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"Eppure sono vivi"
Simenon riesce a descrivere i sentimenti del protagonista, improvvisamente malato, emiplegico e a contatto con un mondo e una realtà nuove, con rara intensità e profonda introspezione. Pagine dense di immagini, attinte dai frammenti dei propri ricordi, che si fanno strada attraverso i dubbi sulla propria esistenza, per approdare ad una presa di coscienza del tutto nuova del proprio mondo e delle persone che gravitano attorno a sé. Egli capisce come i malati, spesso dimenticati e rinchiusi dentro un mondo a parte, avulso dagli altri, si chiudano quasi sempre dentro una dimensione fatta di solitudine, sofferenza e sconforto, un mondo che si riesce a comprendere realmente soltanto vivendo noi stessi in mezzo a loro. "Eppure sono vivi", dice a un certo punto il protagonista riferendosi ai malati e ai vecchi "che trascinano le gambe con un' andatura a scatti buttando un piede di lato come pupazzi meccanici che funzionino male". Il mondo che gravita attorno a loro, anche se si prende cura di loro, li dimentica ogni giorno, costringendoli dentro una dimensione che li intristisce e li svuota della propria dimensione umana. Il protagonista stesso si rende conto che nel suo lungo processo di guarigione tutto ciò che aveva un significato vivo nella sua coscienza verrà presto dimenticato una volta che egli sarà del tutto guarito e potrà tornare alla sua vita: "Si è sentito molto vicino ai vecchi con l'uniforme che fumano la pipa sulle panchine del cortile. Ora non concede loro più che un'occhiata distratta e la pipa acquistata dalla signorina Blanche è chiusa in un cassetto". Ma questo è quanto. E concludendo egli dice: "Si fa quello che si deve fare, ecco tutto. Si fa quel che si può. Un giorno andrà a trovare suo padre a Fecamp, insieme a Lina"... poiché anche il padre del protagonista, come quei vecchi, vive ancora, ma ormai è solo e dimenticato da tutti e trascina la sua povera esistenza in uno stato quasi vegetativo.