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La porta del labirinto
Partendo dall'assunto che l’unica certezza che abbiamo, nella nebulosa che ci avvolge - una trappola come il “labirinto senza porte” che è la vita - è la morte, Saramago si diletta nel sospenderla per alcuni mesi, e dopo averne studiato l’effetto, soprattutto sociologico, nel cosiddetto consorzio umano, a ripristinarla ma con modalità diverse.
Il 31 dicembre la morte cessa di manifestarsi, lascia nel limbo i morituri, i malati terminali e gli anziani oltre misura per lo più; a pensarci, senza ipocrisia, tutto il fardello umano che faticosamente la società civile riesce a gestire: malattia e morte con le implicazioni connesse di accettazione, cura, sodalizio, compassione, benché ci si sforzi, rappresentano ancora eventi che fanno emergere tutto il limite degli uomini, persi nella sete di vita che malattia o vecchiaia dei propri cari paiono cristallizzare. È l'eterno conflitto della vita contro la morte, il risultato sappiamo tutti qual è. L’egoismo trionfa e apre la pista alla vera morte, quella dell’anima, per poi lasciare il passo a “sora nostra morte corporale”.
Questa prima ipotesi surreale, affascinante quanto le altre di Saramago, una per tutte la cecità lattea, ha il dono di immergerci in una serie di riflessioni che ci portano contestualmente a indagare sull’essenza umana, sul comportamento del singolo e di riflesso sulle ricadute che esso ha sulla rete di relazioni sociali. Vengono inscenati diversi quadri consequenziali alla diretta assenza della morte: l’eutanasia, il sotterfugio, la “maphia” (ovvero un sistema di gestione della impossibilità di morire appaltata dallo stato a un non stato), insomma situazioni che non hanno nulla di surreale, e che al contrario accompagnano l’amara constatazione che purtroppo ad esse siamo già pervenuti. Una riflessione quindi sulla difficile coesistenza uomo-morte che passa dall’assoluta negazione della stessa morte per giungere all’altrettanto scontata verità che tutto il nostro sistema sociale è basato su di essa. Si pensi solo alle religioni: è nota infatti la sensibilità dell’ateo Saramago verso queste manifestazioni culturali. Insomma, tutta la prima parte del romanzo merita davvero la lettura.
L’ipotesi successiva, passati alcuni mesi, è che la morte si manifesti nuovamente, portatrice ancora una volta di esistenziali sconvolgimenti, come è nella sua natura, e qui la narrazione inizia ad arrancare fino a stagnare in una rappresentazione, dai toni squisitamente teatrali e barocchi, della solitudine della stessa morte che, nella sua svolta di entità ormai personificata, si ritrova a gestire un errore procedurale. Non sempre i piani vanno come si vorrebbe e la soluzione a questa impasse è tutto tranne che ciò che ti aspetteresti da Saramago! Finale per me scontato e deludente che forse sarà meglio apprezzato da chi crede ancora “amor omnia vincit”.
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