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Orfeo
 
Orfeo 2025-01-13 14:28:09 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Gennaio, 2025
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LIBERARSI DEL TEMPO E SENTIRE IL SUONO DEL FUTURO

“La musica predice il passato, ricorda il futuro. Ogni tanto la differenza sfuma e nel semplice dono unico di un suono circolare l’orecchio risolve l’astruso crittogramma. Un solo ritmo persistente, presente e perenne, e sei libero. Qualche altra misura, invece, e il manto del tempo ti si richiude intorno.”

Leggendo “Orfeo”, il cui titolo fa ovviamente riferimento al cantore della mitologia greca capace di piegare al suono della sua lira gli animali e la natura, mi è saltato agli occhi ad un certo punto della storia un curioso parallelo con “Il passeggero” di Cormac McCarthy. In entrambi i romanzi infatti i protagonisti sono dei fuggiaschi, ricercati dalle autorità senza che praticamente vi sia una ragione plausibile, la fuga costituendo quasi una condizione ontologica dell’esistenza di coloro che sono stati in passato due talenti precoci e parzialmente inespressi nella musica e nella scienza. Non solo, ma entrambi i libri, i quali peraltro sono sotto la maggior parte degli aspetti diversissimi tra loro, sono anche dei gialli mancati. Se nel caso de “Il passeggero” il MacGuffin è palese (la scomparsa di un passeggero dall’aereo precipitato in mare), in “Orfeo” la questione è più ambigua: l’incriminazione per bioterrorismo di Els è uno spunto abbastanza risibile (utile tutt’al più per polemizzare con la deriva autoritaria dell’America post-11 settembre, con l’emanazione del Patriot Act che, con il pretesto di proteggere una nazione in preda al panico, ha limitato non poco le libertà individuali dei suoi cittadini), ma per tutto il libro il lettore si interroga inevitabilmente sui motivi per cui il compositore d’avanguardia, il musicista sperimentale, l’insegnante immerso a tempo pieno negli spartiti, sia potuto diventare agli occhi delle forze dell’ordine e della pubblica opinione il pericoloso terrorista Bach Biohacker. “Orfeo” infatti alterna in continuazione, come è tipico dei romanzi di Powers, il passato e il presente, ma le due storie (da una parte la vita di Els che attraversa pieno di ambiziose speranze l’intera musica del ‘900, sacrificando amicizie ed affetti al suo scopo di inventare dei suoni capaci di aprire la serratura segreta del mondo, dall’altra il disordinato vagabondare di Els, finito su tutte le prime pagine dei giornali e ricercato dall’FBI) sembrano procedere in maniera parallela e non convergente. La spiegazione del mistero arriva solo nelle pagine finali del libro, quando un Els disilluso, che sembra aver perso la fede nella sua arte e addirittura inizia a soffrire di una specie di amusia, non riuscendo più a provare piacere nell’ascoltare la musica (“ascoltare la musica era come guardare uno spettacolo floreale con gli occhiali da sole”), all’improvviso comprende come tutto nel mondo possieda una armonia, come la materia sia impregnata di ritmi e melodie, come l’intero cosmo sia un immenso coro segreto. I suoi giovanili studi scientifici gli fanno capire che la musica si può ricavare da qualsiasi cosa: “fughe dai frattali, un preludio estratto dalle cifre del pi greco, sonate scritte dal vento solare”. Già ventitré anni prima “Canone del desiderio” ci aveva affascinato con le sorprendenti e quasi mistiche analogie che legavano le Variazioni Goldberg di Bach al DNA. Ora, in “Orfeo”, Powers rafforza vieppiù questo concetto, facendo innamorare il protagonista quindicenne della chimica, in quanto “il linguaggio schematico di atomi e orbitali aveva una logica comune soltanto alla musica” e “la simmetria nascosta nelle colonne della tavola periodica aveva un che della maestosità della Jupiter”. Diventato vecchio e folgorato dalla scoperta della musicalità delle cose, Els decide quindi di lanciarsi in un esperimento folle e azzardato, quasi una sorta di avanguardistica “biocomposizione”: prova cioè a inscrivere la sua musica nel DNA di microorganismi, le sue canzoni nel codice genetico dei batteri, dando loro la possibilità di sopravvivere nel tempo, per l’eternità, “musica per la fine del tempo” da lanciare “nel lontanissimo futuro, inascoltata, sconosciuta, ovunque”. E’ un progetto prometeico, una hybris destinata alla spietata repressione da parte delle autorità (è la casuale scoperta del laboratorio casalingo di Els a farlo scambiare per un terrorista), in quanto gli dei non permettono che qualcuno si innalzi al loro livello. E’ però anche l’opera migliore di Els, che, dopo aver aspettato per tutta la vita una rivoluzione musicale che aveva già vissuto lasciandosela sfuggire, riesce infine a realizzare l’utopia per eccellenza, la libertà suprema, quella di innalzarsi in una dimensione sovratemporale, eterna, con una musica capace di resuscitare i morti, ripristinare le cose perse e fermare il tempo.
Si può dire a ragion veduta, senza tema di venir accusato di blasfemia, che Powers è il Proust della nostra epoca. In tutte le sue opere i personaggi hanno sempre una titanica ambizione, che non è tanto quella di recuperare, come nella “Recherche”, un elegiaco passato perduto, quanto di annullare il presente, il passato e il futuro, e di raggiungere una sorta di tempo immobile, al riparo da qualsiasi contingenza storica. E’ per questo che la musica, la chimica, la biologia sono così importanti, perché sono una scorciatoia per il sublime, per l’iperuranico, per l’eterno, in grado persino di “ingannare il corpo facendogli credere che abbia un’anima”. Già ne “Il tempo di una canzone” Powers aveva detto che “il tempo non scorre, ma è. In un mondo così, tutte le cose che saremo o siamo stati le siamo”. La musica è questo luogo cristallizzato per eccellenza, dove il tempo si può arrestare, anche se solo per lo spazio di qualche battuta. “Il suo non è tanto un anticipare quanto accadrà, ma un ricordarlo”. E in “Orfeo” aggiunge, sottolineando questa trascendente circolarità, che “la musica predice il passato, ricorda il futuro”. Gli aneddoti di Messiaen, che scrive ed esegue il suo quartetto nel lager nazista in cui è rinchiuso (“fra trecentomila prigionieri io ero forse l’unico a non essere prigioniero”) e di Sostakovic, che compone la sua quinta sinfonia facendosi beffe del regime di Stalin che lo aveva messo all’indice per il suo formalismo e le sue dissonanze (tagliatemi le mani, e continuerò a scrivere musica con la penna stretta tra i denti”), sono l’esempio cui Els si appoggia per sostenere la sua concezione di una musica che possa concedere all’ascoltatore di “liberarsi del tempo e sentire il suono del futuro”. Nel suo disordinato peregrinare per l’America, da Est a Ovest, Els diventa quasi l’incarnazione di Harry Partch, il musicista vagabondo, visionario, profetico, inventore di nuovi, eccentrici strumenti, “convinto che la salvezza della musica richiedesse di dividere un’ottava in quarantatré parti”, anziché nelle canoniche dodici. Els libera la musica dalla sua prigione fatta di tasti bianchi e neri, e, in un finale davvero commovente, realizza in extremis il sogno di una vita, ossia “il battere di un po’ d’infinità”.
“Orfeo” non è soltanto un romanzo sulla musica, anche se Powers ci accompagna insieme al suo appassionato protagonista attraverso gran parte della musica del ‘900, da Mahler e Bartok, giù giù fino a Ives, Boulez, Cage e Riley. Esso è, anche e soprattutto, un’opera intimamente, profondamente musicale. Anche chi, come me, sa poco o nulla di note e di ottave, di accordi in maggiore o in minore, di toniche e dominanti, di scale e di fughe, riesce a cogliere la bellezza e la poesia di una prosa sempre di altissimo livello, ispirata e geniale, come quando, parlando de “Il clavicembalo ben temperato” di Bach, Powers scrive che “le linee caleidoscopiche esplodevano nella testa di Peter come un groviglio di scale in un labirinto di Piranesi”, oppure, a proposito di una canzone composta da Els per la moglie, “Il motivetto irresistibile e accattivante, come una nuvola livida soffiata da una brezza di giugno, si lasciava dietro una fascia azzurra che catturava il cuore e lo sollevava verso una prospettiva a volo d’uccello delle cose future. La canzone, soltanto la canzone, il suo enigma, il calore e il desiderio. L’eternità in tre minuti”. Powers è secondo me l’unico autore in grado oggi di far assurgere la musica ai più alti livelli della letteratura, e forse solo la scrittura “musicale” di Thomas Mann (che intendeva il romanzo come un insieme di melodie e di voci che lo scrittore, come in un concerto, assembla e dirige, privilegiando, più che la consequenzialità logica del testo, i suoi aspetti ritmici e musicali) può stargli alla pari. Insieme a “Il tempo di una canzone”, “Orfeo” forma un ideale, impareggiabile dittico sulla musica, il quale, se si aggiunge anche “Canone del desiderio” (in cui è però preponderante la componente scientifica), diventa addirittura una trilogia, in cui l’autore americano raggiunge la perfezione della sua arte, concludendo una fase formidabile della carriera che, a mio avviso, si fa di gran lunga preferire a quella “ecologista”, anche se è proprio quest’ultima, grazie al premio Pulitzer assegnato a “Il sussurro del mondo”, che gli ha finalmente dato la meritata notorietà presso il grande pubblico mondiale.

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Richard Powers: "Il canone del desiderio" e "Il tempo di una canzone"
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Vedo che lo consigli a chi ha letto "Il tempo di una canzone", libro che non solo ho letto ma anche apprezzato molto e amato.
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