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Io so perché canta l'uccello in gabbia
 
Io so perché canta l'uccello in gabbia 2023-07-11 13:28:08 enricocaramuscio
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Contenuto 
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    11 Luglio, 2023
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Importante testimonianza

Tra i classici assoluti della letteratura afroamericana, "Io so perché canta l'uccello in gabbia" è un affascinante romanzo di formazione in cui l'autrice, Maya Angelou, racconta in maniera autobiografica il suo cammino di crescita, partendo dall'infanzia per arrivare a quel labile confine tra la fine dell'adolescenza e l'ingresso nell'età adulta. Ma adulta, in fondo, la piccola Marguerite lo è diventata già in tenera età quando i genitori, in procinto di divorziare, la spediscono dalla nonna paterna, nel Sud razzista e segregazionista degli Stati Uniti degli anni Trenta. Eccola quindi, in compagnia dell'inseparabile fratello maggiore Bailey, lasciare la caotica e frenetica St. Louis, nel Missouri, per giungere in Arkansas, precisamente a Stamps, con i suoi cortili in terra battuta, le case solitarie, le strade buie, con la sua gente paga di una vita da cui non si può aspettare niente rispetto a ciò che le è concesso, pur avendo diritto a molto di più, rassegnata alle ingiustizie di un'esistenza iniqua, in un clima di totale apartheid reso ancora più pesante dalla crisi economica dovuta alla Grande Depressione. L'emporio gestito da Momma (così i piccoli chiamano la severa e religiosissima nonna) e dal figlio disabile, lo zio Willie, garantisce una vita tutto sommato agiata, così diversa da quella dei loro clienti, dediti ai lavori più umili e faticosi, talmente abituati alla miseria da trovarla normale. Tuttavia, questo minimo di benessere, pur alleviando l'esistenza, permettendo studi, pasti caldi e un'infanzia giocosa e divertente, non può evitare che la piccola protagonista guardi, capisca, si faccia domande, arrivando presto ad una dura presa di coscienza sulla condizione della propria gente, le differenze insensate tra bianchi e neri, lo stupido senso di superiorità dei primi nei confronti dei secondi, la paura generata dalle rappresaglie del Ku Klux Klan, l'umiliazione di sentirsi rifiutare le cure mediche a causa del colore della pelle. Tuttavia, la nostra eroina si accorgerà presto, a sue spese, che i pericoli possono giungere anche dalle persone vicine, riuscendo comunque a sollevarsi, seppur lentamente e a fatica, da una brutta storia di abusi e violenza domestica, durante una parentesi di vita nel Missouri, in casa di sua madre. L'autrice racconta tutto questo senza dimostrare rancore, senza sfociare in facili autocommiserazioni, senza affidarsi alla lucidità, alla maturità, alla consapevolezza della sè adulta, tornando invece bambina e trasmettendo fatti, sentimenti, paure, speranze, rabbia attraverso un filtro, quello dell'infanzia, dell'innocenza che si scontra con la cattiveria, della purezza sporcata dal sudiciume morale, dei sogni costretti ad annaspare a causa di un mondo che, per le persone come lei, va avanti sempre con la corrente contraria. Ma Marguerite i suoi sogni continuerà sempre ad inseguirli, continuerà a lottare contro difficoltà, pregiudizi, violenza, non si farà sopraffare dalle ostilità, diventando un'affermata e stimata artista a tutto tondo, poetessa, ballerina, attrice, sceneggiatrice, scrittrice capace di regalarci un libro come questo, suggestivo dal punto di vista letterario e importante testimonianza dal punto di vista sociale, perché c'è sempre bisogno di ricordare, combattere, sconfiggere la becera piaga del razzismo. "Sul palco si stava ripetendo l’antica tragedia. Il professor Parsons sedeva rigido, come una statua accantonata da uno scultore. Il suo corpo grosso e pesante sembrava svuotato di ogni volontà e voglia, e i suoi occhi dicevano che non era più con noi. Gli altri insegnanti esaminavano la bandiera (che sventolava a destra del palco), i loro appunti, o le finestre che si aprivano sul nostro campo da gioco tanto famoso. La cerimonia, il momento magico e riservato, tutto trine, regali, congratulazioni e diplomi, per me era terminata prima che chiamassero il mio nome. I risultati non contavano niente. Disegnare le cartine precisissime con inchiostro di tre colori diversi, imparare a pronunciare e scrivere le parole di dieci sillabe, mandare a memoria Lucrezia violentata per intero, tutto inutile. Donleavy ci aveva smascherato. Eravamo cameriere e contadini, tuttofare e lavandaie, e qualsiasi nostra aspirazione a qualcosa di più era farsesca e arrogante. Avrei voluto che Gabriel Prosser e Nat Turner avessero ucciso tutti i bianchi nei loro letti, che Abramo Lincoln fosse stato assassinato prima di firmare la proclamazione di emancipazione degli schiavi, che Harriet Tubman3 fosse morta per quel colpo alla testa e Cristoforo Colombo annegato sulla Santa Maria. Era terribile essere nera e non avere alcun controllo sulla propria vita. Era brutale essere giovane e già addestrata a stare seduta in silenzio ad ascoltare le accuse rivolte alla mia razza senza potermi difendere. Avremmo dovuto essere tutti morti. Pensai che mi sarebbe piaciuto vederci tutti morti, uno sopra l’altro. Una piramide di carne con i bianchi sul fondo, a formare la base, poi gli indiani con i loro sciocchi tomahawk, tepee, wigwam e trattati, i neri con i capelli di stoppa, le ricette, i sacchi di cotone e gli spiritual che spuntavano fuori dalla bocca. I bambini olandesi dovevano inciampare tutti con i loro zoccoli e rompersi il collo. I francesi dovevano strozzarsi con il trattato di vendita della Louisiana (1803), mentre i bachi da seta avrebbero mangiato i cinesi con i loro stupidi codini. Come specie, eravamo un abominio. Tutti quanti."

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Commenti

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Enrico, una recensione che definirei potente.
Mi ha anche incuriosito la dicitura "tra i classici assoluti della letteratura afroamericana" . con un po' di vergogna, devo ammettere che non conoscevo affatto l'autrice.
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