Dettagli Recensione
VERITA' E MISTIFICAZIONE
“Teniamo fra le mani un libro morto. O ci sbagliamo? A volte […] sento che la «soluzione assoluta» è lì, da qualche parte, celata in qualche brano che ho scorso troppo in fretta, oppure che è intrecciata con altre parole il cui aspetto familiare mi ha tratto in inganno.”
E’ possibile raccontare con oggettiva fedeltà, con inconfutabile veridicità, la vita di un uomo, penetrare nell’ineffabile mistero della sua interiorità, carpire l’oscuro segreto della sua essenza? “La vera vita di Sebastian Knight” è un romanzo che si interroga costantemente sul tema dell’identità, ma non lo fa mai in termini filosofici e intellettualistici, bensì raccontando le tragicomiche vicissitudini di un personaggio che cerca, dopo l’improvvisa morte in giovane età del fratellastro Sebastian Knight, uno scrittore di dubbia fama, stravagante ed eclettico, di scriverne la biografia, nonostante non abbia più avuto contatti con lui da diversi anni. Il suo scopo è quello di preservarne la memoria, sottraendola all’arbitrio e alla discrezionalità di chi, come l’opportunista segretario personale Mr. Goodman, su cui si concentra la feroce satira di Nabokov nei confronti della categoria dei critici letterari, rischia di macchiarla indelebilmente con ritratti dozzinali, retorici e semplicistici, scritti esclusivamente a scopi commerciali (“Il suo libro si occupa solo di idee di cui sia ben collaudata la capacità di far presa su cervelli mediocri”). Se all’inizio si ha il sospetto che il narratore, di cui non viene mai svelato il nome completo ma solo l’iniziale V., sia un antesignano di Kinbote, lo psicotico e fraudolento millantatore di “Fuoco pallido”, ben presto si capisce che l’onestà dei suoi intenti e la sua buona fede sono autentiche, e il paragone letterario più appropriato è semmai con l’ingenuo e idealista Fedor Konstantinovic de “Il dono”. Come quest’ultimo, egli si lancia in un’improba impresa letteraria, aliena da ogni compromesso, cercando di riportare a galla con certosina pazienza e tenace abnegazione, un pezzo dopo l’altro, i molteplici frammenti della vita di Sebastian per poi ricomporli come in un puzzle al fine di dar loro un senso il più possibile autentico e definitivo. Il narratore si mette così alla ricerca di tutte quelle persone che hanno conosciuto Sebastian e che quindi possono essere in grado, raccontandogli gli episodi della vita di quest’ultimo di cui sono stati testimoni, di riempire quei vuoti e quelle lacune che la sua personale conoscenza del fratellastro, limitata ai pochi anni dell’infanzia e dell’adolescenza, inevitabilmente gli impedisce di fare in autonomia. Le cose non vanno però nel senso auspicato dal protagonista, in quanto le persone cercate fanno di tutto per occultarsi o si dimostrano reticenti, e le testimonianze si fanno sempre più ambigue e sfuggenti. Il romanzo assume quindi un andamento bizzarramente centrifugo, con la figura di Sebastian che rimane perennemente fuori fuoco, opaca e dai contorni indefiniti (un po’ come accade in certi quadri fiamminghi del ‘500 – “La salita al Calvario” di Bruegel per fare un solo esempio -, dove il soggetto principale viene ritratto sullo sfondo, quasi nascosto alla vista, mentre comparse marginali si mostrano in primo piano agli occhi dell’osservatore esterno), e la biografia dello scrittore si trasforma poco a poco, imprevedibilmente, nell’autobiografia del fratellastro, con la descrizione dei goffi e commoventi tentativi da lui intrapresi per trovare, persino con l’ausilio di un investigatore privato, le tracce smarrite di una esistenza incapace di concedersi se non nella forma di un irresolubile enigma. La ricerca del narratore assume così, gradualmente, le fattezze di un sogno, che usa la realtà per inseguire quelle che sembrano sempre di più delle mere fantasticherie. La verità promessa dal titolo sfugge infatti sempre in maniera irridente, non si dà mai, anche quando noi crediamo che sia lì, a portata di mano. E’ emblematico l’episodio in cui il narratore accorre, dopo un travagliato viaggio attraverso la Francia, al capezzale di Sebastian, ricoverato in un ospedale alla periferia di Parigi, lo veglia amorevolmente tutta la notte, ascoltandone il faticoso respiro e pregando per la sua guarigione, per poi accorgersi il mattino dopo che la stanza è occupata da uno sconosciuto e che il fratellastro è morto invece il giorno prima del suo arrivo; o quello, raccontato in un libro di Sebastian, in cui lo scrittore va a visitare la pensione di Roquebrune dove aveva vissuto la madre, si siede nel giardino per tentare di guardare le cose intorno con gli occhi che furono della donna, calandosi con devozione in un passato a lui precluso e solamente immaginato, ma alcuni mesi dopo scopre fortuitamente che la Roquebrune in cui la madre aveva abitato era un’altra, nel Var.
Al termine del romanzo riusciamo a sapere ben poco di Sebastian Knight, se non quello che è stato messo nero su bianco nei libri da lui pubblicati. Viene da chiedersi allora che rapporto ci sia tra i romanzi di Sebastian e la biografia scritta dal narratore. C’è un dettaglio che mi sembra importante mettere in evidenza, ancorché difficile da rilevare e in apparenza del tutto trascurabile. Alcuni dei personaggi che appaiono fugacemente nel corso della ricerca della misteriosa amante russa di Sebastian (il giocatore di scacchi, la persona con una ciocca di capelli grigi, la donna che mette inavvertitamente il piede in una pozzanghera) sono altrettante figure che troviamo anche nelle pagine de “L’asfodelo incerto”, l’ultimo suo romanzo scritto pochi mesi prima della morte. E’ una pura coincidenza, oppure dobbiamo dedurre che la biografia si ispira, anziché ai fatti reali, alla produzione letteraria dello scrittore defunto? Se la risposta è positiva, allora non resta che concludere che il resoconto del narratore non è del tutto realistico e veritiero, il che getta un’ombra ulteriore di ineliminabile ambiguità su tutto il romanzo. Magari, come “L’asfodelo incerto” (il cui tema è quello di un uomo che sta morendo) si ispira alla vita del suo autore (che in effetti, per colpa di gravi problemi cardiaci, sta vivendo gli ultimi anni della sua esistenza), così il libro del narratore (che – come già sottolineato – pare a tratti, più che una biografia, un testo incentrato sui tentativi del protagonista, fondamentalmente destinati all’insuccesso, di scrivere una biografia) non esita a ricorrere alle figure dei romanzi del fratellastro per riempire con l’immaginazione artistica altrui i vuoti inevitabili della realtà. In questo senso non ci sarebbe una “vita vera”, ma una vita soltanto verosimile. La falsificazione a fin di bene del narratore sarebbe pertanto più autentica della vita narrata da Mr. Goodman sulla base di esperienze e di testimonianze dirette, le quali, a causa della mediocrità del memorialista, non fanno che distorcere inesorabilmente la personalità del soggetto raccontato (si pensi agli aneddoti del suo passato che Sebastian ha raccontato a Mr. Goodman, e che altro non sono se non delle burle dietro alle quali si nascondono ironiche citazioni di Shakespeare, Cechov o Jerome K. Jerome), anche se rimane forte il rischio di cadere in un opposto travisamento della verità, non già (come nel caso di Mr. Goodman) per compiacere i lettori, bensì per compiacere il soggetto, ancorché defunto, del lavoro letterario (“Sto cercando di esprimere un’idea che forse gli sarebbe piaciuta”).
Alla fine la biografia di Sebastian Knight altro non è che un libro intorno ad altri libri: se la “vera vita”, intesa come somma degli avvenimenti (amori, lutti, esperienze) che la compongono, sfugge ad ogni possibilità di conoscenza, non resta che rivolgersi al testo scritto come a una sorta di specchio attraverso i cui riflessi poter afferrare almeno i contorni dell’esistenza del suo autore, alla stregua di un enigma la cui soluzione è forse celata nelle pieghe di qualche pagina letta senza la dovuta attenzione, di qualche parola fraintesa nella sua apparente semplicità. Non è secondo me un caso che gli estratti e le citazioni dei libri di Sebastian Knight disseminati lungo tutto il romanzo di Nabokov siano le cose che colpiscono di più il lettore, per la loro geniale originalità e la loro adamantina purezza. Le pagine di Sebastian Knight, che per tutta la sua vita artistica ha lottato con “il bisogno di colmare l’abisso tra espressione e pensiero”, per cui gli unici peccati che non lo lasciavano indifferente erano i solecismi e secondo il quale “nessuna vera idea può esistere veramente senza le parole tagliate su misura”, superano in stile quelle più dimesse del suo biografo, con ciò portando alla paradossale, pirandelliana conseguenza che Nabokov si sa fare più piccolo e più umile dell’autore a cui ha dato vita. I libri di Sebastian Knight lasciano trapelare delle intuizioni artistiche di folgorante bellezza, possibilità narrative che fanno quasi rimpiangere che Nabokov le abbia lasciate solo in forma di trama approssimativa, di abbozzo. Come nel caso di Italo Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, le storie si Sebastian Knight schizzate da Nabokov si ramificano e germogliano all’interno del libro principale, conferendogli una struttura a scatole cinesi e una impronta inconfondibilmente meta-letteraria. “La vera vita di Sebastian Knight” è infatti un libro sulla scrittura di un libro che parla di uno scrittore attraverso i libri di quest’ultimo. Sarebbe troppo facile vedere nel narratore un doppio di Nabokov, nonostante la presenza di molti elementi autobiografici, come l’iniziale del nome, V., la morte violenta del padre, la condizione di esule e la difficoltà di scrivere in una lingua diversa da quella madre (“Una lingua è una cosa viva e concreta da cui non ci si libera tanto facilmente”). Non bisogna però cedere a questa tentazione, perché Nabokov è uno scrittore che ama depistare i suoi lettori e trarli in inganno, celandosi alla loro vista così come Sebastian Knight di fronte ai suoi biografi (non a caso “knight” è, negli scacchi, il nome inglese del cavallo, ossia il pezzo le cui mosse sono le più imprevedibili). Nabokov non fa approdare il suo romanzo nelle acque tranquille di un porto sicuro, ma lo lascia in alto mare, in balia della corrente, senza nessuna garanzia e senza alcuna certezza definitiva. “Io sono Sebastian e Sebastian è me – scrive nelle ultime pagine il narratore -, o forse siamo tutti e due qualcuno che né l’uno né l’altro conosce”. Come già aveva affermato Wittgenstein, ogni cosa può essere vera o falsa, e solo la verifica diretta può stabilire la verità. Ma di fronte alla morte, laddove ogni verifica non è più possibile, il passato rimane sconsolatamente muto e sigillato, come un antico sepolcro seppellito sotto la polvere del tempo, che nessuno può sperare di riportare alla luce del sole se non nella finzione dell’opera d’arte, ben sapendo però che la verità riceve sempre una certa forma da chi racconta, è rimodellata a sua volta da chi legge o ascolta, e chi l’ha davvero conosciuta non può più ormai né avallarla né impedirne le inevitabili deformazioni.
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