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Confessioni di un perdono impossibile
Leggendo questo esordio letterario della Yourcenar, uscito nel 1929, molto si può intuire di quelle linee poetiche che condurranno l’autrice alla sua opera più famosa, “Le memorie di Adriano”, perché in fondo i libri dei buoni autori tornano e ritornano sempre sui medesimi problemi irrisolti. A risaltare sin da subito è l’immedesimazione dell’io narrante con una figura maschile: se la letteratura ci ha spesso abituati a memorabili personaggi femminili fatti vivere sulla pagina da autori uomini, più raro è il contrario e ancor più rara è il garbo delicato che l’autrice adopera nel farci assistere a una difficile confessione. Una confessione che a ben vedere illumina senza svelare, fa intuire senza dire, plasmata da sospiri e silenzi, tenuta insieme dalla vergogna. Una confessione che non confessa mai la colpa, ma anzi la lascia emergere, come un corpo diafano, nelle pieghe della propria pudicizia. Pudicizia, scrivo ora, vergogna, ho scritto prima, perché nella resa di questo personaggio alla propria moglie, una moglie che ha tradito con uomini e che ha sposato senza poterla davvero amare, c’è tutto l’ambiguo oscillare di chi non sa scegliere tra la condanna e l’assoluzione.
Se dunque l’omosessualità e la scelta della figura maschile ci riportano direttamente alla figura di Adriano, più sottile è la linea formale che fa quadrare il cerchio tra i tre tempi di “Alexis”, delle “Memorie” e dell’Adriano storico. Per chi ha frequentato la letteratura latino, gli anni che seguono alla morte di Augusto sono quelli che segnano, a livello letterario, il trapassare della prosa classica, elegante e compita, dell’epica Virgiliana e dell’opera ciceroniana ai ritmi più studiati e sincopati del periodare di Seneca, al gusto del paradosso astratto di Lucano e infine alla contratta oscurità del ritmo di Tacito. E proprio questi ultimi tre autori la Yourcenar deve aver frequentato e assimilato per inoltrarsi nella prosa densa e concettosa di Alexis: nessuna frase di questo libro, pur così elegante e raffinato nel gusto, concede un istante al respiro, ma anzi si inerpica sempre più in alto alla ricerca di una foce cui mai si arriva. In questo periodare febbrile e concitato sta tutta la prosa di quegli anni di un Impero che già scontava i primi segni della propria inarrestabile decadenza e il preludio alla scrittura sempre densa, ma più ariosa delle “Memorie”, quasi che l’autrice abbia negli anni appreso la lezione del respiro e della pazienza.
Quello che però resta in Alexis e che più di tutto colpisce, è che questa confessione del protagonista alla moglie mai riesce a toccare il punto più doloroso della propria verità. Proprio nel pudore/vergogna di Alexis a dire la realtà delle cose, a pronunciare le parole che non hanno sinonimi, sta il dramma che si consuma nel silenzio e cioè l’incapacità del protagonista, ancora dopo anni, di confessare la propria condizione a se stesso. Perché molti dimenticano che l’unico giudice a cui chiedere davvero perdono siamo noi stessi e che l’unico giudice che spesso non è disposto a concederlo siamo ancora noi. E Alexis alla fine può solo cibarsi della sua stessa vergogna.
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