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IL GRANDE MAHLKE
Ne “La vera vita di Sebastian Knight” Vladimir Nabokov immagina, con una bizzarra metafora (debitrice della famosa scena della morte di Polonio nell’Amleto shakespeariano), che il pomo d’Adamo di uno dei suoi personaggi si muova “come la sagoma protuberante di uno spione nascosto dietro un arazzo”. Venti anni dopo Gunther Grass fa del pomo d’Adamo del protagonista di “Gatto e topo” addirittura l’oggetto di una originale e bizzarra allegoria. Come ne “Il tamburo di latta”, primo capitolo di una trilogia di cui “Gatto e topo” costituisce il secondo atto, è infatti ancora una deformità ad essere il simbolo di una posizione antagonistica nei confronti della società tedesca negli anni oscuri del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale: lì era il nanismo di Oskar (il tamburino che a tre anni ha deciso di non crescere più e che, pur non citato esplicitamente, fa qui due brevi apparizioni nei panni del bimbo che martella sul tamburo in spiaggia, “trasformando il pomeriggio in una fucina infernale”, e in quello che, nel parco di Oliva, Pilenz e Mahlke incontrano mentre, per aggirare i due e sempre con lo strumento rimbombante, “traccia un semicerchio che sapeva di magico”, oltre a essere citato di sfuggita come mascotte della “banda degli spolveratori”), mentre in “Gatto e topo” è il gigantesco gargarozzo di Mahlke, la sua “fatale golazza” che suggerisce “l’immagine di una filovia continuamente in movimento sopra il collo della camicia”, il suo “topone inquieto”, a essere il simbolo della contrapposizione tra individuo e massa, tra cittadino e società. Certo, Mahlke non ha la carica blasfema, iconoclasta e distruttiva di Oskar, in quanto Grass sceglie nella sua opera seconda di non utilizzare un registro esasperatamente grottesco. Anzi, egli è per molti aspetti agli antipodi della condizione di “freak”, di essere “border line” di Oskar, e, pur introverso e solitario, è apparentemente integrato nel gruppo di amici che trascorrono le estati sul dragamine semi-affondato al largo del porto di Danzica, al punto di essere persino oggetto di ammirazione e invidia (oltre che di un’attrazione un po’ morbosa, quasi omoerotica, da parte del narratore) per le sue spericolate immersioni nell’interno della nave da cui sempre riporta a galla qualche arrugginito cimelio. Quelle in cui lo scrittore tedesco descrive le torride giornate estive trascorse dal gruppo di coetanei sul ponte del dragamine, tra bagni di sole, cazzeggi e prime esperienze sessuali, sono tra le sue pagine più ispirate, facendo di “Gatto e topo” una sorta di anomalo romanzo di formazione, incentrato sul passaggio cruciale tra adolescenza e maturità, su quella linea d’ombra che lo scoppio del conflitto costringerà a varcare precipitosamente, obbligando un’intera generazione a fare i conti con la violenza e la brutalità del mondo adulto. La retorica patriottica e la propaganda bellica non lasciano scampo e, per non soccombere al conformismo imperante, al gatto famelico che cerca di mangiare il topo inerme, non restano che il boicottaggio, l’ostruzionismo e, in fin dei conti, la fuga. La decisione di disertare di Mahlke e quella di non crescere di Oskar sono in questo senso del tutto coincidenti, così come l’internamento nel manicomio del secondo non è dissimile dall’esilio del primo nella stanza del telegrafista sul dragamine affondato, entrambi – manicomio e stanza segreta nei meandri della nave – estremo rifugio per proteggersi dalla raccapricciante inumanità del mondo esterno.
In “Gatto e topo” vi sono evidenti echi di Alain-Fournier (il narratore, non a caso, chiama l’amico “il grande Mahlke”), ma quello di Grass è soprattutto un romanzo sotterraneamente anarchico e provocatoriamente polemico. Con una scrittura fantasiosamente sfrenata, costantemente divagante e centrifuga, ricca di originali neologismi (“slazzaronare”, sparolìo”, “immerdarsi”, “informaggito”, ecc.), Grass sembra sostenere che nella vita si può essere gatti o topi, carnefici o vittime; Mahlke, che nell’intimo è un diverso (persino la sua devozione per la Vergine Maria è esagerata e sfiora il fanatismo), un asociale (anche se da grande sogna di fare il clown), sceglie coerentemente di essere topo, anzi il campione dei topi, pur di non appassire nella desolazione dell’inautenticità. Simile a quella del Novecento di Baricco, la sua scomparsa nel ventre della nave è un malinconico ma fiero atto di ribellione per non cedere alla fascinazione di un mondo che non riconosce come proprio e per non essere complice della prepotenza e dell’orrore.
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