Dettagli Recensione
IL LATO OSCURO DELLA CIVILTA'
“Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio.”
“Non c'è nessuna nobiltà consolatoria in questa storia”, “niente di nobile nelle mie sofferenze”, confessa l’io narrante di “Aspettando i barbari”, ossia il magistrato che da molti anni amministra la giustizia in una cittadina ai confini dell’Impero. Il romanzo che Coetzee ha scritto nel 1980, all’inizio della sua carriera letteraria, non si propone quindi – a detta del suo protagonista – come un esemplare apologo morale, anche se, a ben pensarci, avrebbe potuto facilmente diventarlo: la storia di questo anonimo funzionario di frontiera, libertino e amante della vita pacifica (“non ho chiesto altro che una vita tranquilla in tempi tranquilli”), che vede turbare la propria confortevole routine, fatta di solitarie battute di caccia e piccoli scavi archeologici, dall’arrivo di un manipolo di feroci militari inviati dalla lontana capitale per prevenire e reprimere una possibile invasione barbarica, e si trova obtorto collo messo di fronte alla scelta di cosa fare rispetto alle ingiustizie e alle violenze da essi metodicamente perpetrate, e cioè se mettere la testa sotto la sabbia e far finta di nulla oppure scuotersi dall’apatia e reagire, questa storia – dicevo – può fare infatti apparentemente pensare a un’opera edificante ed impegnata come ad esempio “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi. Se Tabucchi scrive una appassionata denuncia del fascismo e una commovente parabola sulla capacità dell’uomo comune di ribellarsi ai soprusi della dittatura, Coetzee fa però una operazione molto più ambigua e sfaccettata, per niente convenzionale e scontata. Certo, a un primo livello si può leggere “Aspettando i barbari” come una esplicita esecrazione dei guasti prodotti nella storia dalla bieca oppressione dell’uomo sull’uomo, e più in particolare dal colonialismo e perfino, vista l’origine dello scrittore, dall’apartheid. Uno dei punti di forza del romanzo sta in fondo proprio nella sua atemporalità, nella sua indeterminatezza storica e geografica, che fa sì che ogni riferimento storico sia plausibile: la Terza Divisione che arriva dalla capitale ricorda così le SS, gli interrogatori del famigerato colonnello Joll e dei suoi scagnozzi riportano alla memoria i processi-farsa staliniani, e le torture a cui vengono sottoposti i prigionieri l’Inquisizione spagnola, e l’immaginazione del lettore può parimenti andare, senza tema di finire fuori strada, tanto agli ebrei dei lager nazisti quanto agli herero massacrati dalle forze coloniali tedesche nell’Africa del Sud-Ovest. “Aspettando i barbari” è tuttavia – come accennavo – anche un saggio lucidissimo e spietato sulle pulsioni più animalesche e brutali che allignano nell’animo umano, a stento tenute a freno e camuffate dall’evoluzione della civiltà e dai rituali della vita sociale, e sui meccanismi insinuanti e diabolici che il Potere esercita per ottenere e conservare il consenso della maggioranza, alimentando scientemente le paure della gente e solleticando il suo mai del tutto sopito lato sadico. Viene in mente il famoso saggio di Elias Canetti, “Massa e potere”, in cui il grande autore mitteleuropeo studia i meccanismi psicologici della violenza delle masse, riconducendola ai due istinti elementari dell’esistenza animale, l’aggressività e la paura: queste pulsioni fanno sì che un gruppo di “brave persone” possa arrivare a commettere crimini terribili (si pensi ai linciaggi del Ku Klux Klan, perpetrati da normali padri di famiglia e devoti cittadini) senza sentirsi in colpa (in quanto la colpa condivisa non è più colpa, ma viene in qualche modo purificata), purché avvengano nei confronti di una vittima, di un capro espiatorio, che assuma in sé lo stigma della “diversità”. Nel romanzo di Coetzee le orribili scene di fustigazione pubblica dei prigionieri barbari catturati dalla spedizione del colonnello Joll rispecchiano perfettamente queste caratteristiche. Nelle facce della gente che assiste alla macabra cerimonia “non c’è odio, né sete di sangue, ma una curiosità così intensa che sembra prosciugare i corpi, lasciando vivi solo gli occhi, organi di un nuovo, sconvolgente appetito”. Il magistrato potrebbe in fondo comportarsi come i suoi concittadini, i quali vengono addirittura invitati dai soldati, come se si trattasse di un gioco innocente, a frustare i prigionieri in loro vece, ma in lui scatta qualcosa di imprevedibile: la conoscenza del diverso. E’ possibile ignorare la sofferenza di chi non si conosce, di chi viene irrimediabilmente confinato nella sua alterità, ma se solo gli si consente di avvicinarsi al nostro mondo, la sua umanità emergerà prepotentemente, facendo crollare la nostra stolida presunzione di innocenza, la nostra egoistica convinzione che “queste cose non ci riguardano”. E’ l’inevitabile meccanismo dell’empatia, della compassione, che trasforma l’ignavia in vergogna, che fa sì che il magistrato, una volta resosi personalmente conto delle sevizie cui vengono crudelmente sottoposti i prigionieri del colonnello, non possa più vivere senza un costante disagio: “Non avrei mai dovuto prendere quella lanterna per andare a vedere cosa succedeva nella baracca vicino al granaio. D'altra parte era impossibile, una volta presa quella lanterna, metterla giù. Il nodo si stringe da solo, e non ne trovo il capo”. Spinto da questo sentimento, il magistrato inizia a prendersi cura di una donna barbara, resa storpia e quasi cieca dalle torture, invitandola prima a dormire sotto il suo tetto, incurante delle malevole allusioni e delle dicerie della gente, e organizzando poi una pericolosa spedizione nel deserto per riconsegnarla alla sua tribù. Sarebbe fin troppo facile vedere in questa figura di magistrato, che pur di non tradire la propria umanità non esita violare i tabù sociali e trasgredire le imposizioni dell’autorità, incurante delle conseguenze delle proprie azioni, una sorta di parabola cristologica. Dal rito quotidiano della lavanda dei piedi della donna barbara fino al vero e proprio calvario cui va consapevolmente incontro, quasi a voler prendere sulle sue spalle i peccati commessi dai suoi concittadini, tutto sembra deporre a favore di questa identificazione. In realtà, nel comportamento del magistrato gli aspetti più nobili ed eroici si alternano, in consonanza con la complessità dostojevskijana del romanzo, con quelli più ambigui ed enigmatici. Il magistrato non è innamorato della ragazza che accoglie nel suo letto, e neppure prova per lei un vero desiderio erotico; ancora meno è in grado di instaurare un autentico rapporto di amicizia e di conoscenza. Prevale forse in lui una sorta di paternalistica preoccupazione, quasi che accudire la ragazza fosse l’unico modo per non sentirsi più in colpa, per riparare da “uomo di legge” ai misfatti della sua gente nei confronti di una popolazione inoffensiva e pacifica, e purtuttavia perseguitata ingiustamente. Una sorta di carità pelosa, insomma, che non lascia esente da rimorsi l’uomo, il quale sospetta di essere mosso dagli stessi desideri oscuri dei torturatori, ossia di cercare il segreto, qualunque esso sia, per introdursi nell’animo della ragazza (nei sui sogni ella gli appare non a caso con una faccia vuota, senza tratti, impenetrabile). Il magistrato rispetta la ragazza barbara, la tratta civilmente e con equanimità, ma in fondo non riesce mai ad arrivare a capirla veramente; alla fine può solo restituirla alla sua gente come estremo atto di riparazione e condannarsi a un futuro di nostalgia e di rimpianti. Il tentativo, sia pur destinato all’insuccesso, di un rapporto con lo “straniero”, con il “nemico”, mette paradossalmente il magistrato in una situazione di contrapposizione e di alterità sia rispetto ai suoi concittadini sia nei confronti dei “barbari”. Il suo atroce supplizio, la sua progressiva, infamante discesa alla condizione di paria, espulso dalle sue funzioni, dai suoi privilegi e per ultimo dallo stesso consesso sociale, è il logico, inevitabile destino riservato a questo memorabile personaggio che ha scelto – per dirla con le parole di Alvaro Mutis – di andare “in direzione ostinata e contraria”.
“Aspettando i barbari” ricorda, per la sua ambientazione ai margini del deserto e per la beckettiana attesa di una invasione che non si concretizza mai, “Il deserto dei tartari”. La cittadina di frontiera è un po’ come la Fortezza Bastiani di Dino Buzzati, un avamposto isolato dalla civiltà, immerso in una natura ostile, impervia, pericolosa, ma a suo modo affascinante. Le somiglianze con “Il deserto dei tartari” si limitano però a queste poche suggestioni. Più profonda è invece la consonanza con il racconto di Kafka “Nella colonia penale”, a partire dalla fanatica convinzione che alla rivelazione della verità si possa arrivare solamente con la sofferenza fisica fino ad arrivare alla macabra cerimonia di fustigazione, in cui i prigionieri vengono frustati fino a quando il sangue ed il sudore non hanno cancellato la parola “nemico” scritta con la polvere sulle loro schiene (laddove nel racconto kafkiano il comando trasgredito veniva inciso dalla diabolica macchina, con una serie di aghi, direttamente sul corpo del condannato). “Aspettando i barbari” non eccede però mai nel citazionismo fine a se stesso. Pur con uno stile che procede cronachistico, scarno, quasi dimesso, esso è capace di accendersi improvvisamente in fiammate di puro orrore. Non credo di esagerare se affermo che il romanzo di Coetzee sia uno dei più sconvolgenti che abbia mai letto, più ancora dei libri più scuri e demoniaci di Cormac McCarthy. La discesa dal magistrato nei gironi infernali della degradazione più oscena e repellente è raccontata dallo scrittore sudafricano senza addolcimenti, senza eufemismi, in una escalation di torture e di umiliazioni che sono dei veri e propri pugni nello stomaco del lettore, il quale solo di rado trova il soccorso di una qualche pietosa ellissi. I metodi del colonnello Joll e del suo braccio destro Mandel si propongono sistematicamente di far emergere l’impietosa debolezza del corpo umano, che spogliato di ogni diritto, di ogni dignità, di ogni decenza, diventa pura materia, mera carne, esposto implacabilmente alle necessità fisiologiche e alla paura del dolore e della morte (“L'unica cosa importante per loro era dimostrarmi cosa voglia dire vivere in un corpo in quanto corpo, un corpo che può coltivare delle idee a proposito della giustizia fintanto che è intero e in buona salute, ma che se ne dimentica subito, appena gli acchiappano la testa e gli ficcano dentro un tubo, per riempirlo di acqua salata finché comincia a tossire e a vomitare e a svuotarsi”). Come nei libri di primo Levi, non è prevista alcuna salvezza, alcuna palingenesi. In “Aspettando i barbari” c’è invece una continua alternanza di sogno e di realtà, ma la realtà, ghignante e infernale come un quadro di Bosch, è ancora più visionaria e insostenibile del più raccapricciante degli incubi. A differenza degli allucinati dipinti del pittore fiammingo, il romanzo di Coetzee conferisce tuttavia al lettore l’ingrato privilegio di potervisi specchiare e, a fatica, con impudica sincerità, decifrare, come in un ritratto deformato e grottesco, una morale per nulla consolatoria: i veri barbari da temere non sono fuori delle nostre mura, ma – ahimé – sono dentro di noi.
Indicazioni utili
"Il deserto dei tartari" di Dino Buzzati
Commenti
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Non ho letto questo libro,, ma conosco l'autore attraverso altre sue opere. Certo, è uno scrittore di livello!