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"Guardiano, com'è la notte?"
Romanzo modernista, di un modernismo impraticabile, impervio, a tratti illeggibile nelle spire acuminate della sua prosa convoluta, nel baluginare imprevedibile delle sue misteriose associazioni di senso, questo romanzo di Djuna Barnes, apparso nel 1936, ha la grana materica e feroce della notte di cui si nutre - una notte al contempo fisica e metafisica, quasi spirituale, che si insinua con pervicacia indolenza nelle pause spasmodiche della scrittura. E in questa notte che pian piano divora lo spazio e costringe l’azione nei fugaci aloni di luce che la crudeltà della Barnes di rado concede, i personaggi si aggirano come sonnambuli, o forse come fantasmi, in una Parigi malata nello spirito, corrosa dal verde acido degli anni Venti. Al centro di questo libro sta Robin, la bella schizofrenica, Robin con la sua “grana arborea”, il suo afrore di funghi, con “quella carne della terra che sa di umidità prigioniera” adagiata su un letto di madido bianco, palpitante nella sua “depravata innocenza”, laconica nella sua esiziale esistenza. Attorno a lei, come in un quadrilatero hoffmansthaliano, il barone Volkbein, sbiadito eponimo di un nome inconsistente; Jenny rapinosa e incostante, affamata di Robin - come affamato di carne è chi ha paura del vuoto; Nora - la disperata Nora - innamorata, perduta, dilaniata da Robin che continuerà a conservare come un vizio assurdo nel cuore e infine il più memorabile- il dottor Matthew O’Connor, Guardiano della Notte, lui che della notte conosce i segreti e gli insondabili recessi, lui che troviamo ingabbiato nei suoi lunghi, scostanti soliloqui, nel profluvio terrorizzato delle sue parole, lui che troviamo, anche solo per un istante, travestito da donna nell’intimità della sua stanza, lui che vive su di sé, prima di tutti e per tutti gli altri personaggi, la malattia di un’esistenza troppo dura da vivere.
Molto dovrei dire su Djuna Barnes, sul perché sia poco nota, sul perché sia ingiusto farne soltanto “una scrittrice lesbica”, sul perché Eliot ebbe a dire di non aver mai visto “un genio così grande, in una persona con così poco talento”. Quello che invece voglio dire è che bisogna preparasi leggendo Nightwood a non capirne molto, ad accettare che la concettosità della prosa della Barnes, incistata com’è nei fantasmi di una biografia ferita, di un mondo ostile, impedirà al lettore di cogliere la storia. Eppure c’è qualcosa nell’alone miracoloso con cui queste creature ci appaiono, nell’illogica - ed eppure cristallina - disperazione delle loro battute, qualcosa di definitivamente, irrimediabilmente vero nell’arreso abbandono delle loro parole, che non possiamo riconoscere a questo libro un distillato amarissimo di umanità. E non possiamo soprattuto negare alla Barnes la capacità sublime di descrivere i propri personaggi in modi inaspettati, poetici, sinestetici. Ci sono, in queste pagine, descrizioni tra le più belle (e vi sfido) che potrete trovare come lettori. E ancora c’è in Nightwood un capitolo di esasperata perfezione (“L’intrusa”) in cui (e vi sfido ancora) troverete una delle dichiarazioni d’amore più disperate della letteratura. E quando sarete giunti alla fine, quando davvero avrete forse compreso poco o nulla di quello che è successo, potrete solo balbettare insieme a Nora “Dottore, sono venuta a chiedervi quello che sapete sulla notte”.
E questo romanzo forse illeggibile saprà rispondervi col fiore segreto e il reciso incanto del suo mistero.
“Il profumo esalato dal suo corpo aveva la qualità del profumo dei funghi, quella carne della terra che sa di umidità prigioniera eppure è così asciutta, ma l’offuscava l’odore d’olio d’ambra, recondita malattia del mare, che le dava l’aria di aver invaso un sonno incauto e completo. La sua carne aveva una grana arborea e sotto si intuiva una struttura ampia, porosa, consunta dal sonno, come se il sonno fosse una decomposizione che la ghermiva sotto la superficie visibile”.