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REQUIEM PER IL SOGNO AMERICANO
“- Gente come noi, che lavora nei ranches. è la gente più abbandonata del mondo. Non hanno famiglia. Non sono di nessun paese. Arrivano nel ranch, raccolgono una paga, poi vanno in città e gettano via la paga, e l'indomani sono già in cammino alla ricerca di lavoro e d'un altro ranch. Non hanno niente da pensare per l’indomani […]
Lennie interruppe, - Noi invece è diverso! E perché? Perché... perché ci sei tu che pensi a me e ci sono io che penso a te, ecco perché.”
George e Lennie sono due braccianti che girano in cerca di lavoro nella California degli anni ’30, disposti a trasportare sacchi d’orzo per undici ore al giorno in cambio di una paga da fame e di un alloggio di fortuna. I due formano una coppia davvero strana, perché Lennie è un gigante dalla forza erculea, ma con l’animo e la testa di un bambino. In un mondo individualista, cinico e spietato, George e Lennie stanno insieme come un’entità anomala e bizzarra ma indissolubile, che il tempo ha cementato come un’inveterata abitudine. George si prende cura di Lennie in quanto questi non è in grado di badare a se stesso, ma nel contempo Lennie, con il suo contagioso e infantile entusiasmo, attizza nel compagno la flebile ma inestinguibile fiammella del sogno di un pezzo di terra tutto per loro, un posto da poter chiamare casa e senza più padroni da cui dipendere. Anche se Lennie ha il brutto vizio, nonostante il suo candore di fondo, di cacciarsi nei guai, a causa della sua incapacità di controllare le proprie emozioni (a me ha ricordato vagamente la creatura del “Frankenstein” di James Whale, nella scena in cui uccide senza volerlo la bambina con cui sta innocentemente giocando in riva al fiume), egli è tuttavia l’unico antidoto contro quella solitudine e quell’isolamento che rappresentano il vero male di vivere nell’universo steinbeckiano. Che sia un vecchio cane quasi cieco o un povero mentecatto, tutto serve per non affrontare da soli il desolato cammino della vita negli anni della Grande Depressione. Ma, come ben sa chi conosce un poco Steinbeck, il destino è costantemente in agguato per cercare di spezzare i legami di fraternità e di amicizia ed affossare ogni velleitaria utopia.
“Uomini e topi” è, più che un romanzo, una sorta di racconto lungo, genere a cui peraltro Steinbeck è ricorso più volte nel corso della sua carriera (si pensi al celebre “La perla”). Lo spirito e l’ambientazione sono gli stessi di “Furore”, il capolavoro che lo scrittore americano pubblicherà solamente due anni più tardi, ma qui l’umanesimo steinbeckiano è viziato, a dire il vero, da un didascalismo troppo programmatico e da una sorta di fastidiosa prevedibilità, che l’esiguo numero di pagine non aiuta certo a dissipare. L’invito di George a Lennie a venire a nascondersi presso la solitaria pozza d’acqua in caso di guai, la presenza di una “femme fatale” e di un marito collerico e prepotente, e persino l’esistenza di una pistola che un ranchero tiene nascosta sotto la branda (ricordate che Cechov aveva scritto che “se in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi spari”?), sono tutti segnali indicatori di una tragedia in divenire, ipostasi di un ineluttabile precipitare degli eventi verso un finale troppo facilmente intuibile. Fatta la tara di questi difetti, e detto che la traduzione alquanto invecchiata di Cesare Pavese dell’edizione da me letta non è stata certo d’aiuto, non va comunque sottaciuto il fascino arcano di due personaggi originali e difficilmente dimenticabili, oltre che il profondo realismo nella descrizione di una realtà sociale di ingiustizia e di sofferenza, che fa di Steinbeck uno dei più autentici e sinceri cantori di un’umanità reietta e perseguitata da un fato avverso, e della inesorabile falsità dell’”american dream”.
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