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"Le donne dovrebbero essere libere"
“L’età dell’innocenza”, pubblicato nel 1920, fu il primo romanzo scritto da una donna a vincere il prestigioso premio Pulitzer per la narrativa.
Vi si narra una tormentata storia d’amore nella New York di circa cinquant’anni prima, ancora lontana sia dalla guerra che dal clima del ruggente decennio dell’età del jazz. La società che viene magistralmente rappresentata da Wharton è un universo chiuso, statico, nel quale i soggetti, tutti ricchissimi e preoccupati soltanto di andare all’Opera o dare una cena di lusso, si conoscono tutti ed interagiscono tra loro interpretando sempre lo stesso ruolo nella ripetitiva commedia dell’esistenza. In questo clima opprimente e soffocante, anche se sostanzialmente fatto di lusso e ozio, Newland Archer, un giovane rampante e intelligente, si affaccia sulla soglia dell’età adulta. Ha avuto alcune relazioni sentimentali ma adesso è in procinto di sposarsi con una ragazza carina ed irreprensibile, prodotto perfetto di quella noiosa ed onorabile società della vecchia New York. Improvvisamente però, in questo ambiente calmo e stagnante, irrompe la presenza di una donna arrivata dall’Europa, costretta a separarsi dal marito, affascinante e diversa da tutte le altre: Ellen Olenska.
Mentre Newland si dibatte fra la necessità di seguire ciò che la tradizione richiede da lui e l’inesprimibile desiderio di andare oltre tutto questo, noi lettori possiamo seguire con interesse crescente come la penna dell’autrice, precisa e tagliente, presenti tutta la situazione. La voce di Newland infatti non sembra la voce di un uomo della sua epoca, ma rispecchia invece molto più probabilmente il punto di vista di Wharton: e questa sua coscienza così progressista sulla condizione femminile ce lo rende senza dubbio amabile. Così Newland ricerca una compagna che sia al suo stesso pari per amarla davvero, ma non la trova in sua moglie. La candida May infatti incarna perfettamente ciò che la società alto-borghese patriarcale e maschilista voleva che fosse una donna, cioè un essere non istruito, senza alcuna altra esperienza amorosa eccetto il marito, senza una propria professione né indipendenza economica, completamente dedita fino al sacrificio nei confronti dei figli e del marito. Tutto ciò non la rende una compagna allo stesso livello dell’uomo con cui confrontarsi.
Newland comprende – e qui è chiaro che parla Wharton e non Newland- che le donne dovrebbero essere libere per essere veramente felici ed esprimere pienamente loro stesse. Invece la vecchia società opprimente e noiosa le condanna ad un destino segnato e, di conseguenza, condannerà allo stesso destino di rassegnazione ed infelicità anche quell’uomo che abbia la sfortuna di comprendere a quale soffocante ingranaggio si trovi inchiodato. Ma, per un uomo, alla fine sarà sempre un ingranaggio d’oro e ricoperto di velluto.
“ In realtà vivevano tutti in una specie di mondo di geroglifici, dove la cosa reale non era mai né detta né fatta e neppure pensata, ma soltanto rappresentata tramite una serie di segni arbitrari; […]”
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Geniale il finale che costringe il lettore a una visione retrospettiva. A libro terminato, la vera eroina del romanzo m'è parsa la moglie.
A me sinceramente non mi è sembrato che ci fosse un'eroina nel romanzo. Tutti i personaggi si sottomettono alle regole della società che non li fanno essere liberi e vivere pienamente. Certo alla fine Newland e sua moglie hanno un'esistenza tranquilla e tutto sommato serena, non si può negare.
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