Dettagli Recensione
Giuseppe in Egitto
“Giacché noi camminiamo su orme, e tutta la vita non è che un riempire di presente le forme del mito”
“Giuseppe in Egitto” è un libro ricco di rimandi e di allusioni, di corsi e di ricorsi. Giuseppe, venduto dai fratelli a una tribù di mercanti ismaeliti in viaggio verso la terra dei Faraoni, rivive infatti l’esperienza dell’esilio dalla terra dei padri che molti anni prima aveva già sperimentato Giacobbe, quando, per sottrarsi all’ira di Esaù dopo il “furto” della primogenitura, egli era fuggito presso suo zio Labano, al cui servizio aveva poi trascorso ben 25 anni. Ma l’esilio di Giuseppe è, a ben vedere, anche quello dello stesso Thomas Mann, il quale, durante la stesura del terzo libro della tetralogia, aveva deciso di trasferirsi in Svizzera, presso Zurigo, in quanto la sua aperta critica nei confronti del nazismo, che proprio in quegli anni si stava affermando in Germania, lo aveva reso un facile bersaglio del regime hitleriano. Il ciclo di “Giuseppe e i suoi fratelli”, nato probabilmente per mere motivazioni intellettuali, inizia pertanto ad assumere un sorprendente carattere autobiografico, con Giuseppe, il profetico interprete dei sogni, l’impareggiabile narratore di storie, il quale possiede una natura pseudo-artistica (in cui si compenetrano dimensione vitale e dimensione spirituale, fede e pensiero), che diventa quasi l’alter ego dello scrittore di Lubecca. L’impatto del giovane protagonista con la raffinatissima cultura egizia, nei confronti della quale egli esprime un misto di ammirazione e di beffardo scetticismo, sembra addirittura prefigurare quelle che devono essere state le impressioni di Mann quando, alla fine degli anni ’30, egli si trovò a vivere negli Stati Uniti d’America, i cui grattacieli probabilmente dovettero apparirgli come a Giuseppe le piramidi di Giza, e la affluente società americana come la ricca corte del Faraone, nonostante che la cultura europea, così come la religione monoteista di Abramo e di Isacco, rimanevano pur sempre largamente superiori a quelle in auge nei nuovi paesi di adozione dello scrittore e del suo personaggio.
Dopo le pagine cruente e drammatiche con cui si era chiuso il tomo precedente, “Giuseppe in Egitto” (conformemente all’alternanza di registri che caratterizza il ciclo biblico manniano, capace di passare dalle riflessioni filosofiche alle pagine avventurose, dalle atmosfere frivole a quelle tragiche) torna ad adottare un tono sereno e rilassato, misurato e scorrevole, con una prima parte, quella in cui la carovana di mercanti risale il Nilo (dando a Mann l’occasione di descrivere con appassionato gusto enciclopedico le città e le genti egizie incontrate lungo il tragitto), che sembra quasi un documentario geografico di duemila anni fa (così come qualche capitolo più avanti le feste religiose e le apparizioni pubbliche del Faraone a Tebe sembrano estrapolate da un trattato etnografico su quell’epoca lontana). Lungi dall’essere spaventato per il fatto di trovarsi catapultato in una terra sconosciuta, di cui non conosce né la lingua né i costumi, Giuseppe si lascia guidare dalla sua innata sete di conoscenza e osserva tutto quello che gli passa davanti agli occhi con estrema attenzione, “per accogliere profondamente dentro sé, nello spirito e nei sensi, il paese e la vita del paese, badando sempre che la sua curiosità non degenerasse in confusione e ottundimento fuori luogo, ma si mantenesse sempre all’erta e desta in onore dei padri”. Il suo obiettivo segreto è quello di diventare un giorno “il primo tra la gente di quei luoghi”, in ossequio con quello che egli ritiene essere il suo destino voluto da Dio e rivelatogli nei sogni dei suoi anni giovanili. Il fatto che il suo percorso sia in qualche modo già segnato, e debba solo palesarsi poco alla volta, a tempo debito, dà a “Giuseppe in Egitto” l’andamento del più classico romanzo di formazione, con l’eroe che da una posizione inizialmente infima si eleva fino al successo e alla gloria, con personaggi emblematici (come quello del fedele sovrintendente Mont-kaw, che accoglie Giuseppe, dopo che gli ismaeliti lo hanno venduto al ricco cortigiano Potifar, come un figlio, designandolo in breve tempo come suo successore, o quelli dei due nani Dudu e Teodoro, il primo che cerca in tutti i modi di mettere in cattiva luce Giuseppe e provocarne la rovina, e il secondo invece di favorirlo e proteggerlo) ed episodi cruciali (come il colloquio tra i due anziani genitori di Potifar, a cui Giuseppe assiste casualmente e che gli permette di venire a conoscenza dei segreti più intimi della vita del suo potente padrone, o ancora il fatidico dialogo tra Giuseppe e Potifar, con cui il giovane schiavo, interrogato mentre è al lavoro nel giardino delle palme, conquista con la sua facondia l’ammirazione e la fiducia del secondo, segnando così l’inizio della sua fortuna nella nuova casa).
Mann riempie con dovizia e intelligenza i tanti vuoti lasciati da una storia originariamente narrata in modo fin troppo conciso e succinto. Non bisogna però cadere nell’equivoco: lo scrittore tedesco mostra un grande rispetto, se non addirittura una sorta di venerazione, per la Bibbia, un libro che è stato da lui definito come un “monumento, il più singolare e grandioso della letteratura universale”, “ il libro par excellence, … proprietà del cuore, inalienabile”. Consapevole che intelletto e cuore, razionalità e sentimento possono seguire strade diverse, e addirittura contraddittorie, Mann non si vergogna di rivestire una storia che si è dimostrata nei secoli “intangibile da parte di qualsiasi critica intellettuale” di una nuova veste, più seducente nella forma e soprattutto più credibile nelle dinamiche psicologiche che la sottendono. “Ci sgomenta – afferma lo scrittore in “Giuseppe in Egitto” – la concisione sommaria di una narrazione che rende tanto poco giustizia alla amara minuziosità della vita”. E’ per questo che, nel già accennato dialogo di Giuseppe con Potifar, Mann si prodiga per rendere psicologicamente realistico, e in tal modo tanto più verosimile, il laconico verso “Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui”. Ciò si comprende ancora meglio nella seconda parte del romanzo, quella in cui viene raccontata l’infatuazione di Mut-em-enet per Giuseppe. Se il libro sacro accenna semplicemente che “la moglie del padrone di Giuseppe gli mise gli occhi addosso e gli disse: «unisciti a me»”, Mann impiega centinaia di pagine di raffinato erotismo per descrivere l’infatuazione della sposa di Potifar per il giovane servo del marito. E’ proprio questa seconda parte che rappresenta, a mio avviso, il principale motivo di interesse del libro: nell’esporre il lento ma inesorabile precipitare della ricca e venerata signora nei gorghi della passione, che le fa mettere da parte ogni remora dettata dalla vergogna e dall’onore per ricorrere ad ogni mezzo, finanche il sortilegio di una negromante, pur di accaparrarsi le grazie dell’essere concupito, Mann realizza una straordinaria, profondissima indagine fenomenologica del desiderio amoroso, facendo di Mut-em-enet una tragica eroina dell’amour fou, che non sfigura affatto al cospetto di più celebri ed emblematici personaggi come Madame Bovary o Anna Karenina.
Con la sua consueta, apollinea perfezione (solo in parte appesantita da dialoghi a tratti un po’ troppo ampollosi e pedanteschi), Mann trasforma quello che potrebbe a prima vista sembrare un semplice racconto di appendice, una storia d’amore dagli insoliti (conoscendo l’autore) risvolti pruriginosi, in un’opera di grande valore filosofico e meta-letterario. Ad esempio, Mann ci offre una profonda riflessione sull’opportunità dell’autore di essere dentro la storia narrata, di diventare un tutt’uno con essa, oppure di porsi anche al di fuori della storia, come una voce critica, che la analizza e ci ragiona sopra. Mann cioè affronta di petto quella che è la fondamentale differenza tra il narratore classico, ottocentesco (quello che lui stesso era al tempo dei Buddenbrook) e lo scrittore moderno, il quale non è più disposto a calarsi anonimamente nella storia, ad accontentarsi di essere un semplice registratore di ciò che in qualche modo è accaduto o accadrebbe anche senza di lui. Con il suo continuo sillogizzare ed elucubrare sui molteplici aspetti diegetici ed extra-diegetici della vicenda raccontata, Mann, ovviamente, tende a essere ben presente nella sua costruzione, attraverso un duplice percorso di demitizzazione ed umanizzazione da una parte, e di riflessione critica dall’altra, come quando ragiona sugli anni trascorsi da Giuseppe nella casa di Potifar cercando di conciliare verità storica e verosimiglianza con un metodo che, sottoponendo ogni fatto narrato a una solida controprova logica, si può quasi definire scientifico. Mann sancisce in tal modo l’importanza in letteratura del metodo a supporto dell’ispirazione poetica, affermando: “Può forse il sentimento, se vuole attuarsi, se vuole suscitare per esempio un senso di benessere pieno di fiducia, far questo senza calcolo e sapiente tecnica?”. Lo stesso Giuseppe, che già abbiamo detto in apertura essere quasi un alter ego dello scrittore, utilizza scientemente la letteratura, sia come valente lettore, sia come fine esegeta, per conquistare Potifar e rendersi a lui indispensabile, diventando in breve tempo il più influente tra i lavoratori della casa. Quello della relazione tra arte e vita e dell’importanza del metodo nell’arte non è che uno dei motivi di interesse del libro, il quale nelle sue oltre settecento pagine (che lo rendono il più lungo dell’intera tetralogia) riflette su una miriade di argomenti, come il rapporto tra presente e passato, tra tradizione e progresso o tra identità nazionale e cosmopolitismo, tematiche che trascendono l’epoca della storia narrata per entrare prepotentemente nell’attualità. Uno dei tanti motivi di pregio del libro è anche la simmetria che assume il racconto di Giuseppe giunto al suo terzo atto. “Giuseppe in Egitto” infatti ripercorre con nuove sfumature l’intera parabola narrata nel libro precedente: la benedizione in punto di morte di Mont-kaw riecheggia quella impartita da Giacobbe, e simili sono le tentazioni di Giuseppe (là la veste istoriata di Rachele, qui la profferta amorosa di Mut-em-enet) e l’invidia che muove i suoi antagonisti (con il subdolo nano Dudu che prende il posto dei fratelli di Giuseppe). Identico infine è il destino di Giuseppe: la fossa, ossia la caduta in disgrazia, la (apparente) sconfitta. Letto così, “Giuseppe in Egitto” ci appare come una sorta di splendida sonata musicale, in cui il mirabile tema principale, dopo la sua esposizione e il suo sviluppo, viene ripreso e arricchito con piccole ma decisive modifiche, prima che la coda finale (cioè il quarto e ultimo libro) possa finalmente condurci a una definitiva e liberatoria conclusione.