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L'orrore
“ (…) voi non sapete, non potete saperlo, cosa significhi avere occhi in un mondo di ciechi, non sono regina, no, sono soltanto colei che è nata per vedere l’orrore, voi lo sentite, io lo sento e lo vedo.”
L’orrore. L’orrore.
Quello di cui parlava il personaggio di una celebre pellicola di fine anni ‘70, fantasma onnipresente che prendeva sembianze e volto (quello di Marlon Brando) solo nei minuti finali del film. Pronunciando quella parola nella penombra, quasi nel buio, una sola parola per infiniti sottintesi: “l’orrore”.
Lì – nel film – l’orrore era la guerra, negazione di ogni residuo d’umanità.
Qui – nel romanzo di Saramago – l’orrore è il crollo dell’organizzazione sociale: vengono giù, insieme, le fondamenta materiali e morali della società. E l’istinto di sopravvivenza non serve a conservarla, ad affermarla, ma, capovolgendo il senso delle cose, ne diventa la negazione.
Tutto è scatenato da un’epidemia, un virus che si diffonde improvvisamente e rende cieca l’intera popolazione, “risparmiando” solo la moglie di un medico. Quando lui, tra i primi a perdere la vista, viene internato in una struttura di ricovero rimediata da un vecchio manicomio, lei finge di essere cieca per poterlo seguire. Quel luogo sprangato e pattugliato all’esterno da militari che hanno ordine di sparare a vista contro chiunque intenda lasciarlo, diventa subito terra di nessuno.
Recensioni molto meritorie, prima di questa, si sono soffermate sul significato metaforico della cecità immaginata da Saramago.
Tutto giusto: i millenni necessari a cementare il contratto sociale – il patto che ci tiene legati e collegati – evaporano nello spazio di 24 ore, nel tempo necessario a capire che nessuna umana organizzazione può ovviare alla generale perdita della vista. E la metafora diventa ancor più evidente nel raccogliere quella già espressa in un altro famoso film: il mondo degli uomini, ora che sono privati di vista, diventa un mondo di zombi… ciechi che si muovono in gruppo, con le mani protese in avanti, con cautela, disorientamento, sporchi, debilitati, si urtano, inciampano, cadono, anche su quelli già caduti, vanno spasmodicamente all’assalto dei supermercati, si contendono il cibo, le riserve alimentari.
Non sono zombie, tuttavia: quelli non avevano coscienza, gli uomini privi di vista sì. Frana la società, ma non frana l’uomo, che si muove ora su un campo d’azione totalmente mutato. E cosa è l’uomo denudato di ogni sovrastruttura?
E’ bene? (Pietà per se stesso e per gli altri, comprensione, sacrificio, dedizione).
O è male? (Ruberie, minacce, aggressioni, stupri, sopraffazioni).
Nel libro ci sono entrambi. La dicotomia della natura umana, analizzata da Saramago, si riduce a questo interrogativo: cosa ne è dell’umanità senza la società? I miasmi della regressione testimoniano che qualsiasi virus, qualunque pandemia può portare alla fine della società, se si verificano certe condizioni.
Ma il libro ha un diverso finale, ugualmente potente, per ora solo l’ammonimento di cosa sia l’estinzione…
Quando il sole sorgerà di nuovo come astro visibile, resteranno due cose: le macerie e le domande. E solo le prime potranno essere spostate e messe da parte.
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Commenti
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Sono interessato all'autore, ma questo libro per il momento deve aspettare.
Grazie dell'accoglienza. Non pubblicavo una recensione da più di un anno su questo sito e nemmeno m'ero accorto fosse passato tutto questo tempo... ci sono periodi (anche lugnhi) in cui la vita di tutti i giorni non ti lascia il tempo per fare tutte le cose che ti piacerebbero. Peccato.
Intanto Saramago. Non ho letto "Le intermittenze della morte", Laura: so solo che non è generalmente ricordato al livello dei romanzi più alti dello scrittore portoghese.
Magari mi sbaglio, Emilio, ma dello stesso scrittore, più che con "Cecità", ti vedrei alle prese con "L'anno della morte di Ricardo Reis".
Non tutti i romanzi di Saramago hanno la stessa "altezza" ma, a mio giudizio, almeno quattro sono imperdibili. E gli altri, come tu sottolinei, difficilmente deludono.
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