlio alzava su di lui uno sguardo supplichevole. Per la seconda volta, si sen¬tiva impotente ad aiutarlo. Si ribellò, ebbe come un singul¬to di rabbia. I muscoli si tesero. Non poteva fallire una se¬conda volta e lasciar accadere le cose con il loro orribile se¬guito di tristezza. Non poteva essere arrivato fin lì per poi andarsene senza il suo bambino.”



Al termine del lungo peregrinare, e di nuovo vicini alla porta del regno, l’indiscussa Signora del posto esigerà il suo scotto e, a fronte di due resurrezioni, pretenderà un’anima in cambio prima che il viaggio si possa concludere per i superstiti. Dei tre uno dovrà forzatamente sacrificarsi. E non basta, il riaffiorare alla superficie dei viaggiatori viene a coincidere con lo spaventoso terremoto del novembre ’80, per cui appare che il tributo pagato in termini di vittime per l’irrispettosa violazione sia molto maggiore.

Per chi torna indenne nell’al di qua, potrà iniziare la nuova vita, e con essa compiersi tutto quello che il povero Matteo non era stato capace di concludere, fino allo schiudersi della realtà su orizzonti del tutto inattesi dove la vita vuole prendersi la rivincita contro la sciagura alla base di tutti gli sconvolgimenti narrati.

È un messaggio di speranza e di apertura verso un futuro meno cupo quello che conclude questa narrazione, dai tratti indubbiamente molto originali e decisamente trascinanti per l’attento lettore.

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