Dettagli Recensione
Un padre ingombrante
John Fante è probabilmente uno degli autori americani più interessanti del panorama statunitense del Novecento, con una prosa fluida e autentica che lascia filtrare vividamente ciò che racconta, capace di focalizzarsi sulle problematiche trattate in maniera efficace e penetrante. Questo romanzo, così come "1933. Un anno terribile" e più del famoso "Chiedi alla polvere" riesce a catturare il lettore e a presentargli le dinamiche di una famiglia italo-americana, coi suoi problemi e le sue tradizioni (forse a volte un po' stereotipate) che fanno sorridere perché in certi tratti ricordano proprio le nostre famiglie italiane: la cucina come regno delle madri e come "mezzo di ricatto" nei confronti dei figli, come tentazione irresistibile per ottenere ciò che si vuole; il melodramma, l'esagerazione, l'attaccamento alla famiglia a volte altalenante, che oscilla tra amore e odio. Tuttavia è la figura del padre a essere al centro di questo romanzo, non è infatti un caso che Dostoevskij sia più volte citato: il padre ingombrante de "La confraternita dell'uva", Nick Molise, è infatti accostabile al Fedor Pavlovic Karamazov che è creatore di dissidio nella famiglia e capace di influenzare profondamente le vite di moglie e figli. Questo non porta tuttavia a un parricidio come nell'opera russa, ma a una sorta di ricerca di comprensione, alla decodificazione dei motivi, alla riscoperta di un rapporto padre-figlio che passa per il lavoro. Sebbene al centro della narrazione ci sia Henry Molise, il figlio, è comunque la figura problematica del padre Nick a essere al centro delle considerazioni dell'autore: un ubriacone, violento e tiranno con la moglie e con i figli; ogni componente della famiglia avrebbe i suoi buoni motivi per odiarlo, ma non è così facile odiare un padre, nonostante sia palesemente una persona tossica. La madre è emblema perfetto di questa controversia: tradita ripetutamente e delle volte anche picchiata, paventa sempre il divorzio ma non è in grado di darvi seguito, anzi, è quella che mostra più apprensione per la sorte di quel marito che, a parole, dipinge come un mostro. Nonostante questo, sono forse i figli ad avere il rapporto più problematico con Nick: uno di loro si è visto negare una carriera da star nel mondo del baseball, a causa dell'egoismo del suo vecchio, che si è arrogato il diritto di scegliere per lui.
La narrazione è concentrata sugli ultimi giorni di vita di questo padre incapace di accettare la vecchiaia, diviso tra una sommessa volontà di ristabilire un contatto con suo figlio Henry e la palese incapacità di rinnegare la propria natura, la cui origine possiamo solo supporre da qualche indizio che Fante sparge qua e là, senza poterne venire a capo. Nick Molise non accetta il passare degli anni, non accetta il venir meno delle proprie forze, non accetta di non essere più nelle condizioni di fare quello che ha sempre fatto egregiamente nella propria vita oltre a bere e fornicare: fare il muratore. Quello descritto in queste pagine è il suo declino finale, l'acquisizione di consapevolezza della fine e l'incapacità di accettarla; il tentativo di stabilire un contatto coi propri cari e una natura che è troppo corrotta per permetterglielo.
La dicotomia amore-odio in questo romanzo la fa da padrone, e l'attaccamento lascia spazio, a un certo punto, al sollievo dovuto alla liberazione da un peso che ci si è portati sulle spalle per tutta la vita: un peso al quale non ci si poteva sottrarre, che ci lascia le lacrime agli occhi ma che sfiacchisce, logora, distrugge.
Certe figure della nostra vita, non importa quanto care siano, delle volte possono essere dei macigni dai quali aneliamo liberarci, ma non possiamo farlo. Solo la morte potrà farlo, ma può mai desiderarsi la morte d'un padre (o di chi per lui)? Chiedetelo a Dostoevskij, o a John Fante.
“Ero anche io un padre, ma non volevo quel ruolo. Volevo tornare indietro nel tempo, quand’ero piccolo e mio padre girava per casa, forte e rumoroso. Fanculo la paternità, non ci ero tagliato. Ero nato per fare il figlio.”
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Ciò che affermi nell'interessante recensione, Valerio, mi incuriosisce, anche per il confronto con Dostoevskij, autore che (ovviamente) apprezzo molto.