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Un ritratto della dignità
Suite francese non è un libro ma un viaggio nel tempo e nello spazio. Uno di quei viaggi che solo i grandi libri ci permettono di fare. Un percorso mentale, ancora prima che letterario, che appassiona chi lo attraversa e che segna l’anima. Colpisce prima di tutto lo stile neutro, intendendo con questo termine una scrittura dallo stile assoluto, asciutto e non riconducibile, nell’analisi, ad un uomo o ad una donna (ammesso e non concesso che una scrittura di genere possa esistere).
Il luogo comune vuole che un libro debba il dovere di catturare il lettore già dalle prime battute ma personalmente ritengo questa regola una sorta di esigenza del marketing moderno. Il lettore dei nostri giorni è abituato, nel migliore dei casi, a calarsi immediatamente, o quasi, nella situazione. Si tratta, come è facile capire, di un’esigenza dalla quale il passato, privo di televisione, internet e caratterizzato da ben altri ritmi, era esente. Ma Suite francese, pur non essendo un testo nato per la moderna industria letteraria (è stato scoperto e rivalutato solo recentemente come tutta la produzione della Nemirovsky) permette già dalle prime battute di disegnare con tagliente precisione già un primo profilo del tono e delle situazioni, personaggi compresi. Anzi, nel loro caso la citata “tagliente precisione” si trasforma spesso in una particolare ferocia priva di rabbia. L’esempio arriva nel momento in cui, nella seconda parte, l’autrice mette in risalto l’umanità dei tedeschi.
Un particolare non da poco soprattutto se si considera che la Nemirovsky, ebrea, doveva, proprio in quel periodo, sfuggire alle persecuzioni naziste, come confermato anche da alcuni suoi appunti ritrovati successivamente alla sua morte, avvenuta in un campo di concentramento nel 1942. In quelle pagine si legge infatti “Giuro qui di non riversare mai più il mio rancore, per quanto giustificato, su una collettività di uomini”. Lo stesso equilibrio richiama alla mente i suggerimenti di Virginia Woolf a proposito del romanzo. La scrittrice inglese, in particolare, lodava Jane Austen proprio per l’assenza pressoché totale, di livore verso quella società patriarcale e maschilista che, in quanto donna, l’aveva costretta alla povertà e all’ignoranza. Oltre che ad una perenne dipendenza economica dai suoi fratelli.
La delicatezza che traspare dalla scrittura della'autrice di Suite francese si avverte anche in altre opere, racconti come La sinfonia di Parigi o Giorno d’estate.
Continuando nell’analisi prettamente stilistica del testo, risalta anche un’altra particolarità: il meraviglioso contrasto tra un paesaggio che, sebbene caratterizzato da una serenità quasi mistica durante l’estate e da una rabbia violenta d’inverno, trasmette comunque la rasserenante certezza di essere “nella sua Natura”. Infatti, agli angosciosi spostamenti di massa, ai bombardamenti, alle scene strazianti che si creano durante l’esodo e in cui l’essere umano si trova costretto, per sopravvivere, a dover tornare allo stato ferino, fa da contraltare una Natura che continua, nel suo svolgersi immutabile. Serafica, placida e incurante degli orrori creati dall’essere umano, appare quasi conscia della sua superiorità. Il Tempo, infatti, procederà implacabile come ha sempre fatto nella Storia e la grande tragedia di una guerra mondiale, che proprio nel flusso dell’eternità e dell’evoluzione rappresenta un batter di ciglia, riguarderà solo il genere umano.
Volendo, invece, soffermare l’attenzione sulle sensazioni dei vari protagonisti non può essere ignorato un altro elemento: il cibo. O per meglio dire l’ossessione e la descrizione minuziosa e ripetuta che viene fatta del cibo negato, immaginato e di quelle provviste spesso nascoste. Tutto questo non deve stupire. Come detto, il quadro che l’autrice ci offre è quello di una popolazione disperata e in fuga, una popolazione variegata che si trova a dover lottare per la sopravvivenza. E che, ora, si trova anche a dover affrontare la fame, quella vera; una sensazione che molti di loro, esponenti dell’alta società, non aveva mai avvertito.
Una fame che, patita nello stesso periodo e per lo stesso motivo (la guerra) pativa anche un’altra donna, anche lei scrittrice: Dacia Maraini. Anch’essa chiusa, da bambina, in un campo di concentramento, anche se in Giappone, ricorda con parole ugualmente angosciate la fame patita e soprattutto la perdita e l’annientamento della dimensione umana e della dignità, visti durante la prigionia. E della fame ne parla la Nemirovsky, questa volta, però, in alcune sue lettere (in alcune edizioni presenti in appendice) nelle quali chiede agli amici di procurale del cibo per lei e per le sue due figlie.
Grande merito della Nemirovsky, infine, quello di aver reso l’orrore della guerra senza cadere nella facile tentazione della scena truce ma riuscendo a svelare la meschinità degli esseri umani, soprattutto quelli che nella “società civile” risultano essere, spesso, i più rispettati. Solo pochi, in questo caso i coniugi Michaud, modesti impiegati di banca, riescono a preservare il meraviglioso, sublime e spesso dimenticato dono della Dignità.
Un dono che l’autrice, donna di grande cultura, conserva anche nella vita reale. Lei stessa, infatti, scriverà al direttore letterario della sua casa editrice, Albin Michel “Caro amico… non mi dimentichi. Ho scritto molto. Saranno opere postume, temo, ma scrivere fa passare il tempo”. E da donna di grande cultura, appunto, non chiederà agli amici solo cibo e soldi, ma anche libri. Quelli che, una volta finiti, fanno sentire il lettore come se avesse detto addio ad un amico.
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