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Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe
 
Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe 2024-05-09 15:52:10 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    09 Mag, 2024
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GIUSEPPE IL NUTRITORE

“Grande è l’arte dello scrivere! Ma cosa più grande ancora è quando la vita che si vive è essa stessa una storia.”

“Giuseppe in Egitto” si era chiuso con Mut-em-enet che aizzava la servitù della casa contro Giuseppe, il “mostro ebreo”, falsamente accusandolo di aver attentato con la violenza ai danni della sua virtù. Per far ciò, la moglie di Potifar fa leva sulla più retriva demagogia sciovinista, titillando l’orgoglio di razza dei suoi sottoposti egizi per incitarli a ribellarsi contro l’abietto usurpatore straniero. Come risuonano tristi e profetiche le parole di Mut-em-enet, alla vigilia di quella che sarebbe nel volgere di brevissimo tempo diventata la più grande e vergognosa tragedia del ventesimo secolo, la Shoah, il genocidio del popolo ebreo per mano dei connazionali di Mann, i nazisti tedeschi! E in quale nuova, sorprendente luce ci appare l’intero ciclo di “Giuseppe e i suoi fratelli”, se si pensa che l’ultimo suo capitolo, pubblicato nel 1943, è praticamente contemporaneo agli orrori di Auschwitz, Birkenau e Dachau! In “Giuseppe il nutritore” non mancano velate allusioni al nazismo, come quando Giuseppe, giustificando davanti al Faraone l’uso della forza in determinati frangenti storici, dice: “Che cosa vorresti tu fare con re predoni che incendiano, saccheggiano e taglieggiano? Tu non puoi insegnare loro la pace di Dio, perché sono troppo stupidi e malvagi per comprendere. Gliela puoi insegnare soltanto battendoli […] Stolida è la spada, eppure non vorrei dire accorta la mansuetudine. Accorto è l’intermediario che a quest’ultima consiglia la fortezza”. Nonostante che il conflitto mondiale, con bellicosi popoli che premono ai confini e terribili carestie, aleggi costantemente sullo sfondo, “Giuseppe il nutritore” è comunque di gran lunga il romanzo più “leggero” dell’intero ciclo. Persino la iniziale prigionia di Giuseppe, la sua seconda “caduta nella fossa” (dopo quella drammatica provocata dai fratelli invidiosi nel secondo capitolo, che lo aveva portato a un passo dalla morte), si rivela tutto sommato un castigo lieve, quasi simbolico, in quanto il protagonista si trova di fronte un carceriere estremamente umano, giusto e sensibile, al punto che, quando Giuseppe entrerà nelle grazie del giovane Faraone per avere interpretato i suoi enigmatici sogni, egli ne farà, in un bizzarro scambio di ruoli, il suo fedele maggiordomo. La tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli” assomiglia perciò a un fiume che, dopo le rapide vorticose, progressivamente si acquieta per tornare a fluire placidamente e senza fretta in prossimità della sua foce. Giuseppe dopo tanti anni riesce finalmente a incontrare i suoi fratelli, giunti dalla loro lontana terra per acquistare cereali, si palesa, dopo un’ingegnosa messinscena, ai loro occhi, increduli di trovarsi di fronte, nei panni di un potente dignitario egizio, al loro fratello perduto, li perdona magnanimamente per i loro antichi misfatti e giunge perfino a far trasferire in Egitto l’intera tribù di Israele e a riabbracciare il vecchio e amato padre che lo credeva morto, e che quindi può solennemente morire in pace. Sintetizzato così sembra il più classico e scontato degli happy end, anche se va detto che Mann non inventa nulla di nuovo rispetto al testo biblico. Il tutto è però raccontato dallo scrittore tedesco con una leggiadra e incomparabile ironia, conscio com’è che “tutto deve compiersi nel più ilare dei modi, come uno scherzo solenne” e che “l’ilarità, l’arguto scherzo sono quanto di meglio Dio ha concesso agli uomini”. In “Giuseppe il nutritore” ritorna così quell’ironica levità che aveva caratterizzato “Le storie di Giacobbe”, ossia il tomo introduttivo della tetralogia. Si prenda ad esempio la storia dell’ambiziosa e risoluta Thamar, che vuole a tutti i costi entrare con un ruolo di primo piano nella storia di Israele (e che infatti diventerà la progenitrice del re Davide), il cui inganno ai danni di Giuda, da cui si fa mettere incinta a sua insaputa, ricorda non a caso la beffa del furto della primogenitura di Esaù o quella ordita da Giacobbe contro Labano per liberarsi dal suo odioso giogo.
La leggerezza di “Giuseppe il nutritore” non deve però far pensare che il coté intellettuale del libro sia affievolito rispetto a quello dei suoi predecessori. In esso infatti si narrano miti (quello, ad esempio, del dio-bambino nella caverna), si discetta dottamente di dèi in conflitto tra loro (Aton e Amun) o al contrario misteriosamente affini (Aton e Jahvè), si discute di questioni filosofiche e di astrusi sofismi (l’essere come punto di incidenza tra il non-essere e l’essere-per-sempre), si interpretano sogni come se fossero messaggi in codice della divinità. Non inferiore è poi la componente meta-letteraria del romanzo, giacché più volte, come nei libri precedenti, Mann cerca di accreditare la sua storia come più realistica, più veritiera di un originale “la cui laconicità poco risponde al modo in cui la storia raccontò originariamente se stessa, cioè a come la realtà storica si svolse a suo tempo”. Mann scrive così “non con la disinvolta imprecisione della leggenda, bensì con la ragionevole riserva che impone il rispetto per il reale svolgimento dei fatti. Qui infatti non si millanta, ma si racconta”. Pertanto lo scrittore di Lubecca non si fa scrupolo di fermare la narrazione per fare una precisazione psicologica, oppure per chiarire un’inesattezza storica, o ancora per stemperare le esagerazioni del mito (come quando mette in dubbio che gli anni della carestia siano stati effettivamente sette, o i componenti della tribù di Giacobbe precisamente settanta, lasciando intendere che chi ha tramandato la storia abbia voluto privilegiare dei numeri considerati sacri rispetto ad altri meno emblematici). Mann si pone quindi come un mediatore tra la storia che in origine si è raccontata da se stessa e la storia come è giunta, con i suoi travisamenti e i suoi malintesi, fino alle nostre generazioni, ed in fin dei conti si fa egli stesso protagonista con le sue riflessioni parallele alle vicende di Giuseppe.
Il leit motiv del romanzo, sotteso alle numerose e avvincenti storie di Giacobbe e di Giuseppe, resta comunque soprattutto uno: la scoperta di Dio da parte dell’uomo. E’ curioso come questo sentimento religioso, che da Abramo in poi si fa sempre più raffinato, presupponga un atteggiamento che a molti potrebbe apparire addirittura presuntuoso ed egocentrico, ossia mettere il proprio io e la propria salvezza al centro di tutte le cose, come essenziale premessa per la creazione di un Dio insieme universale e personale. Parlo di creazione non a caso, perché se l’uomo ha bisogno di Dio per decifrare e portare a compimento il proprio destino, diventandone docile strumento dei suoi disegni, allo stesso modo Dio necessita dell’uomo per rivelarsi e venire alla luce. Nel gustoso e quasi umoristico “Preludio tra le gerarchie celesti” si immagina addirittura un Dio che ambisce a farsi incarnazione di un popolo per poter essere come gli altri dèi, per scendere dal suo algido e solitario iperuranio e sperimentare quella vitalità che l’uomo deve aver provato con il peccato originale, quando ha rinunciato alla perfezione dell’Eden per l’attrazione verso la materia, l’informe, la vita. E’ questo, secondo Mann, il misterioso motivo che porta alla nascita del patto stretto da questo Dio, geloso e collerico non meno che sommamente sapiente e giusto, con i patriarchi dell’Antico Testamento, da Abramo giù giù fino a Giuseppe, e che lo scrittore tedesco descrive con un’ineguagliabile vena, non soltanto mistica e religiosa, ma anche e soprattutto umorosa, viscerale e carnale, facendone il centro di gravità di un’opera che parla, in una maniera solo apparentemente contraddittoria, di cose ultraterrene mentre contemporaneamente narra di passioni e di speranze, di amori e di rancori, di vendette e di riconciliazioni estremamente terreni, come se Giuseppe e i suoi fratelli fossero in tutto e per tutto nostri contemporanei. In questo, io credo, risiede la grandissima forza espressiva, e in ultima istanza il fascino, di un’opera dalle ambizioni smisurate, ma che si legge con grande facilità, trascinante come un romanzo d’amore o d’avventura e leggero, a dispetto della sua mole, come una nuvola o come una piuma.

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