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Lucy e il suo Wiliam che fu
«E sembrava che non ci fosse niente da fare. E niente infatti si fece. Perché io non riuscivo a parlarne, e William diventò meno felice e si andava chiudendo in tanti piccoli modi, accadde davanti ai miei occhi. Con questa consapevolezza continuammo a vivere le nostre vite.»
Avvicinarsi alle opere di Elizabeth Strout è sempre una esperienza di grande prosa narrativa e stilistica. Sia che si tratti di opere autobiografiche, racconti che di opere di narrativa focalizzate su storie di grande intensità e contenuto. Vincitrice del Pulitzer del 2008 con “Olive Kitteridge”, ogni sua pagina sa essere intrisa di eleganza e padronanza. Grazia e vita, empatia e speranza. Un caleidoscopio di emozioni che ogni volta sopraggiunge con diversa intensità nel lettore. Talune volte con maggiore incisione, altre con minore forza evocativa ma pur sempre mantenendo quel centro narrativo capace di lasciare al conoscitore interessanti esperienze di lettura. Questo perché in primo luogo i suoi narrati sono storie di vita, traumi, ricordi di vissuto, miserie del quotidiano ma anche fratture mixate a fragilità e perdita e solitudini. Sono storie di persone.
Torna ad essere protagonista Lucy Barton dopo “Mi chiamo Lucy Barton” e “Tutto è possibile”, opere che già la vedevano protagonista (Einaudi, traduzione a cura di Susanna Basso). Lucy ha adesso sessantaquattro anni. È una donna matura esattamente come mature sono le sue riflessioni. Sul primo marito William con cui esordisce in questo scritto, su quei ricordi che la vedevano convalescente in un letto d’ospedale in attesa della visita delle sue bambine con il papà che poi ha lasciato per i tanti tradimenti. Ed è importante dire che adesso Lucy è una donna di successo, con una carriera consolidata, con delle figlie con cui ha mantenuto un rapporto forte e premuroso, e ora anche vedova perché da un anno ha perso il secondo adorato marito, David. William dal suo canto di anni ne settantuno ed è sposato con la terza moglie, Estelle che di anni ne ha ventidue meno di lui. Ha una carriera di scienziato agli sgoccioli e una vita da vivere ancora.
Ed è proprio questo “Oh William” di cui al titolo a reggere la narrazione. Perché sarà proprio questo rapporto bonario con il primo marito a suscitarlo ogni volta con una diversa accezione. Ed è proprio di questo matrimonio che ora Lucy ci parla. Di un uomo che è stato prigioniero di guerra, di un tedesco, di lavori forzati, di una fattoria di patate nel Maine in cui si innamora, di un segreto mai svelato dalla madre e della madre. Ma soprattutto, Lucy per mezzo di Elizabeth, ci racconta dell’intimità e della distanza che caratterizza ogni persona e ogni legame con l’altro. Anche e soprattutto quando ci si sente in bilico, inadeguati, invisibili, irriconoscibili. Quando la distanza prende e la fa da padrona anche se noi vorremmo che così non fosse.
Non mancano ancora riflessioni sulla classe sociale, sulla realtà americana, su quella mobilità sociale che spesso è solo parvenza ma non anche verità. Non dimentichiamo che è proprio la Strout che per prima ha parlato della “white trash” i cd. bianchi poveri e cioè quella classe sociale senza possibilità d’appello e voce. Tra presente, passato, solitudine e insicurezze. Ancora, invisibilità. Perché la protagonista persiste a sentirsi tale. Nonostante la sua vita piena, un affresco di un doppio matrimonio, un equilibrio tra le figlie, un vivere denso e ben cadenzato.
«Va detto però che non ho mai afferrato i meccanismi del sistema di classi americano, perché io arrivavo dal fondo assoluto e quello è un marchio che non ti levi più. Voglio dire che non sono mai riuscita a superare le mie origini, la miseria, credo sia questo.»
“Oh William” è uno scritto di gran contenuto riflessivo, che conferma le capacità dell’autrice, che descrive e delinea un’altra fase della vita della protagonista che ha accompagnato le letture di molti conoscitori, ma è uno scritto che talvolta è un poco ridondante, che tende in parte ad arrovellarsi su se stesso. Questo per i fatti narrati, per l’età descritta, per lo stile narrativo volutamente scelto che è sempre elegante e ben strutturato ma che in questo caso finisce con l’essere anche ripetitivo tanto da rallentare la lettura e renderla a tratti più difficoltosa soprattutto nel ritmo che perde di intensità.
Nel complesso resta un buon titolo, uno scritto che approfondisce tematiche care alla romanziera, uno scritto che tocca corde intime e che non teme di mettersi a nudo. Perché alla fine ciascuno è un mistero, un mistero di se stesso, per se stesso e per il mondo di fuori.
«E poi ho pensato, Oh William! Ma quando penso Oh William!, non voglio dire anche Oh Lucy!? Non voglio dire Oh Tutti Quanti, Oh Ciascun Individuo di questo vasto mondo, visto che non ne conosciamo nessuno, a partire dai noi stessi? Tranne forse un pochino, un minimo sì. Però siamo tutti misteriose costellazioni di miti. Siamo tutti un mistero, ecco che cosa voglio dire. Potrebbe essere l’unica cosa al mondo che so per certo.»
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Ultimamente, con "Olive, ancora lei", ho trovato nuovamente un libro all'altezza, di lettura interessante e gradevole.
Ora, quest'ultima opera tradotta dall'editoria italiana. I pareri paiono piuttosto discordanti.