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Le affollate, rissose personalità di Lizzie
Elizabeth Richmond è una giovane di ventitré anni, pacata, non particolarmente avvenente o intraprendente e con un’aura di mestizia che l’avvolge sempre. Lavora nel museo della piccola città di Owenstown in un ruolo impiegatizio privo di particolari stimoli e vive con la zia Morgen nella casa di famiglia in un tran-tran quotidiano abbastanza monotono. Questa grigia esistenza, però, non sarebbe particolarmente sgradevole se Elizabeth non fosse afflitta da frequentissimi, dolorosissimi mal di testa e di schiena che la prostrano e se, talvolta, non avesse dei comportamenti decisamente anomali e “sopra le righe” che imbarazzano la zia e i conoscenti. Su consiglio del medico di famiglia, il dott. Floyd, la ragazza si fa visitare da un altro sanitario, il dott. Victor Wright. Costui, dopo un iniziale scetticismo, decide di sottoporre la giovane ad alcune sedute di ipnosi per accertare se i problemi fisici lamentati non abbiano, invece, delle cause psicologiche. Scoprirà quasi subito che la sua paziente soffre di sdoppiamento della personalità. Dentro di lei vivono una remissiva, timorosa, chiusa e opaca Elizabeth, una dolce, serena e affettuosa Beth, una capricciosa, insolente e infantile Betsy; le tre si combattono ferocemente e si ostacolano tra di loro, pur ignorando la reciproca presenza. La situazione precipita quando Betsy, per cercare di avere il totale controllo del corpo, fugge di casa “rapendo” le altre due sé stessa, ma dando così modo di emergere, durante il suo breve soggiorno a New York, a una quarta personalità, quella dell’arrogante e avida Bess. Quest’ultima componente si rivelerà la più robusta e aggressiva nel gruppo e tenterà con violenza di prendere il sopravvento su tutte. La guerra interna alla giovane si farà così aspra, dura, e coinvolgerà nella lotta sia la zia che il dott. Wright sinché la drammatica dissociazione non deflagrerà in una inaspettata soluzione finale.
Che Shirley Jackson sia una maestra nel descrivere situazioni estreme, dove, sotto la sottile scorza della normalità si cela un travaglio dolorosissimo, è fatto di cui non vale neppure la pena di discutere. In questo tesissimo romanzo, forse ispirato da un fatto reale, l’A. propone per la prima volta in letteratura, e con buona verosimiglianza delle rilevanze cliniche documentate dalla psichiatria, quello che in medicina si chiama disturbo della personalità multipla.
La storia in parte è narrata in terza persona e, in parte, riferita dagli appunti del dott. Wright. In essa il rapido evolversi delle turbe di Elizabeth inizialmente sorprende, poi sconcerta e, talvolta, terrorizza. Non è possibile restare indifferenti o non essere coinvolti dal crescendo che porta alla ribalta le quattro componenti psichiche della protagonista. Il fatto stesso che ognuna, pur parzialmente ignara delle altre, le consideri come nemiche da combattere con ogni mezzo, anche con la violenza fisica, toglie il fiato. Così si rimane coinvolti in quel turbine che, sempre più rapidamente, vede il loro sostituirsi convulso e vorticoso nella lotta per la supremazia.
L’A. è molto abile nel differenziare le quattro “anime” di Lizzie al punto che, dopo un po’, il lettore non fatica a comprendere immediatamente chi pronunci le singole battute senza necessità di spiegazioni. Se, inizialmente, la ragazza assomiglia molto, come carattere, alla sognatrice Eleanor Vance de “Il mistero di Hill House”, in seguito, la personalizzazione evolve divenendo sempre più accurata e netta. Però mi hanno lasciato un po’ perplesso alcuni atteggiamenti descritti: ad esempio sono decisamente troppo infantili quelli inizialmente mostrati da Betsy (che mentalmente dovrebbe avere sedici anni, ma si comporta a volte come una bambina di non più di dieci); quelli del dott. Wright sono spesso assai poco professionali e "umorali"; sin troppo empatici, invece, quelli dei perfetti sconosciuti che la ragazza incontra nella grande città; a volte incomprensibili quelli della zia. In generale ho percepito un fondo di ingenuità e chiusura mentale oggi difficilmente accettabili. Questo è un difetto che ho già riscontrato negli scritti della Jackson la cui impostazione, probabilmente, era condizionata dal fatto di vivere in una piccola città della provincia americana, ancora intrisa di perbenismo puritano e di una qual meschinità di giudizio e, quindi, di subirne inevitabilmente gli influssi e le malignità (forse pure sulla propria pelle!) e di trasfonderli nella sua scrittura.
Anche lo stile narrativo non è fluidissimo: i lunghissimi periodi che descrivono le varie situazioni e le divagazioni (a volte divertenti, ma non di rado tediose) del dottore influiscono negativamente sul grado di attenzione che si riesce a conservare nella lettura. Complessivamente, però, il romanzo si legge con facilità e partecipazione.
Il climax della lotta finale, che rischia di portare alla follia anche coloro che stanno a fianco di Lizzie, e il capitolo conclusivo, enigmaticamente aperto, sono due veri colpi da maestro che confermano quale grande artista fosse la Jackson.
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Mi si consenta un piccolo appunto per l’angolo del pignolo. Durante le sedute d’ipnosi la ragazza stava sempre con gli occhi chiusi, anche se più volte aveva implorato il dottore per poterli riaprire. Allora, come mai, durante una delle prime apparizioni di Betsy, questa “Completò la frase con un’occhiata malevola e ripugnante”? Errore della traduttrice o svista della Jackson?
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Il fatto di essere una 'opera aperta' di per sé è un pregio. Occorre vedere a che livello.
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