Dettagli Recensione
FANTASMI IN CERCA D'AUTORE
“Non hai imparato che la cosa che più vuoi dimenticare è l’unica che non ti abbandonerà mai?”
“La fortezza” è uno strano ircocervo letterario: sospeso tra antico (il castello medievale, provvisto di torrioni, sotterranei e camere di tortura, che Howard vuole trasformare in un hotel di lusso; la quasi centenaria baronessa che abita in ostinata solitudine nel mastio, ultima erede di una nobile famiglia feudale) e moderno (l’ossessione del cugino di Howard, Danny, per le public relations, la connessione a Internet e la visibilità social, che lo costringe a portarsi appresso una parabola satellitare per scongiurare quel temibile fenomeno per cui “quando qualcuno usciva di scena era solo questione di giorni prima che sembrasse che sulla scena non ci fosse mai stato… e l’idea di scomparire così era peggio che morire”). L’anacronismo suggerito dall’antiquata e fatiscente dimora viene letteralmente incarnato da Howard, il quale intende, in antitesi con le idee del cugino, bandire completamente la tecnologia dal castello, al fine di recuperare la capacità di immaginare le cose, di far volare la fantasia, proprio come gli uomini del Medioevo, che “pensavano che Cristo fosse seduto a cena con loro, e che gli angeli e i diavoli svolazzassero in giro”. Una lugubre location senza cellulari ed elettricità fa venire subito in mente un romanzo gotico, e difatti, proprio come se ci trovassimo nella tenuta di Bly del “Giro di vite” jamesiano, le allucinazioni e i fantasmi non tardano a palesarsi: la vecchissima baronessa da lontano appare a Danny come una giovane e bionda ragazza, e tale torna ad essere, come in un ebbro incantesimo, dopo aver scolato un’intera bottiglia di vino quasi altrettanto annosa.; i due piccoli gemelli raffigurati nel quadro sembrano spostarsi impercettibilmente non appena si allontana lo sguardo da loro; gli stessi bambini, morti annegati molti decenni prima, appaiono sul bordo della piscina durante il delirio notturno di Danny. Jennifer Egan non disdegna affatto di sfruttare i cliché delle storie sul soprannaturale (del resto ampiamente utilizzati nei due secoli precedenti anche da autori colti come Poe o Lovecraft), come se sapesse bene che la presenza di un castello legittima l’aspettativa di botole che si chiudono all’improvviso e di sussurri che trapelano tra le spesse mura, ma la sua storia, ambientata nel XXI secolo, resta tuttavia ben radicata nei territori del reale. Più che i fantasmi che ossessionano Danny, probabile proiezione di un animo esacerbato dai suoi atavici sensi di colpa e dalla paranoia (da lui chiamata “il verme”, in quanto come un verme si insinua subdolamente dentro le persone e comincia a mangiare, fintantoché crolla tutto quanto), più che questi fantasmi – dicevo – ci interessano altri spettri, vale a dire quelli che, in una accezione meta-letteraria, scaturiscono dalla penna dello scrittore, in quanto personaggi frutto della sua immaginazione (“Davis sventola le pagine che ho lasciato sul mio ripiano, sbatacchiandole nell’aria. Questa gente, dice. La vedo, la sento, la conosco, ma non è in questa stanza. […] Non è in questo carcere, né in questa città, né in questo paese, e nemmeno nello stesso mondo dove viviamo io e te. È da qualche altra parte. […] Sono fantasmi, fratello, dice. Non sono né morti né vivi. Sono una via di mezzo”). La stessa tecnologia (chattare in rete, guardare i reality in TV, ecc.) produce a nostra insaputa fantasmi, come sostiene Howard (“Ma cos’è reale, Danny? […] Con chi stai parlando al cellulare? In definitiva non ne hai la più pallida idea, cazzo. Danny, noi viviamo in un mondo soprannaturale. Siamo circondati dai fantasmi”). Si viene in tal modo a creare nel romanzo una situazione per così dire pirandelliana, dove i piani della storia si duplicano (a quello “fittizio”, ambientato nella fortezza del titolo, si affianca il contesto “reale”, quello in cui Ray, all’interno del carcere in cui è detenuto e in cui sta seguendo un corso di scrittura creativa, crea i personaggi e le vicende del plot principale) e procedono in maniera (apparentemente) autonoma, come le traiettorie asintotiche della finzione e della realtà. Ciò consente alla Egan di fare alcune interessanti riflessioni sulla creazione letteraria, e più in generale artistica: essa è, in prima istanza, quella “porta che potete aprire voi… che vi conduce dovunque vogliate andare”, come dice l’insegnante Holly alla sua classe di detenuti (per i quali aprire materialmente una semplice porta è, per ovvie ragioni, una chimera irrealizzabile), è un’”evasione” dal mondo reale per mezzo dell’immaginazione la quale, per sua natura, non ha limiti. Ma la scrittura è per Ray anche una dichiarazione d’amore, un modo per creare un ponte sentimentale con l’insegnante di cui è segretamente invaghito e che la realtà concentrazionaria giocoforza gli preclude; è anche un’opportunità per far venire alla luce ed elaborare un personale, gigantesco e autodistruttivo senso di colpa; ed è, infine, una possibilità per dar vita a un sofferto e laborioso progetto di espiazione e di redenzione.
Quanto detto sopra non deve trarre in inganno. “La fortezza” non è solo un raffinato esercizio di meta-letteratura, ma è anche un romanzo che, con i suoi misteri e le sue ambiguità, avvince il lettore dalla prima all’ultima pagina, e anzi è addirittura in grado di prenderlo alla sprovvista e sorprenderlo con un clamoroso colpo di scena finale, per nulla inferiore a quello che ci si aspetterebbe da un giallo di classe. Proprio come il già citato James di “Giro di vite”, la Egan manda a gambe all’aria quell’autentico totem che è l’attendibilità del narratore, ribaltando all’improvviso il ruolo ci colui che il lettore pensava fino a quel momento fosse il personaggio della storia in cui si nascondeva l’io dell’autore (anche se un campanello d’allarme lo aveva già fatto suonare Tom-Tom, quando aveva chiesto a Ray, al termine della lettura in classe: “Quale di questi pagliacci sei tu?”). Jennifer Egan gioca sapientemente con le aspettative del lettore e con i generi (affiorano persino echi di tragedie infantili e tradimenti coniugali, di oscure congiure ed intermezzi da commedia), smitizza il ruolo dell’autore come deus ex machina e moltiplica personaggi e piani narrativi (del resto la sua abilità nel far convivere e amalgamare nello stesso libro epoche cronologiche, ambienti e personaggi estremamente eterogenei può essere considerato il suo inconfondibile marchio di fabbrica). La sua capacità di tirare alla fine i numerosi fili e di trovare la quadra, anche emotiva, della storia (la terza parte, affidata al personaggio fino a quel momento secondario di Holly, oltre a sfondare a sorpresa il muro che separa il reale dal virtuale, è deliziosamente emozionante) è la dote innegabile di una scrittrice di razza, che sembra prefigurare in questa sua opera terza quell’autentico capolavoro che di lì a pochi anni sarebbe diventato “Il tempo è un bastardo”.