Dettagli Recensione
Universo di solitudini e silenzi
«Solo che… di recente mi chiedevo se avere tutti i bisogni materiali soddisfatti fin dalla nascita sia stata una cosa positiva, per noi. Ho l’impressione che ci sia mancato il desiderio, l’impulso verso le cose. Verso la ricerca, come mi piace chiamarla. Quando i genitori o i nonni hanno già cercato e conquistato, alle generazioni successive cosa resta da fare?»
Avvicinarsi a Liz Moore significa sempre intraprendere un viaggio non solo nella storia ma anche in noi stessi. Ogni sua narrazione è una storia unica ricca di emozioni, riflessioni e crescita. Tanti i temi che tratta, mai uguali, sempre diversamente introspettivi e magnetici. Ogni suo titolo è un viaggio all’interno di un differente mondo e con differenti prospettive.
Ne “Il dio dei boschi” ella ci propone un testo che già dalla sua struttura emerge per la complessità. In primis è composto da due spartizioni temporali, una prima ambientata nel 1961 e una seconda ambientata quattordici anni dopo e cioè nel 1975. Qui conosciamo un bambino, Bear, e una adolescente, Barbara, due fratelli, accomunati da un luogo e da una sparizione. Abbiamo ancora una madre, Alice, che vive nel dolore e che si anestetizza bevendo. Prima un bicchiere, poi due, poi chi più ne ha più ne metta. E se all’inizio questo concedersi un bicchiere è un modo per sopravvivere anche alle apparenze a cui si sente forzata per convivere con il marito e il suo mondo, poi diventa un modo per vincere il male che è dettato dalla perdita e la depressione. Ella deve conservare la reputazione della famiglia, non può far scomparire il contesto sociale in cui si ritrova.
D’altra parte, i Van Laar sono sempre vissuti tra privilegi e ricchezza. Tutti dipendono da loro e a loro si rivolgono sottovoce. Sono i fondatori del campo estivo di Camp Emerson, sono gente abbiente che frequenta locali e ambienti altolocati, famiglie più che benestanti di Manhattan e del New England, hanno un ruolo d’onore nella vita degli abitanti di Shattuk anche perché è grazie a loro che il paese ha una entrata economica.
Barbara Van Laar ha un carattere ribelle e sta attraversando una di quelle fasi della vita in cui accettare il cambiamento e comprendere il senso del vuoto, è difficile, per non dire impossibile. È l’estate del 1975 quando riesce a convincere i genitori a frequentare il campo estivo. Ed è sempre l’estate del 1975 quando il suo letto viene trovato vuoto. Di lei nessuna traccia, nessun segnale, nessuno motivo che possa far dedurre alcunché della sua sparizione. Tracy, che in quel periodo le è stata accanto, sa e non sa. Sa che ogni notte si alzava per un motivo specifico, sa che la ragazza nascondeva qualcosa ai più grandi. Ma sa anche che non può e non deve parlare. Un fatto che rimanda al 1961, alla scomparsa di Bear, il fratello. Al tempo le indagini si conclusero con un buco nell’acqua non portando a nulla.
Tocca a Judita Luptack far luce sul mistero. Perché per scoprire di quel che è successo nell’oggi è forse necessario tornare nello ieri, aprire il vaso di pandora, far luce su quella rete di intrecci, rancori, depistaggi, trame oscure, silenzi che regolano le dinamiche della società.
«Alice fece come le era stato detto. Certe volte aveva la sensazione che la sua vita consistesse nell’obbedire agli ordini di chi si trovava in una posizione superiore alla sua, o nell’impartirli ai suoi subordinati. Solo quello che aveva con suo figlio era un legame che esisteva al di fuori di qualunque gerarchia di potere. Lo amava e basta, senza condizioni o complessità. Ed era certa che lui la amasse allo stesso modo.»
“Il dio dei boschi” definisce e delinea un mondo fatto di solitudini e silenzi e dove il mistero del thriller ben si coniuga con l’aspetto più introspettivo ed emotivo. Al tutto si somma una perfetta caratterizzazione dei personaggi, e nello specifico di Barbara, TJ, Tracy, Judy, Bear, Alice, Louise etc, nonché temporale. Viene magistralmente descritta anche quella che è una società tipicamente maschilista e retrograda, una società dove spesso i destini sono già scritti senza possibilità alcuna di revisione.
Altro grande carattere degno di nota della Moore è dato dal fatto di essere riuscita a costruire una serie di microstorie in cui ciascuna ricompone un puzzle più grande. Ciascuna si interroga su un diverso aspetto e passo passo ricompone il quadro. Ci mostra un mondo dove verità scomode si fondono e intrecciano con altrettante verità scomode e con la consapevolezza che spesso nascendo ricchi si perde la passione, il desiderio, la conquista anche delle piccole cose. La propria reputazione diventa una ossessione vera e propria, una maschera imprescindibile a cui non ci si può sottrarre. E se si cerca di evadere? Di scappare da questa gabbia dorata, di ribellarsi a questa e a quel che essa determina e comporta? E se si decide di vivere il sentimento fregandosene della maschera, fregandosene di quel che viene imposto? Quali sono le conseguenze della propria ribellione a un mondo precostituito?
«Baciare qualcuno – qualcuno che vuoi baciare, intendo – è come vivere dentro la canzone più bella che tu abbia mai sentito. È la stessa sensazione.»
“Il dio dei boschi” si interroga su questo e molto altro ancora. Tra privilegi, potere, silenzio e soprattutto solitudini, si dipana un thriller psicologico che non delude le aspettative e che coinvolge e trattiene il lettore tra le sue pagine.