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DI CANI, SVASTICHE E SPAVENTAPASSERI
“C'era una volta un cane, si chiamava Perkun e apparteneva a un garzone mugnaio lituano che aveva trovato da lavorare nell'estuario della Vistola. Perkun sopravvisse al garzone mugnaio e generò Senta. La cagna Senta, che apparteneva a un mugnaio di Nickelswalde, partorì Harras. Il cane da monta, che apparteneva a un padrone falegname di Danzica–Langfuhr, coprì la cagna Thekla, la quale apparteneva a un certo signor Leeb, che morì nei primi mesi del quarantadue, poco dopo la cagna Thekla. Il cane Prinz tuttavia, generato dal cane da monta Harras e dalla cagna Thekla, fece storia: fu regalato al Führer e cancelliere per il suo compleanno e finì, quale cane prediletto, nelle attualità cinematografiche.”
Il brano riportato in esergo, che ricorda vagamente le genealogie di biblica memoria, è a mio parere perfettamente rappresentativo del modo in cui Gunter Grass ha concepito quel ciclopico, smisurato e ambiziosissimo romanzo che è “Anni di cani”. Così come, in maniera apparentemente impassibile e anodina, da personaggi del tutto marginali (addirittura dei normalissimi cani, appartenenti a mugnai e falegnami) si arriva direttamente, saltando a pie’ pari ogni barriera logica, alla più alta carica della nazione, quella del Fuhrer in persona, allo stesso modo la storia comune e la Storia con la iniziale maiuscola si intrecciano senza soluzione di continuità, e il racconto di amicizia e tradimento di Amsel e Matern nell’arco di tre decenni diventa l’occasione per narrare, in maniera intenzionalmente allegorica, l’epopea di un’intera generazione. Simbolico è ad esempio il personaggio di Amsel, la cui natura cristologica si rivela in occasione della sua “risurrezione” dal pupazzo di neve in cui lo hanno imprigionato le SA e della sua nuova vita nei panni del non più goffo e pingue, bensì affascinante e carismatico, Haselof alias Brauxel alias Boccadoro. Simbolico è anche Matern, il quale incarna l’uomo comune, che cambia fede e bandiera a seconda delle circostanze (“Ero rosso, ho vestito bruno, passai al nero”), vittima in buona fede del fascino manipolatorio delle ideologie. Perfino il cane Prinz può essere visto come l’emblema del popolo tedesco, pronto ad abbandonare opportunisticamente il nazismo poco prima del suo tracollo per cercare un nuovo padrone da servire con cieca fedeltà. In “Anni di cani” Grass è capace di passare dalla ordinaria quotidianità ai grandi avvenimenti della Storia in pochissime righe, come quando una banale scommessa fatta per vincere la noia porta alla scoperta che la maleodorante montagnola vicino alla postazione della contraerea, circondata dal filo spinato, è fatta di ossa umane, svelando all’improvviso l’indicibile orrore di un campo di sterminio, dove la gente scompare senza lasciare traccia di sé. Il nazismo è sempre sullo sfondo, defilato e quasi inghiottito dal vorticoso avvicendarsi delle vicende individuali, ma esso è nondimeno l’inesorabile convitato di pietra con cui tutti, prima e dopo la fine della guerra, si trovano costretti a fare i conti. Quella del romanzo di Grass è infatti un’analisi implacabile e spietata della rimozione collettiva che la società tedesca del dopoguerra ha operato nei confronti dell’esperienza nazionalsocialista. Matern dopo la fine del conflitto gira in lungo e in largo la Germania, con il proposito di “denazificarla” e di vendicarsi di tutti coloro che lo hanno ingannato, umiliato e tradito negli anni precedenti, ma trova solo gente che si è scrollata di dosso tutte le responsabilità e i sensi di colpa, che vuole solo dimenticare e nascondere negli armadi gli scheletri del passato, cosicché la sua caccia rancorosa ai colpevoli diventa una donchisciottesca lotta contro i mulini al vento (“A cosa gli serve la testa fatta di ferro battuto se le pareti da sfondare sono state costruite con la precauzione di renderle permeabili? E’ una professione: spingere porte girevoli? Fare buchi nel formaggio svizzero? Fare a pugni con le ombre? Piantare chiodi dentro nemici di gommapiuma?”), e l’unica meschina soddisfazione che alla fine riesce a togliersi, nel nuovo Stato “lardellato di vecchi nazisti”, è quella di spargere intenzionalmente lo scolo tra le loro mogli. Il fatto è che egli stesso è compromesso con il nazismo non meno che gli altri ex membri del partito o ex ufficiali della Wehrmacht, e la sua voglia furiosa, manifestata con il suo irrefrenabile digrignamento dei denti, di regolare i conti con loro nasce più dal tentativo di cancellare la vergogna per avere egli stesso partecipato anni prima al feroce pestaggio dell’amico Amsel, colpevole solo di essere ebreo da parte di madre, che da un reale intento palingenetico. Ad un certo punto, verso la metà degli anni Cinquanta, vengono immessi sul mercato dei fantomatici “occhiali della conoscenza” i quali, una volta indossati dalle nuove generazioni, permettono loro di smascherare il passato dei loro genitori (“Nella doppia lente degli occhiali per l'identificazione del padre, si ripetono gli atti di violenza, commessi tollerati provocati undici dodici tredici anni fa: omicidi, spesso a centinaia. Complicità con. Fumare sigarette e stare a guardare mentre. Assassini approvati decorati acclamati. I motivi di omicidio diventano leit-motiv. […] Ogni padre ne ha almeno uno da nascondere”). Nonostante ciò, non avviene nessuna rivolta dei figli contro i loro genitori, come si sarebbe potuto supporre: come prima i padri e le madri avevano conservato i loro segreti fin dentro i sogni, così i figli continuano, chi per pudore, chi per paura di vedere associata la propria figura a quella del familiare, a mantenere la più totale discrezione. “Questo comportamento diventa sempre più la principale regola di vita di tutti gli interessati: dimenticare! Sui fazzoletti, sugli asciugamani, sulle federe dei cuscini e nelle fodere dei cappelli vengono ricamati motti: Ogni uomo deve saper dimenticare. L'oblio è qualcosa di naturale. La memoria dovrebbe essere abitata da ricordi piacevoli e non da insopportabili fetori. Perciò ognuno deve avere qualcosa in cui credere: per esempio Dio; o chi non può in lui, creda nella bellezza, nel progresso, nella bontà dell'uomo o in qualche altra idea. "Noi, qui, in Occidente, crediamo fermamente nella libertà, da sempre." E allora: attività! L'oblio come operosità produttiva.” La satira di Grass è feroce e non risparmia neppure il “wirtschaftswunder” il miracolo economico tedesco, visto come un processo nato dalla necessità di cancellare le ignominiose responsabilità dei potentati economici e finanziari per essersi rassegnati con stolida acquiescenza all’ascesa di Hitler al potere. Lo scrittore tedesco lancia a più riprese le sue frecciatine contro le varie Krupp, Siemens, Bayer e Mercedes, i cui successi vengono beffardamente attribuiti ai magici vaticini dei vermi della farina del mugnaio Matern, al cui cospetto si recano i loro dirigenti per avere anticipazioni sulla congiuntura economica e consigli sulle politiche industriali da intraprendere, così come contro il filosofo Martin Heidegger, l’autore di “Essere e tempo”, il cui filo-nazismo e il cui nichilismo metafisico vengono apertamente presi in giro nel personaggio di Stortebeker, che parla un linguaggio ridicolmente filosofico anche nelle occasioni più prosaiche della vita quotidiana (come quando commenta la cattura di un topo affermando: “Il topo si fa essenza anche senza il topico, ma non può esserci topico senza il topo”). L’ironia dissacratoria di Grass, che non risparmia niente e nessuno, è tanto più spietata quanto più imbocca la strada del surrealismo. Nel finale, ad esempio, si scopre in cosa consiste l’industria messa in piedi da Amsel-Brauxel nelle viscere di una vecchia miniera di plutonio: la creazione di un universo sotterraneo di spaventapasseri automatizzati che riproducono tutte le emozioni umane e tutti gli aspetti, anche quelli più inquietanti e controversi, della società del tempo. Questi spauracchi sono lo specchio deformato, ma intimamente fedele, di un mondo che, mentre si atteggia a evoluto, libero e democratico, continua ad essere impastato di autoritarismo, di opportunismo e di crudeltà, tanto è vero che Matern, condotto a visitare la miniera dall’amico, esclama a più riprese: “Ma è l’inferno, qua dentro!”. Questi spaventapasseri, come spiega Brauxel con dovizia di particolari, vengono venduti in grandi quantità in tutto il mondo, e la loro inesorabile diffusione sembra quasi un morbo esiziale impossibile da arginare. L’amara morale di Grass è che, se è vero che gli spaventapasseri sono fatti a immagine e somiglianza dell’uomo, è altrettanto vero che molti uomini sembrano vivere e comportarsi come gli spaventapasseri animati di Brauxel, mere marionette senza anima e senza coscienza, in balia delle fluttuazioni e delle circostanze della Storia.
“Anni di cani” è la terza parte della cosiddetta “Trilogia di Danzica”, comprendente anche “Il tamburo di latta” e “Gatto e topo”, da cui riemergono alcuni personaggi indimenticabili, come il piccolo Oskar Matzerath, che in una scena è scoperto ad ascoltare insieme ad Amsel il suono della neve che cade sul suo tamburo, oppure Tulla Pokriefke, che ricordavamo dal romanzo precedente come “una specie di sgorbio con le gambe storte”, “fatta di pelle, ossa e curiosità” e che “puzzava di colla di falegname”, e che qui è invece oggetto dell’infatuazione amorosa del cugino Harry Liebenau, o ancora l’ausiliario della Luftwaffe Stortebeker, affascinato dalla filosofia di Heidegger, che diventerà il capo della “banda dei conciatori” descritta nel libro di esordio. Mentre “Gatto e topo” era, a conti fatti, un’opera minore, poco più che un racconto, con “Anni di cani” Grass torna a respirare l’aria rarefatta delle vette letterarie raggiunte quattro anni prima con “Il tamburo di latta”. A paragone dell’Everest rappresentato dal romanzo d’esordio, “Anni di cani” è un K2 molto più impervio, ostico e disagevole da scalare. E’ ad esempio difficile trovare un vero e proprio centro nevralgico che permetta al lettore di orientarsi, dal momento che il racconto è affidato a una triade di narratori, in uno strano, ibrido meccanismo di scrittura collettiva che alterna esperienze, umori e stili molto differenti tra loro e che ricorda a tratti negli esiti l’”Ulisse” di Joyce. Nelle oltre cinquecento pagine di questo romanzo eccessivo, sproporzionato e fluviale (uso non a caso questo termine, dal momento che la Vistola, il fiume che sfocia nella baia di Danzica, assume un’importanza determinante nella prima parte del libro) c’è dentro di tutto: la mitologia nordica (gli dei Perkunos, Pikollos e Potrimpos) e le leggende (i dodici cavalieri e le dodici monache senza testa, il gigante Miligedo), le tradizioni popolari e le favole (l’espressione “c’era una volta” ricorre ben 34 volte), la letteratura epistolare romantica (le lettere di Harry a Tulla) e il teatro brechtiano (la discussione pubblica radiofonica), la cronaca quotidiana e l’affresco storico, in un pastiche che lo apparenta in qualche modo alla coeva letteratura postmoderna (Matern sembra quasi un alter ego teutonico di Benny Profane, mentre la fabbrica di spaventapasseri di Brauxel ricorda l’Università-mondo di “Giles ragazzo-capra”). La caratteristica più pregnante di “Anni di cani” è però la sua visionarietà, che sconfina sovente in una sorta di realismo magico. Ci sono pagine, come quelle dell’incendio che divampa nella birreria ma che risparmia il bancone dove i due amici, incuranti del fuoco, continuano a rievocare il passato comune, o quelle degli spaventapasseri che, come in una staffetta, corrono accanto al treno di Matern per portare ad Amsel la notizia del ritorno dell’amico, o ancora quelle di Amsel e Jenny che escono letteralmente trasformati dai pupazzi di neve in cui erano stati intrappolati, come farfalle da una crisalide, pagine di un surrealismo fantasioso ed esuberante che non sfigurerebbero di fronte ai romanzi di un Garcia Marquez o – perché no? – di un Cartarescu, e che pure non tolgono nulla alla forza derisoria e polemica del pamphlet grassiano. Così come non la tolgono tutti quei personaggi eccentrici, bislacchi o altrimenti memorabili, che paiono usciti dai racconti di Bruno Schulz, come la nonna Matern, immobilizzata da nove anni in soffitta su una sedia, in grado di muovere soltanto i bulbi oculari, che ritrova all’improvviso movimento e parola per scendere in cucina e salvare l’oca che sta bruciando sul fuoco, oppure il mugnaio Matern, capace di predire il futuro con strabiliante precisione grazie alle informazioni suggeritegli dai vermi contenuti nel sacco di farina che tiene costantemente sulla spalla, o ancora il professor Brunies, ossessionato dai minerali, che raccoglie instancabilmente durante le passeggiate con la sua scolaresca, e dalle caramelle al malto, che autoproduce e mangia compulsivamente. Certo, non tutto è a fuoco in “Anni di cani”, e men che meno perfetto. Alcune parti sono innegabilmente ridondanti e prolisse, altre si leggono a fatica per la loro complessità sintattica. Eppure, se solo si riesce ad andare oltre le frasi prismatiche, piene di digressioni ed incisi, oltretutto lasciate spesso a metà (un po’ come se l’autore volesse dimostrare che, quasi che il non detto fosse ritenuto preferibile a, insomma cose così), si può riuscire a intravedere in trasparenza, dietro la satira esagerata e bulimica di Grass, quelle che sono le sue emozioni più intime e profonde, e in particolare la nostalgia, sperimentata dal suo alter ego Amsel (l’artista che crea gli spaventapasseri con tutto quello che gli capita tra le mani, come le assicelle, le frasche e gli stracci portati dalla corrente del fiume) quando cerca a tutti i costi di ritrovare il coltellino regalato all’amico e da questi gettato con noncuranza nella Vistola, la nostalgia – dicevo – di una purezza perduta. “Niente è puro. Neanche la neve è pura. Nessuna vergine è pura […] L'idea, rimane pura? Neanche all'inizio è pura. Gesù Cristo non è puro. Marx Engels non puri. La cenere non pura. E l'ostia non pura. Nessun pensiero si mantiene puro. Neanche l'arte fiorisce pura. E il sole ha le sue macchie. Tutti i geni hanno le loro mestruazioni. Sul dolore nuota la risata. In fondo al gran gridare indugia il silenzio.”
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