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Un padre ed una figlia divisi dal ceto sociale.
Questo saggio autobiografico di Annie Ernaux, che, ricordo, ha vinto il Nobel per la letteratura nel 2022, narra la storia delle sue origini, della sua condizione sociale e del “posto” che occupa nella vita, posto che muta nel tempo e che la porta con il passare degli anni ad un tipo di esistenza diverso ed al successo. Le sue origini ci rimandano ad una famiglia contadina di fine Ottocento, tanta fatica e tanto lavoro, pochi ricordi dei nonni e della loro vita semplice e dura. Ma è la figura del padre quella cui è dedicato il libro, un padre di origini modeste, un onesto lavoratore che, a modo suo, tenta una promozione sociale irta di difficoltà, passando dal lavoro dei campi a quello di operaio e, infine, alla gestione di un bar drogheria. Il rapporto tra padre e figlia tende lentamente ad affievolirsi con il proseguire degli studi di Annie, il padre sembra non capire l’attitudine allo studio della figlia, che vorrebbe impegnata in qualche attività di sostegno alla famiglia: di qui nascono incomprensioni, velati rimproveri, una figlia in cerca di un “posto” diverso, un padre legato a concetti arcaici, comportamenti immutati ed immutabili, frasi e detti di un buon senso superato dai tempi e da certe forme di progresso, insomma, come si direbbe oggi, un padre all’antica. Nel 1967, all’età di 68 anni, il padre muore nel suo letto , probabilmente per una forma di tumore invasivo. “E’ finita”, sussurra la madre sconsolata scendendo la scala che porta alla camera, è finita l’agonia di questo pover’uomo proprio due mesi dopo che la figlia Annie ha ottenuto con pieno merito l’abilitazione all’insegnamento in un liceo.
Il libro che Annie Ernaux dedica al padre, pubblicato da Gallimard nel 1983 e, in Italia, da L’Orma un anno dopo, è un atto d’amore verso il genitore, una persona umile e senza colpe: l’autrice confessa di essersi piegata al volere del mondo in cui vive “un mondo che si sforza di far dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto”.
Ed è forse inconsapevolmente divisa tra due sentimenti: da una parte il suo sguardo punta lontano, cosciente che la vita cui tende è ben altro, con nuovi interessi e nuove mete, dall’altro sente con infinita tenerezza di avere un legame profondo con il padre, fatto di rimpianti per non averlo capito a fondo e di nostalgia per una vita più semplice e genuina, confusa ormai nei ricordi di un passato lontano.
Il distacco tra padre e figlia però resta forte, il divario culturale sempre più profondo, la figlia convinta ormai di non avere più nulla da dire, il padre chiuso nella sua vita di tutti i giorni, con le sue solite frasi abitudinarie, le sue conclusioni affrettate, i suoi modi di conversare privi di quell’ironia che è “la marca di un saper conversare che la povera gente non ha, ma che trionfa al piano di sopra, tra la borghesia…”.
Il libro narra tutto questo, il profilo della figura del padre, prima sfocato, si evidenzia sempre più, prima nel tentativo di ricondurre la figlia al posto che la condizione sociale le ha assegnato, poi nella pacata accettazione di una vita tranquilla da pensionato, vita apparentemente serena ma di breve durata.
Lo stile narrativo è quello consueto di Annie Ernaux, teso, raffinato, senza inutili divagazioni. E’ il racconto della sua esperienza individuale, un’autobiografia di un periodo cruciale della sua vita, in cui sono esposti i fatti in modo semplice, così come sono avvenuti. C’è però una tenerezza di fondo, quasi un velato rimpianto per non aver saputo cogliere la richiesta, muta e inconsapevole, di un tentativo di dialogo.
“Il posto” ha vinto in Francia il Premio Renaudot nel 1984, un riconoscimento annunciato per consuetudine simultaneamente al più famoso Premio Goncourt.
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