Dettagli Recensione
APPRENDISTATO DI UN NICHILISTA
“L’emozione è tutto nella vita
Quando siete morti è finita”
(Vinicio Capossela, “Bardamu”)
“Morte a credito” racconta gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Ferdinand Bardamu, l’alter ego letterario di Céline, ed è quindi una sorta di prequel del “Viaggio al termine della notte”. Chi si aspettasse però, in virtù di questo semplice dato cronologico, una narrazione meno disturbante e disperata, più leggera e disimpegnata, del suo precedente, più famoso, capolavoro resterebbe profondamente sconcertato e deluso. Dietro la scrittura irriverente, iconoclasta e scandalosamente divertente di Céline si avverte infatti anche qui, non meno che nel “Viaggio”, un inconfondibile sentore di solitudine, di acredine e di dolore. La “morte” del titolo si affaccia in scena fin dalle prime righe: “Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia, in tutto questo, una tristezza… Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta”. E poi, inopinatamente: “Ieri alle otto di sera la signora Bérenge, la portinaia, è morta”. Bisogna sempre tenere presente questo retrogusto amaro (“l’incredibile acre gusto… non se ne andrà mai più”), perché la morte è sempre dietro l’angolo e, a dispetto di tutte le picaresche avventure di Ferdinand, è proprio lei la vera protagonista del romanzo, pronta a prendersi, con macabri colpi di scena, il primissimo piano, come dimostrano gli sconvolgenti suicidi di Nora Merrywin e di Courtial de Pereires, che segnano repentinamente la fine dei rari, quanto mai provvisori momenti di tregua nell’esistenza di Ferdinand. Quella di Bardamu è un’infanzia “dickensiana”, intrisa di povertà e di violenza, popolata di esseri pusillanimi e meschini, insensibili ed egoisti, ma, a differenza che in un “David Copperfield” o in un “Oliver Twist”, qui manca del tutto non solo il lieto fine, ma anche la semplice speranza che la vita possa migliorare, ancorché impercettibilmente, in un prossimo futuro, e non essere semplicemente una crudele e spietata scuola di nichilismo. Il mondo familiare di Ferdinand, caratterizzato da miseria nera, da piccoli commerci che rendono meno della fatica che si è costretti a sobbarcarsi, da liti domestiche e rancori con il vicinato, e poi quello esterno, fatto di lavori mal pagati o non pagati affatto, di soprusi e di truffe, di promiscuità e di guai con la legge, sono tuttavia descritti senza alcun pathos drammatico, e soprattutto senza una vera e propria partecipazione emotiva da parte dell’autore, in grado di trasformare Ferdinand nel protagonista sfortunato di un’opera di critica sociale, ma al contrario con quel distacco cinico, con quella ironia caustica, così tipicamente céliniani, che non portano mai al riso liberatorio, benché le vicende narrate siano sotto certi punti di vista sommamente spassose, ma fanno semmai sogghignare il lettore a denti stretti, giacché l’umanità di Céline è una versione non edulcorata di quella a noi contemporanea, grottescamente deformata – è vero – eppure lo stesso riconoscibilissima. Gli strali dello scrittore francese non risparmiano praticamente niente e nessuno: l’istituzione familiare, la giustizia, la religione, la scienza ed il progresso (quegli inventori che assillano senza tregua Courtial e che assomigliano a un esaltato manipolo di pazzi fanatici…). Perfino il linguaggio è messo in discussione, come dimostra la profonda sfiducia che nutre nei suoi confronti Ferdinand, il quale, nel corso del suo soggiorno inglese, conscio che le parole vengono quasi sempre usate da quelli più grandi di lui per ingannare e per mentire, per circonvenire e per raggirare, si chiude in un impenetrabile mutismo: curioso atteggiamento da parte di chi, da grande, deciderà di intraprendere la carriera di romanziere!
Ci sono scrittori che andrebbero sempre letti a voce alta, per apprezzare meglio il ritmo, la musicalità della loro prosa. Si pensi ad esempio a Saramago, a Bernhard, a Guimaraes Rosa, a Gadda, le cui opere guadagnano enormemente da una lettura che dia forma sonora a quelle particolarissime architetture lessicali, con le loro pause ariose o i loro vorticosi crescendo, le loro poetiche sospensioni o le loro ossessive iterazioni, le loro inconfondibili cadenze o i loro dialettali neologismi. Louis-Ferdinand Céline è a tutti gli effetti uno di questi autori, abilissimo com’è a usare le parole come le note su uno spartito, quasi fosse una sorta di Paganini del romanzo. La sua scrittura è infatti pirotecnica e strabiliante, spiazzante e provocatoria, un curioso e originalissimo mélange di argot vernacolare e di linguaggio colto, che fa di Céline un bizzarro ircocervo: autore popolare da una parte, fino a sfiorare la volgarità e la blasfemia (quante frasi, espunte dalla censura nell’edizione originale, sono state solo in seguito reintrodotte tra parentesi quadre), ed elitario, ostico e respingente per la grande maggioranza dei lettori, dall’altra. “Morte a credito” non possiede forse la forza espressiva e la carica innovativa del “Viaggio al termine della notte”, ma certe sue pagine sono comunque degli autentici tour de force stilistici: penso ad esempio ai febbrili deliri di Ferdinand, veri e propri capolavori dadaistici, o ancora a scene genialmente raccapriccianti, come l’omerica “vomitata” sul traghetto nel corso della turbolenta traversata della Manica, oppure la descrizione del ritrovamento del corpo di Courtial, con la sua faccia orrendamente devastata dallo sparo del fucile. E’ proprio per brani come questi che ritengo che Céline sia, al di là di ogni considerazione sulle sue discutibili opinioni politiche, uno dei più grandi scrittori del Novecento, capace di conquistare innumerevoli schiere di estimatori, ma talmente unico, come tutti i precursori troppo in anticipo sul loro tempo, da non aver lasciato dietro di sé alcun vero epigono in grado di accampare fondati diritti sulla sua peculiarissima, inimitabile eredità artistica.