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A voce sola
Questo è un romanzo corale, redatto però in uno stile particolare, un fluire ininterrotto del parlato, un periodare collettivo a voce sola, a firma di Kent Haruf, uno scrittore americano che è indicato da molti critici, a mio parere a ben ragione, al livello dei più grandi romanzieri statunitensi, da Ernest Hemingway a William Faulkner, da John Dos Passos a Francis Scott Fitzgerald, da J. D. Salinger a Jack Kerouac, passando per Philip Roth e Saul Bellow.
Come quelli, Kent Haruf descrive con incisività la realtà americana del suo tempo, ritrae a modo suo, con estrema concretezza, l’essenza della sua gente, nel bene e nel male.
Ci fa conoscere l’odierno homo sapiens d’oltreoceano, lo yankee visto nel suo habitat più naturale, quello delle grandi estensioni rurali tipiche della gran parte della provincia americana, come a dire l’americano più vicino allo stato brado, non ancora plasmato dall’opportunismo, dalla frettolosità, dall’individualismo necessari a sopravvivere nelle grandi metropoli statunitensi, dove invece l’uomo medio è costretto a mascherarsi, fingere di essere ciò che non si è, perché troppo spesso in America spostarsi, trapiantarsi dalla provincia alla città, per i motivi più vari, per studio, per frequentare i college, le università, e poi per lavoro, significa trasformarsi in tutt’altro, perdendo la propria impronta originaria, accentuando per difesa solo i lati caratteriali aspri e deleteri.
Allora Kent Haruf per contrappunto analizza la vita vera, in tutte le sue declinazioni, quella in versione ancora genuina, intatta nelle sue caratteristiche, qualunque queste siano, non necessariamente quindi solo quelle idilliache, tutt’altro.
Haruf non fa della morale, trae morale dell’esistenza di quanti ancora non “traviati” dall’esasperata civilizzazione, e perciò ancora americani puri e non spuri, quasi fossero, in un certo senso, diretti discendenti degli indigeni nativi americani, a suo tempo colonizzati.
Descrive allora lo scorrere dei giorni di Holt, emblematica contea, del tutto identica alle tantissime analoghe realtà a tenuta prettamente agricola che, come un immenso patchwork, costituiscono nell’insieme la coperta che si estende a coprire l’intero continente americano.
Coperta il cui tessuto è quindi costituito dai tanti piccoli e grandi paesi, cittadine più o meno vaste, villaggi di poche case, fattorie ed immense estensioni terriere, strade polverose, colline, lunghissimi nastri d’asfalto, motel, miriadi di campi coltivati, in sintesi la grande provincia rurale yankee, il cuore stesso dell’America.
Molti autori, nei loro libri e nei loro film, celebrano l’America on the road: Haruf ci parla di Holt, non si sofferma “on the road” ma sulla “little town” e sui suoi abitanti, così facendo esterna i luoghi e l’umanità dei suoi protagonisti in maniera molto più semplice e chiara, diretta e ruspante, genuina, forse finanche trasparente, certamente priva di fronzoli ed orpelli.
Holt è l’emblema dell’America provinciale, qui il termine “provincia” non ha alcuna valenza diminutiva, indica invece dove origina, forte ed impetuoso, il battito vitale della nazione, quello che ne fa il grande Paese che è, sotto tutti i punti di vista.
Gli abitanti di Holt sono perciò la proiezione di tutti gli americani, con le loro caratteristiche più marcate. Qui si parla allora di tutto, di solitudine e solidarietà, di unione e isolamento, di valori e di viltà, di rinuncia e tenacia, tutti insieme sussurrati in modo piano, anche quando i toni salgono.
Il valore aggiunto della prosa che Haruf, in questo ed in altri suoi libri, pure ambientati ad Holt, sta in questo giungere dal particolare al generale, descrive magistralmente, nei dettagli, il modo di essere tipico di questi luoghi, e di riflesso quello di tutto il resto del Paese.
Per Haruf la grande città altro non è che quanto di esagitato rimane dopo la trasposizione esasperata della provincia da cui deriva.
Perciò ne scrive l’origine, il divenire, il modo di porsi di fronte agli usuali accadimenti dell’esistenza, e lo fa così come va fatto, semplicemente esponendo i fatti crudi del trascorrere dei giorni, a scuola, al lavoro, nelle case, nei campi, nei luoghi di svago, esattamente come avvengono, sospendendo ogni giudizio, astenendosi da ogni considerazione etica di sorta.
Ci parla allora dell’allevamento del bestiame, del comportamento di vacche gravide o sterili, e poi di, vitelli, cavalli, cani, animali da cortile; delle pratiche di inseminazione di queste bestie, dei loro parti, delle loro malattie, finanche nei particolari delle autopsie veterinarie necessarie alla salvaguardia di infezioni. Ed ancora, si sofferma per esempio, cambiando di colpo prospettiva, ma senza scosse, sull’andamento della locale vita scolastica, scrive di aule, lezioni, incontri periodici con i genitori ed alunni, nonché sui dissidi eventuali tra professori e studenti; e continua, analizza il fallimento di unioni o la riuscita di matrimoni, l’instaurarsi felice o meno di legami ed amicizie, lo scaturire di incomprensioni e conseguenti litigi e dissapori.
Non si sottrae a mostrarci il bailamme della vita sociale locale, il tempo libero trascorso nei cinema, o nelle sale da ballo, segue i riti delle bevute nei bar del fine settimana, o i picnic nei parchi e le escursioni in città.
Senza commenti constata l’osservanza, più per abitudine che per fede, delle funzioni religiose, e però seguite in modo costante e assidua.
Ci presenta tipi tristi e pessimi soggetti, brave persone e rozzi campagnoli dal cuore d’oro, ci fa partecipare in prima persona alle sagre ed ai festeggiamenti delle feste comandate, offre alla nostra attenzione euforie e depressioni, gravidanze indesiderate ed insegnanti assai più caritatevoli di genitori chiusi nel loro menefreghismo ipocrita.
Segue i ragazzini nell’usuale pratica americana di addetti alla consegna in bicicletta dei giornali nelle ore antelucane, nonché nei loro giochi, pensieri, sentimenti, tribolazioni di ogni tipo, sempre in prima persona e senza mediazione degli adulti, questo è anche un romanzo di crescita, e non solo dei giovani.
Kent Haruf emoziona, ci fa commuovere, indignare, riflettere, arrabbiare, e lo fa senza sforzo.
Lo scrittore riporta i fatti, ma non interferisce con loro; è un cronista, dispensa il racconto, si presenta quasi come un cantastorie folk, ma non fa distinzione tra buoni e cattivi, fra cose giuste o infamità, tra egoismi e slanci di umanità ed empatia, lascia che le emozioni nascano, le sensazioni prendano, i fatti scorrano, accadano, ce li sussurra all’orecchio, e basta.
Le cose che riporta seguono una loro logica, anche abbastanza comune, usuale, prevedibile, e i tipi umani reagiscono ai fatti secondo la loro indole: proprio per questo, talora ci sorprendono, sono imprevedibili, esattamente come avviene nella realtà.
Haruf è un romanziere che riporta il vivere, il lascia vivere e vivi come ti senti di vivere, poi le conseguenze ne derivano da logica o da sentimento, democraticamente, a scelta.
Lascia al lettore la facoltà di scegliere quale personaggio adottare, per chi simpatizzare, da chi staccarsi, chi lo annoia o chi invece detesta, al netto di ogni altra considerazione che non sia quella personale di chi legge e segue le vicende narrate, esattamente come avviene nella vita reale.
Ambienta le sue storie nella più vera, e genuina, realtà americana, quella della provincia agricola, che tanta ricchezza fornisce al paese e tanti tipi umani esporta, ognuno in qualche modo, e ciascuno a suo modo, forgiati dai cicli della ruralità.
I suoi personaggi vivono motu proprio, si raccontano, questo non è un romanzo di dialoghi, è un dialogo continuo, ognuno che agisce parla, principalmente a sé stesso prima che con gli altri protagonisti, e così dicendo rivela, racconta, si espone, si mette a nudo e insieme si consiglia e si suggerisce sul meglio da fare per stare al suo meglio, proprio secondo la sua indole ed il proprio interesse. Interesse che può essere bieco e meschino, come quello di un genitore di rigorosi principi morali ma freddo, insensibile, arido, ed anaffettivo, o quello di uno studente adolescente, mal cresciuto, viziato, incapace e cattivo che vigliaccamente mostra la sua ignominia rifacendosi sui più deboli. Coinvolgimento che può essere invece anche solidale in maniera tanto burbera quanto commovente, come assicurarsi che una povera ragazza, ospite per bisogno e necessità, abbia coperte necessarie per ripararsi dal freddo notturno, fino a preoccuparsi di procurarle, a proprie spese, la migliore carrozzina per neonati reperibile ai grandi magazzini per l’imminente arrivo di un frutto di gravidanza indesiderata, e però coraggiosamente accettata: qui si vede, a gran luce, il gran cuore dell’America, la faccia bella del paese ospitale ed accogliente.
I buoni nel testo di Haruf non sono tali per definizione, spesso sono rudi e grossolani, insospettabili ed improvvisi, istintivi, ma la loro virtù sta nel rendersi accoglienti, disponibili ad ascoltare e a capire, a immedesimarsi, quindi crescono, migliorano, solo così si evolvono in americani buoni.
Kent Haruf, come i pionieri americani, percorre in lungo e in largo la pianura della provincia rurale nel cuore degli states per tracciare i propri, insoliti e mirabili, estremamente esplicativi, cerchi nel grano. I solchi più profondi non sono tracciati dagli alieni, ma dagli umani migliori, lasciano il segno.
Titoli come il “Canto della pianura” e poi altri a seguire, come “Crepuscolo” e “Benedizione” e altri ancora, più di un testo scritto sembrano uno spartito musicale.
Questo testo, che nella lingua originale suona come “Plainsong”, è un romanzo che canta, letteralmente, è una canzone dolcissima, una poesia in musica, riporta una melodia, quasi una lirica dal ritmo ipnotico, un pezzo lieve, sommesso, a fior di labbra e non a voce spiegata, provvisto di un originale ritmo sereno, tranquillo, discreto. E potente.
Mai pesante, noioso, monotono, tutt’altro, è un canto soft da cantautore alla Bob Dylan anziché uno stile graffiante alla Bruce Springsteen: giusto per intenderci, perché qui si parla di America, la storia si svolge ad Holt, una imprecisata e immaginaria cittadina rappresentativa al meglio di tante analoghe realtà urbane site nel cuore degli states più genuini, quelli a timbro rurale, i soli che più delle grandi città, della grande Mela e di tutte le note megalopoli costituiscono l’America, la sola, unica, essenziale vera America. Perciò serve un brano deciso, ma fluido, non una nenia, o un fracasso, ma una ballata.
“Canto della Pianura” è un canto sottile a voce sola, quasi senza musica, e però armonico, direi a cappella, segue un ordine preciso di note che in attimo prende il lettore e lo accompagna lieve quasi in un volo pindarico sulla pianura del consorzio umano, anzi più in alto, svetta sui monti.
Levita in alto, non permane a livello del suolo, questo è quanto sa fare una buona lettura, in questo eccelle un bravo romanziere come Kent Haruf, un autore che della vita americana ha saputo trarne, come pochi sanno fare, una canzone d’autore sommessa, da sussurrare, in tono lieve, senza accompagnamento, a voce sola. E che ti resta in testa anche dopo, a spartito chiuso.
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Secondo me, rappresenta l'America rurale, l'America 'profonda' come si suol dire, non tutta l'America però, non quella delle grandi città.
Mi hanno colpito la scarsissima presenza dello Stato e lo scarso senso dello Stato dei personaggi. Poi l'isolamento culturale quasi senza la visibilità delle istituzioni : comunità religiosa, scuola pessima sotto tutti i punti di vista ...
Era meglio la Holt immaginata decenni prima e rappresentata in "Vincoli" , romanzo che mi è piaciuto anche di più.