Dettagli Recensione
“la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza”
LA MACCHIA UMANA (2000)
di PHILIP ROTH
GENERALE. Come in altri romanzi, Roth racconta una storia dando la parola a Nathan Zuckermann (NZ), che è al tempo stesso uno degli attori della storia e il romanziere che racconta sia le cose che ha vissuto personalmente nel contesto di quella storia sia ciò che la sua immaginazione di scrittore gli suggerisce avendo conosciuto le persone di cui parla. Questa volta NZ racconta la storia di Coleman Silk (CS) e di Faunia Farley (FF), “che ora sono morti” (p. 59).
IL TITOLO. È Faunia che parla della “macchia umana” e NZ commenta: “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui (…) è in ognuno di noi” (p. 266-7). Insomma, non è diverso per esempio da quel che dice Baudelaire nel poema liminare dei Fiori del Male “Al lettore” … Comunque il titolo vuole coagulare i tanti temi che si intrecciano nel romanzo intorno al concetto della “macchia” che ogni personaggio ha in sé e che costituisce il suo segreto.
TRAMA. USA, fine ‘900. Lui, CS, era solo un vicino di casa con cui NZ aveva giusto scambiato un Buongiorno! Buonasera! finché un giorno non era piombato sconvolto in casa sua dopo i funerali della moglie. “Dovevo scrivere una cosa per lui”, “scrivere di come i suoi nemici ad Athena, nel menar botte contro di lui, dicendo di lui tutto ciò che non era e non avrebbe mai potuto essere, avevano non soltanto snaturato una carriera professionale svoltasi all’insegna della massima serietà e dedizione, ma anche ucciso quella che era stata sua moglie per più di quarant’anni” (p.14). NZ apprende così che CS, docente di letteratura greca, anni prima aveva rivoluzionato l’università di Athena in qualità di preside per migliorarne il livello e si era così inimicato non poche persone, le quali alla prima occasione gliel’avevano fatta pagare approfittando della denuncia di razzismo da parte di due suoi studenti di colore che avevano voluto interpretare in quel senso una parola - una parola! - da lui pronunciata. Quella parola aveva innescato una serie di fatti che lo avevano condotto prima alle dimissioni da preside di facoltà, poi anche alle dimissioni dall’insegnamento e all’esclusione dall’ambiente accademico. Di quello che CS gli ha chiesto di scrivere non si fa più menzione nel romanzo, però i due uomini stringono una forte amicizia, tanto che, due anni dopo, il primo confida all’altro che “all’età di settant’un anni [ha] una relazione con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavor[a] al college” (p. 3). Si tratta di Faunia (nome che evoca la selvatichezza), non bella né colta, ma talmente disincantata, per le prove cui la vita l’ha sottoposta da essere refrattaria a qualunque idealismo e anche aspettativa sentimentale. E questo amore, forte senza pretendere di chiamarsi amore, in cui l’una e l’altro si possiedono senza promessa di un domani, permette a CS di ritrovare il piacere di vivere e a Faunia … non lo so, un po’ di serenità, credo. Senonchè pochi mesi dopo che NZ è venuto al corrente di questa relazione morranno uscendo di strada con la loro auto. NZ è convinto che l’incidente sia stato provocato dall’ex-marito di lei, Lester Farley (LF), un reduce del Vietnam che non ha mai superato le sue ossessioni. In occasione del funerale dell’amico, cui partecipa la sorella di CS, NZ scopre che l’amico aveva un segreto grande come una casa: lui non era un ebreo bianco come si era accreditato fin da quando si era arruolato nei marines, bensì figlio di neri che nei secoli si erano talora incrociati con dei bianchi, per cui, per uno scherzo della genetica, lui poteva sembrare un bianco. Ovviamente lo aveva fatto per avere tutte le chance dei bianchi. E perché nessuno, nemmeno sua moglie potesse saperlo, aveva escluso la sua famiglia dalla sua vita. Al funerale di CS NZ tenta di spingere i familiari di CS a far sì che si indaghi sulla morte dei due amanti, ma senza risultato. D’altra parte, la storia si conclude con una lunga conversazione di NZ con LF intento a pescare nel ghiaccio nella solitudine più assoluta (“Lontano dall’uomo, vicino a Dio”) ed armato di una trivella ben affilata per forare il ghiaccio. Alla fine NZ si allontana e, capendo che LF ha capito che lui ha capito, scrive: “Sapevo che, se e quando avessi terminato il libro, sarei dovuto andare a vivere altrove” (p. 394). Dopo aver appreso il segreto di CS NZ ha infatti deciso di scrivere la storia di Coleman e Faunia.
I TEMI. Troppi: non solo la discriminazione razziale e l’ipocrisia in materia sessuale (lo scandalo Clinton-Lewinski del 1998 è sullo sfondo), che Roth sovrappone o comunque associa a mio avviso indebitamente, ma anche il recupero psicologico dei reduci del Vietnam, la critica del sistema scolastico e accademico, il mobbing e persino l’agricoltura (vedi le pagine dedicate alla fattoria modello dove lavora Faunia), temi su ognuno dei quali scrive pagine che sembrano dei pezzi d’autore appunto su quella materia.
GIUDIZIO. Dopo aver letto “Pastorale americana” francamente mi aspettavo che il piacere della lettura si rinnovasse nella stessa misura, e invece no. Riconosco senz’altro la grandissima acutezza di Roth in materia di psicologia, però 1. accumula troppi temi, come detto sopra; e 2. la lingua ha l’immediatezza ma anche i difetti di una narrazione orale abbastanza impromptu, soprattutto la verbosità (vedi il frequentissimo ricorso alla ripetizione del tipo “era un uomo, un uomo così, un uomo che …”) e la monotonia sintattica delle molte pagine in cui frasi brevi o brevissime si susseguono così veloci che non se ne sente … il sapore, se così si può dire. Personalmente, poi, non amo molto che un autore o un regista giochi a rimpiattino con me come se lui fosse il gatto e io il topo. Mi riferisco al segreto di CS. Nel primo capitolo ma anche oltre, per bocca di NZ, Roth si esprime più volte in modo da indurre il lettore a pensare che CS sia un ebreo bianco, però a posteriori si capisce il senso di questo passaggio a p. 19: “Tutto sommato rimaneva, anche alla sua età, un discreto pezzo d’uomo, il tipo di ebreo col naso piccolo e la mascella sporgente, uno di quei neri molto chiari che a volte vengono scambiati per bianchi”.
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Commenti
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Di questo romanzo avevo sentito parlare fin troppo bene. Tu ridimensioni quell'entusiasmo che alcuni ammiratori acritici dello scrittore americano dimostrano pressoché per ogni libro del loro beniamino.
Che metta troppa carne al fuoco non mi stupisce e anch'io ne sarei infastidito.
Ho comunque il titolo in lista, ma ormai non mi faccio illusione di trovare qualcosa che si avvicini a Pastorale Americana.