Dettagli Recensione
Il labirinto
Un libro magnifico, con il potere di incantare facendosi leggere facilmente.
Una voce narrante ondeggia sui flutti del tempo, vede e sente ciò che è stato già visto e già sentito dal proprio nonno. Il presente intreccia il futuro e una scrittura magistrale culla l'animo, lo incuriosisce episodicamente e poi lo innalza alla commozione. Poche parole capaci di intenerire l'animo, di farlo commuovere fino a renderlo partecipe degli eventi narrati, come se si fosse lì, protagonisti.
Una diagnosi: empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica, malattia rara e incurabile che ha i suoi picchi nell'infanzia, mi piace molto di più la prima definizione e a corredo una simil voce enciclopedica che tratta di neuroni specchio: interessante Gospodinov, sull'onda lunga delle rivelazioni ultime delle neuroscienze.
E poi un filo conduttore, il Minotauro, bambino, figlio, in una nuova veste rispetto alle fonti mitologiche: parlante, ma soprattutto umanizzato e allontanato dall' iconica mostruosità che fa di lui lo spettro di tutti i mali. Si sofferma Gospodinov sulla riproduzione del mito che vede il mostro rappresentato come lattante in braccio alla madre Pasifae, un mostro bambino, nascosto poi nel labirinto, quello nel quale si ferma la nostra immaginazione nutrita da secoli di famelico eccidio di giovani ateniesi sacrificati ai suoi appetiti. Pensatelo bambino, il Minotauro.
E ancora tornare al bambino voce narrante che entra letteralmente nel corpo del padre, nei suoi pensieri, nel suo essere stato anche lui bambino, ladro di uova o ragazzo innamorato o padre di quel te che sbircia la sua intimità. Geniale.
Si apre poi una più netta sezione affidata alla memoria dell'io parlante e si è stati bambini negli anni '70, anche se non nella Bulgaria socialista, ci si ritrova subito nel ricordo: a me sono bastati gli indiani, figure stilizzate in plastica che riportano a scontri epici, inutile dire che non ho mai mosso un soldato. Il pulviscolo del cinematografo, mosca cieca e poi aneddoti del tutto personali ma che, inutile tacerlo, hanno sempre una lontana e venuta assonanza con i miti di cui il narratore si è nutrito fin da piccolo.
Le sezioni successive si accompagnano, purtroppo, all'abbandono dell' infanzia e alla perdita degli effetti della sindrome empatica, a una prima fase di spiegazione dell'affievolirsi degli stessi, segue una carrellata di ricordi: anni '80, '90 e l'allerta pre apocalittica precedente il salto di millennio: qui le notazioni si fanno più evanescenti ma anche sottilmente ironiche, divertenti, nonostante sia analizzato il genere umano nella sua interezza come essere debordante delle più viscide manie e del tutto incapace di cogliere i segni naturali che anticipano la sua fine. In queste osservazioni ci siamo tutti noi, è una parte interessante, a me ha risvegliato echi sebaldiani sul trascorrere del tempo anche se l'intento qui mi sembra più quello di voler ridicolizzare la società super tecnologica, all'avanguardia, che però ci sta disumanizzando progressivamente e inesorabilmente.
Snocciola ricordi la voce narrante e con essi sgrana il Tempo, suo e in qualche misura anche nostro, meno comunista, meno Europa dell'Est, ma anche nostro. È la malinconia del mondo, questa è la sua fisica, il codice per decifrarla sono il mito o l' esametro omerico o Esiodo, Plutarco o più semplicemente il ricordo.
Questa è la fisica della malinconia, un sentimento del tempo che può affidarsi alla fisica quantistica per disgregare l’essere e demolirne la centralità sorridendo della nostra finitezza e aprendo a una prospettiva panteistica molto affascinante. Rimane la malinconia come sentimento del mondo, il nostro, perso in una dimensione temporale fittizia, ma per noi così reale da schiacciarci, se solo ne fossimo pienamente consapevoli; altrimenti non resta che vagare dentro questo labirinto e perdersi senza il filo di una narrazione o al più tentare di costruirla.
Indicazioni utili
Proust
Sebald
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