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Figli di un ideale sconosciuto
«È proprio sfortuna».
«Cosa è sfortuna?»
«La fine della lotta armata non appena siamo arrivati noi. Senza avere nemmeno iniziato. Senza aver fatto nulla per il nostro popolo».
«Be', sì. Che schifo di ruolo ci riserva la Storia».
Per quanto sia innegabile che Patria rappresenti il piccolo grande capolavoro di Fernando Aramburu, altrettanto vero è che la sua produzione letteraria è altrettanto ricca di spunti e letture meritevoli di essere conosciuti e tra questi non può mancare “Figli della favola”, ultima opera pubblicata in Italia dove l’autore torna a narrare dell’ETA seppur in modo diverso. È bene precisare che quest’ultimo lavoro è stato scritto in contemporanea di Patria ma racconta, questa volta, delle avventure di due giovani uomini, “Joseba e Asier”, che sono entrati nella militanza armata poco prima che questa venisse smantellata.
Sono due giovani opposti tra loro. Tanto Joseba è timido e impacciato, tanto Asier è rigido e ligio alle regole. I due partiranno per l’addestramento e si ritroveranno nella parte basca della Francia dove, in una fattoria di allevatori di galline, verranno istruiti a dovere. Proprio in questo frangente l’ETA chiude i battenti ed ecco che i due decidono di mettersi in proprio, di costruire una propria organizzazione di cui sono gli unici membri. Hanno vent’anni, nessun soldo, nulla da perdere ma sono anche un duo non perfettamente consapevole della portata delle proprie azioni.
«E continuavano a camminare uno accanto all’altro, immersi in frequenti e prolungati silenzi.»
Ecco, quindi, che Aramburu a sua volta si lascia andare dalla rigida impostazione narrativa che aveva caratterizzato Patria per creare una parodia, nel vero senso della parola, che si fonda sul grottesco e che ha quale obiettivo quello di far emergere la povertà intellettuale dei suoi protagonisti. Perché il male non è necessariamente e sempre e solo legato all’intelligenza di chi lo compie. I due giovani si buttano in battaglie assurde e prive di senso, chiaramente perse in partenza. Vogliono portare avanti una lotta armata, ma non hanno armi. Vorrebbero fare e fare ma non hanno soldi. Compiono piccoli crimini in virtù di chissà quale mito o rivendicazione, rivendicazione o mito che manco loro sanno quale essere. Si ritrovano dalla detta alla fatta con un’ideologia che legittimava al crimine fino a poco prima e che adesso è franata facendo loro mancare la terra sotto ai piedi. Nel mentre Joseba pensa alla sua compagna che avrà ormai partorito suo figlio e Asier è sempre più incline a diffidare del sesso femminile. Saranno però proprio queste figure a dimostrarsi risolute, veritiere e concrete a differenza di loro. Nella realtà, i due, non hanno idea di cosa vogliono fare e di cosa effettivamente vogliono perseguire. Sono mossi da motti quali “gioventù, energia e fede” ma appena si fermano e si chiedono cosa fare, perché fare, come fare, ecco che il castello delle convinzioni crolla perché una motivazione vera a quel che stanno facendo non c’è. Un divario enorme, dunque, tra aspirazioni altissime e gesti irrisori. Un divario amplificato ulteriormente dalla consapevolezza che i due amici sono legati da una ideologia ma si muovono da soli, allo sbando, senza una vera e propria direzione, procedono a tentoni, a tentativi.
Aramburu fa un vero e proprio lavoro di ricerca e di revisione nel momento in cui riprende in mano “Figli della favola”. Se da un lato l’obiettivo è mostrare la condizione umana di due giovani auto-emarginati per un ideale, se da un lato viene mostrato il come la Storia si rifletta sulla storia del singolo, ancora ad essere trattato è il terrorismo che vuol essere definito e descritto per mezzo della voce dei due protagonisti così com’è.
“Figli della favola” è un romanzo grottesco, in chiave ironica ma dalle tinte agrodolci. Se anche i personaggi sono capaci di strappare sorrisi, non manca l’amarezza. Sorprende lo stile volontariamente giocoso e ironico, satirico e pungente, che propone un Aramburu diverso dal solito ma la storia nulla risparmia. Irriverente verso l’ideologia, rispettosa verso chi non c’è più, l’amarezza è quotidianità. L’empatia è tenuta a debita distanza perché è fondamentale leggere lo scritto con una visione critica che non giustifichi dei personaggi illusi e patetici che puntano all’eroismo ma senza nemmeno conoscere dei valori cui il singolo individuo, in primis, dovrebbe avere e fare propri.
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Mai letto il noto autore. A quel che dici implicitamente è "Patria" il libro con cui cominciare a conoscerlo.