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Abbacinante. Il corpo
 
Abbacinante. Il corpo 2023-09-28 20:11:25 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    28 Settembre, 2023
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Nostalgia di infinito

“La mia vita è già vissuta e il mio libro è già scritto, giacché il passato è tutto e il futuro è niente.”

Ci sono alcuni autori che pervicacemente, maniacalmente, forse anche morbosamente, affrontano nelle loro opere sempre le stesse tematiche, parlano sempre delle proprie ossessioni, scrivono in fondo sempre il medesimo, identico, libro. Penso per esempio a Thomas Bernhard e, naturalmente, a Marcel Proust. Mircea Cartarescu fa parte a tutti gli effetti di questa ristretta schiera di scrittori, per i quali ogni scritto è in fin dei conti una sorta di variazione su un unico tema costante. Basta soltanto leggere le prime righe del secondo volume della trilogia “Abbacinante” per essere riportati di peso, quasi che nel frattempo non ci fosse stata alcuna cesura, alcuna soluzione di continuità, alle riflessioni sul passato del narratore, sull’”io” di oggi che contiene come altrettante matrioske i molteplici "io" di ieri; il piccolo protagonista continua inoltre a star seduto sulla cassapanca della sua camera da letto, con i piedi sul termosifone, a guardare con occhi affascinati Bucarest dalla finestra, ed entra ancora una volta nell’appartamento all’ottavo piano di Herman, il vagabondo-filosofo, e così via. Si capisce che il libro di Cartarescu è un pensiero fisso che non abbandona mai il suo autore, ma lo costringe ad aggirarsi sempre negli stessi territori, come se si trovasse di fronte a una mappa nel tentativo inesauribile di decifrarla, come se da ciò dipendesse la sua stessa vita, la sua stessa salvezza. Anche lo stile è sempre uguale (prodigiosamente uguale, va detto), con il lessico che spazia, come in uno spettro elettromagnetico smisurato, dalla fisiologia del cervello, con le sue sinapsi, i suoi assoni e dendriti, fino alla cosmologia ultima del Big Crunch, con i suoi innumerevoli simbolismi biblici e religiosi e le sue continue digressioni misticheggianti. Insomma, leggere Cartarescu è un po’ come ritrovare un amico che magari non vedi per anni, ma che quando poi lo rincontri per caso al bar puoi continuare con lui a parlare come se niente fosse, e proseguire con estrema naturalezza quei discorsi lasciati da tempo in sospeso.
Se comunque si volesse affrontare in modo serio e meticoloso l’esegesi del testo, si potrebbe dire che se nell’”Ala sinistra” Cartarescu era una specie di archeologo dei ricordi, e si sforzava di risalire, con tanta immaginazione, a quei proto-ricordi che riguardavano la remota, leggendaria vita dei suoi avi e dei suoi genitori prima della propria nascita, reminiscenze che erano state in qualche modo ereditate attraverso i geni familiari oppure apprese attraverso una sorta di misterioso procedimento onirico, nel secondo tomo della trilogia la prospettiva è maggiormente orientata verso Mircea bambino, il cui passato il narratore fa rivivere (dagli anni della prima infanzia, passati in stretta, indissolubile simbiosi con la madre, a quelli della scuola, con la progressiva scoperta del mondo esterno al nido domestico) con la vividezza, la minuziosità, la precisione anche topografica di qualcosa che si è profondamente e definitivamente fissato, impresso nel proprio corpo di uomo adulto in cerca di un senso alla propria esistenza. Anche quando, dopo la prima parte più filosofica e astratta, Cartarescu si abbandona all’aneddotica infantile pura e semplice (“credo sia giunta l’ora di accettare un briciolo di realtà”), come un McCourt qualsiasi, anche in queste pagine l’autore non rinuncia però alle sue improvvise, inopinate accensioni fantastiche: salendo le scale del bloc dove Mircea abita ci si può imbattere in mondi sorprendenti e insospettati o perdersi come in un labirinto; il gioco in cui il piccolo protagonista viene issato dai compagni dentro a un secchio per mezzo di una carrucola si trasforma in una specie di avventura soprannaturale; una casa al tramonto può abbandonare le sue fondamenta e mettersi a volare nel cielo crepuscolare di Bucarest; e così via dicendo. La visionarietà dello scrittore romeno è il sintomo di una “propensione mistica o poetica esagerata”, che segna e caratterizza inconfondibilmente tutta la sua opera. “E’ come se avessi non un certo numero di sensi, ma miliardi di sensi”, e ciò produce un vertiginoso moltiplicarsi di sensazioni, di riflessioni, di piani di lettura.
Il narratore, fin da giovane, si dedica a scrivere forsennatamente un manoscritto, accumulando pagine su pagine, come se fosse spinto da un irrefrenabile impulso, da un’irresistibile coazione. Il presupposto che lo muove è che ogni opera scritta deve “essere un Vangelo o non essere affatto”. “Non c’era ragione, per un libro, di essere un congegno per un bel sognare, la sua esistenza non si giustificava se non come una freccia rivolta verso la salvezza”. Da qui a considerare lo scrittore come una sorta di profeta, o addirittura di Messia, il passo è breve. La verità è appannaggio di un’unica anima eletta (così come, per converso, “ogni libro vero seleziona sempre un solo lettore”) e la salvezza è come il concepimento umano, dove un solo spermatozoo, tra milioni di altri spermatozoi, raggiunge e feconda l’ovulo. C’è una pagina magica ed esaltante (una di quelle che ogni scrittore vorrebbe scrivere almeno una volta nella vita, ma che pochissimi riescono effettivamente a realizzare nell’arco dell’intera carriera), in cui Cartarescu immagina la redenzione proprio come una eiaculazione di farfalle, che fuoriescono a fiotti, innumerevoli, dai crani umani per cercare di unirsi a una inafferrabile, iperbarica divinità, ma soltanto una di esse, dopo un viaggio periglioso e terribile, dopo essersi bruciata le ali, dopo essersi trascinata agonicamente, il ventre martirizzato, attraverso canali di carne e di fuoco, ridotta ormai a uno scheletro, riuscirà a fondersi nel prodigio meraviglioso, nella luce pura e abbagliante. Come un equilibrista in bilico tra il serio e il ridicolo, tra il sacro e il grottesco, lo scrittore romeno giunge a trasformare la sua autobiografia in una bizzarra ucronia, immaginando che il gemello Victor non sia morto di polmonite, poco dopo la nascita, in ospedale, ma sia stato rapito dalla fantomatica setta degli Illuminati, per far sì che Mircea, crescendo, non venisse distratto dalla sua vicinanza e dal suo affetto e potesse dedicarsi alla scrittura di quel libro fatidico e indispensabile per le sorti dell’umanità. Come nel primo volume si diceva che Dio è creato dall’uomo per poter essere da Lui a sua volta generato, così ne “Il corpo” i personaggi (gli Illuminati) “inventano” il loro autore, guidandolo in segreto alla elaborazione del suo libro. Questo coté spericolatamente meta-letterario è quanto mai congeniale alla visione dello scrittore romeno, secondo cui ogni mondo è il rovescio di un altro, come se le piante dei piedi di chi sta nel mondo di sopra corrispondessero a quelle, ribaltate, di coloro che vivono nel mondo di sotto (“viviamo in mondi sovrapposti, ciascuno sotto il ghiaccio spesso dell’altro… Siamo i cieli del mondo di sotto e le profondità maledette del benedetto regno di sopra”). L’universo di Cartarescu è in fondo come un nastro di Mobius, in cui le due facce del nastro sono costituite dalla realtà e dalla finzione, ma è impossibile capire quando una trapassa nell’altra. Chi conosce un poco Cartarescu sa fin troppo bene che per il romanziere di Bucarest il mondo in cui viviamo è un inganno, e che solo la limitatezza dei nostri sensi ci impedisce di elevarci dalle nostre tre dimensioni alla dimensione superiore, che è rappresentata dal tempo. Per una sorta di paralizzante, congenita agnosia, l’uomo è in grado soltanto di vedere il passato, mentre ignora completamente il futuro, benché questo venga a volte rivelato per mezzo della premonizione o della profezia. E il tempo non è probabilmente l’ultima, definitiva dimensione, perché forse altre molteplici, inesplicabili dimensioni sono comprensibili da esseri superiori, divini. Il mondo potrebbe allora apparire come quel foglio di carta appallottolato che i maestri dell’origami gettano nell’acqua e che pian piano comincia ad aprirsi rivelando un fantastico fiore di loto. E’ a queste superne, metafisiche dimensioni che lo scrittore deve tendere. E’ per questo che l’immagine della farfalla ricorre ossessivamente nel romanzo, simbolo, con la sua trasformazione da larva vagamente ripugnante a insetto leggiadro e variopinto, del passaggio graduale a stadi più evoluti dell’esistenza. Numerosi sono i simboli, spesso oscuri e difficilmente comprensibili, utilizzati da Cartarescu (il volo e la levitazione, gli ascensori, i tappeti), ma quella della farfalla rappresenta la metafora perfetta, al punto da venire incorporata nel titolo stesso della trilogia. Nei suoi “ricordi” primigeni, anteriori alla propria nascita, il narratore immagina la sua futura madre che ogni mattina si trasforma in farfalla e una volta, volando molto in alto sopra il villaggio natale, arriva perfino a vedere la figura di Dio Padre. La capacità di possedere ali dura però poco: il passaggio alla vita adulta tarpa questa aspirazione a “librarsi nell’aria”, e allontana definitivamente l’essere umano dalla naturale, inconscia condizione di perfezione insita nell’infanzia, quando si è ancora in grado di “vedere” pur senza saperlo. E quando non è la crescita, l’esiziale trascorrere del tempo, ci pensa la realtà, quella realtà che in “Solenoide” si dice che “ci schiaccia osso dopo osso nel suo abbraccio”, a distruggere l’umano sogno della rivelazione suprema. Come le farfalle che si bruciano volando troppo vicino alla luce della fiamma, così le farfalle di Cartarescu vengono costantemente distrutte, uccise o rese impotenti tagliando loro le ali, come fa la madre di Soile, che sacrifica l’insetto mutilato dandolo in pasto al grosso ragno che alleva in casa in un terrario. Fuor di metafora, il piccolo protagonista sperimenta la perdita irreparabile della sua capacità di vedere quando proprio davanti al bloc dove abita viene costruito un enorme falansterio, che gli toglie la vista a perdita d’occhio della città, che egli amava guardare per ore prima di addormentarsi.
Chi è arrivato a due terzi della trilogia di “Abbacinante” ha ormai preso confidenza con la prosa delirante di Cartarescu, in cui le storie si succedono vorticosamente e in modo apparentemente poco plausibile (si pensi all’avventuroso viaggio del piccolo Maarten verso il lontano, fantomatico vascello imprigionato dai ghiacci, attraverso lande immense e desolate percorse con infantile intrepidezza coi suoi pattini, viaggio che si trasforma in un’esperienza soprannaturale, in cui la sua esistenza trascorre nell’arco di poche ore fino ad approdare ad una sorta di mondo infero, dantesco, dove egli assiste alla propria morte e resurrezione; o ancora alla setta degli Illuminati, che di giorno si mimetizza nei tanti uomini-statua che attirano la curiosità dei turisti di Amsterdam). In questa vertigine, in cui una donna può entrare in una casa nella periferia di Bucarest ed uscirne nel pieno centro di Amsterdam, e in cui l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si mescolano e si confondono (come quando l’”occhio” dello scrittore si allarga dal corpo senza vita di Vasile per innalzarsi, come un prodigioso dolly cinematografico, a inquadrare la stanza, il cortile, il quartiere, la città, e piano piano, in uno strepitoso movimento progressivo di allontanamento, i Balcani, l’Europa, il pianeta intero, e via via il sistema solare e le galassie, fino a mettere a fuoco una figura che assume infine i contorni della zampa pluriarticolata di un insetto!), in questa vertigine il lettore rimane stregato, irresistibilmente invischiato come una mosca in una ragnatela. “Il corpo” è sicuramente un libro interlocutorio: non c’è più la sconvolgente sorpresa provata al cospetto del primo volume della trilogia, che era qualcosa di inaudito, di mai letto prima; inoltre i tanti fili disseminati da Cartarescu non convergono ancora (sebbene alcuni personaggi, come il nero Cedric o la prostituta Coca, riemergano a sorpresa da “L’ala sinistra”, e nonostante l’episodio dell’uomo-serpente, in cui il piccolo Mircea, ipnotizzato dall’illusionista, rivive nel subconscio la propria nascita, sembri il perfetto contraltare della cerimonia iniziatica di Fra’ Armando con cui si era concluso il libro precedente), non convergono ancora – dicevo – verso una fine univoca e coerente, la quale ancora non si riesce a intravedere nella nebbia evanescente dei deliri e delle allucinazioni dell’autore; eppure non si può non riconoscere che si tratta pur sempre di un Cartarescu in purezza, un prezioso distillato che la sua sopraffina arte ha faticosamente secreto per consegnare alla letteratura (parafrasando la “Smisurata preghiera” di De André) “una goccia di splendore, di umanità, di verità”.

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Mircea Cartarescu: "Abbacinante. L'ala sinistra"
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kafka62
03 Ottobre, 2023
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Sì, Emilio, direi proprio di sì.
siti
15 Ottobre, 2023
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Ho tentato Giulio, troppo onirico per me, gli insetti, tra l'altro corposi, sono un distrattore, mentre io rimarrei sempre affacciata in quel casermone di Bucarest che nella mia immaginazione è ridotta a un coacervo di labirinti di spazi urbani. Una cosa è certa: si imprime, scrittura potentissima.
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