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Marina di Carlos Ruiz Zafòn
Carlos Ruiz Zafòn ha scritto questo romanzo anticipando quelli che sarebbero stati i topos comuni agli altri due grandi scritti di successo: “L’ombra del vento” e “Il gioco dell’angelo”: la Barcellona, gotica, ammantata dal mistero del suo passato, le atmosfere magiche, gli intrighi che creano aspettative nel lettore. Certo aver letto Marina, dopo i due precedenti, il romanzo se ne svantaggia perché abituati al tipico linguaggio avvolto di enigma e sorpresa, perde tanto della sua autenticità. Sembra tutto già letto e conosciuto prima, si anticipano le mosse investigative ed espressive dell’autore, la risultanza è una tiepida piacevolezza scevra di quel sentimento di trepidazione e sospensione dell’Ombra del vento, in particolare. Trait d’union dei tre romanzi è un protagonista, ragazzo impelagato in storie più grandi di lui, con lo stesso amore per la bellezza, la conoscenza e una sorta d’ingenuità d’animo in contrasto netto con i fatti in cui è coinvolto. Si tratta di Oscar Drai, un giovane trentenne che rievoca un periodo della sua vita quando studente quindicenne studiava al collegio di Vallvidrera a Barcellona. “Era la fine degli anni ’70 Barcellona era un’illusione di vicoli e viali in cui si poteva viaggiare a ritroso nel tempo oltrepassando la soglia di una portineria o di un caffè. Il tempo e la memoria, la storia e la finzione, si fondevano in quella città stregata come acquarelli sotto la pioggia”. Fu lì…così l’incipit del romanzo. Conoscere una giovane ed enigmatica fanciulla d’altri tempi come Marina, dalla bellezza incorporea e delicata, portatrice di un dolore nascosto, suo padre, il pittore German e la defunta e rimpianta moglie Kirsten sconvolgerà la sua vita; sarà un percorso di maturazione e di passaggio verso l’età adulta. Il mistero della scomparsa di Kolvenik, di sua moglie Eva e di altri oscuri personaggi connotati da una forte carica fiabesca e surrealistica contornano tutta la vicenda. Siamo nei meandri di una città che nasconde nel suo ventre segreti di un passato mitizzato. Le figure così ammantate di misteriosa aura fluttuano sospese ed evanescenti nella mente del giovane Oscar e la realtà è un sogno ad occhi aperti. Le antinomie tra realtà e immaginazione, tra amore e odio, tra bellezza ed orrore sono i tratti distintivi della materia narrativa di Zafon, le similitudini enfatiche percorse da un senso lugubre e sepolcrale, il fascino per l’ignoto e, spesso, il dolore della scoperta di ciò che non vorremmo. Segni del destino ricorrenti trascinano i personaggi verso confini inconoscibili.
Qua e là Zafòn fa dire ai suoi personaggi frasi di saggezza come perle “rare” tipo: “Dipingere è scrivere con la luce. Innanzitutto devi imparare il suo alfabeto; poi la sua grammatica. Solo allora potrai avere stile e magia”. “La bellezza è un soffio rispetto al vento della realtà”. “Se la gente pensasse un quarto di quanto parla, questo mondo sarebbe il paradiso”. “La verità non si trova, è lei che trova noi . “Ricordiamo solo quello che non è mai accaduto perchè le cose reali succedono solo nell’immaginazione”. Queste trame, così coinvolgenti, ricordano certi romanzi ottocenteschi ricchi di colpi di scena che si prestano a traduzioni filmiche, perché Zafon sa rendere visive le descrizioni che scrive come sequenze cinematografiche. Sembra di essere dentro il film mentre si legge... quella polvere nebulosa che si posa su palazzi e cose abbandonati dall’incuria del tempo, quei silenzi sinistri rotti da impercettibili rumori di sottofondo e creature che emergono dal nulla e al nulla ritornano. Zafòn rispolvera il passato e ce lo presenta trasfigurato dalla memoria e in una commistione di fantasia e vero. Un romanzo godibile, da lettura veloce e ininterrotta, dallo stile ampolloso e, a volte, stucchevole, un puro romanzo d’evasione: e forse, non è poco.