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“Non finirà finché non parliamo”
Tra le emozioni della narrativa e le nozioni del saggio, senza forse tralasciare nemmeno ricostruzioni riconducibili al genere della biografia, il libro di Colum McCann si presenta al lettore, fin dalle primissime pagine, come “un romanzo ibrido”. È lo stesso autore, nato in Irlanda e residente da tempo negli Stati Uniti, a sottolinearne la natura al termine di questa sua lunga opera che prende pian piano la forma di un poligono dal numero infinitamente numerabile di lati. “Apeirogon”, appunto, curioso, laconico, perfetto titolo preso in prestito dalla geometria.
Apparso in lingua originale nel 2020, il volume è stato pubblicato in Italia da Feltrinelli lo scorso mese di marzo. La nota introduttiva di McCann non lascia dubbi su quanta realtà vi sia nel contenuto delle sue oltre cinquecento pagine che – non è da escludere – avrebbero potuto continuare ancora a oltranza il loro racconto, proseguire seguendo una miriade di strade che si intersecano fra loro, anche perché il tema affrontato è senz’altro ricco di vicende e sfaccettature diverse. La “fiction”, dunque, si riduce a ben poca cosa attorno ai due protagonisti che si muovono sullo sfondo della purtroppo incancrenita questione israelo-palestinese, ormai da più di sette insanguinati decenni al centro delle cronache internazionali e all’attenzione, non sempre in verità così attenta, delle diplomazie occidentali che, a ben vedere, nulla hanno risolto. Bassam Aramin e Rami Elhanan, arabo palestinese il primo ed ebreo israeliano il secondo, si ritrovano accomunati dal dolore e dalla perdita: le rispettive figlie, Abir e Smadar, seppur a distanza di due lustri, sono cadute vittima della violenza e dell’odio più assurdi che generano lutti da ambo le parti. Era il 2007 quando Abir, all’età di soli dieci anni, dopo aver acquistato un braccialetto di caramelle del valore di due shekel (“le caramelle più costose del mondo”), in prossimità della scuola venne colpita alla testa da un proiettile di gomma sparato dal fucile di un giovane soldato israeliano a bordo di una jeep; Smadar, invece, era quasi quattordicenne allorché, nel 1997, un attentato suicida a opera di tre palestinesi in Ben Yehuda Street a Gerusalemme aveva reciso la sua giovane vita.
La penna di McCann si sofferma in modo particolare su questi drammatici fatti, ritornandoci a più riprese in tutto il corso della narrazione, quasi sezionandoli con estrema cura nel tentativo di estrarne tutti i dettagli, persino quelli più macabri, come il recupero delle parti dei cadaveri disseminate nell’area dell’attentato, addirittura di un bulbo oculare posatosi sulla tenda di un caffè. Ogni singolo elemento, dal giubbotto degli attentatori alle rotte migratorie degli uccelli, dallo zaghareet a “Le mille e una notte” o al Casinò di Gerico, solo per fare pochissimi e assai differenti esempi, viene sviscerato per dare subito il via a rivoli di associazioni e relative annotazioni, andando spesso a cogliere curiosità e fatti vicini o molto lontani nel tempo, anche riportando alla luce storie singolari come quella del funambolo francese Philippe Petit. Tutto questo sempre ruotando attorno alla morte delle due ragazze e alla vita dei loro padri, uniti, oltre che dalla tragedia, pure dal convincimento che un altro modus vivendi sia possibile e che il dialogo e l’accettazione dell’altro, in quanto essere umano, possano essere la sola via d’uscita dalla spirale di morte e vendetta che avvelena la Terra Santa. La trascrizione delle parole di Rami e Bassam, tratta da alcune interviste e riportata nelle pagine centrali del libro, induce a riflettere come non mai e, specie nel caso del primo, costituiscono un vero pugno nello stomaco per lo stato ebraico che dal 1948, come riconoscono anche tanti attivisti israeliani tacciati immancabilmente di tradimento, attua una vera e propria occupazione ai danni di un popolo, quello palestinese, privato della propria dignità.
«Mi chiamo Rami Elhanan. Sono il padre di Smadar. Sono un graphic designer di sessantasette anni, un israeliano, un ebreo, un gerosolomitano di settima generazione. […] Quando qualcuno uccide tua figlia vuoi mettere le cose in pari. Vuoi uscire e uccidere un arabo, qualsiasi arabo […] Poi dopo un po’ cominci a farti delle domande […] E ti chiedi, Uccidere qualcuno mi restituirà mia figlia? […] Non tornerà, la tua Smadari. E a questa nuova realtà ti ci devi abituare. Pertanto, in un lento passaggio graduale e complesso, ti sposti dall’altra parte: cominci a chiederti, cosa le è successo, e perché? È difficile, è terribile, è estenuante. Come è potuta succedere una cosa simile? Cosa potrebbe portare qualcuno a essere tanto arrabbiato, folle, spietato, disperato, e così stupido e patetico, da essere disposto a farsi esplodere accanto a una ragazzina di nemmeno quattordici anni? Come fai a capire un simile istinto? Dilaniare il tuo stesso corpo? […] Che cosa lo ha spinto? […] Chi gli ha insegnato una cosa simile? Gliel’ho forse insegnata io? Gliel’ha insegnata il suo governo? O il mio governo? […] Certe persone hanno interesse nel mantenere il silenzio. Altre hanno interesse nel seminare odio basato sulla paura. La paura produce denaro, produce leggi, prende la terra, costruisce insediamenti […] Ai nostri politici piace spaventarci. A noi piace spaventarci l’un l’altro. Usiamo la parola sicurezza per tappare la bocca al prossimo. Ma non si tratta di sicurezza, si tratta di occupare la vita di qualcun altro. […] L’Occupazione non è né giusta né sostenibile. Ed essere contro l’Occupazione non è in alcun modo una forma di antisemitismo. […]»
«Mi chiamo Bassam Aramin, sono il padre di Abir. Sono un palestinese, un musulmano, un arabo. Ho quarantotto anni. […] Da bambino pensavo che essere palestinese, musulmano, arabo, fosse una punizione divina. E me la portavo dietro come un grosso peso intorno al collo. Da bambino non fai che chiedere perché, ma da adulto, di chiedere perché te lo sei ormai dimenticato. Accetti e basta. Hanno distrutto le nostre case. Accetti. Ci hanno ammassato attraverso i checkpoint. Accetti. […] Ma in prigione cominciai a riflettere sulle nostre esistenze, sulla nostra identità, in quanto arabi, e questo mi portò a riflettere anche sugli ebrei. E a quel punto compresi che l’Olocausto era reale, era successo per davvero. […] Ci sarà sicurezza per tutti quando avremo giustizia per tutti. Come ho sempre detto, è un disastro scoprire l’umanità del tuo nemico, la sua nobiltà, perché a quel punto non è più tuo nemico, non può proprio esserlo. […] Abbiamo bisogno di imparare a condividere questa terra, altrimenti la dovremo condividere nelle nostre tombe. […]»
Parole che i due genitori, stretti da vera e sincera amicizia, nonché membri di movimenti e associazioni che riuniscono famiglie appartenenti a entrambi i lati della “barricata” (“Parents Circle” e “Combattenti per la Pace”), hanno iniziato a ripetere all’infinito, portandole in viaggio ovunque, anche all’estero. Perché parlare e raccontarsi significa infine condividere il proprio dolore, che coincide con quello altrui, e contribuire così a una “lotta” non violenta a dispetto di quanto invece esigono le rispettive leadership. “Non finirà finché non parliamo” recita la scritta in ebraico sul paraurti della motocicletta di Rami, ed è vero.
“Apeirogon” non è un libro semplice, la sua lettura risulta alquanto impegnativa e lo stile adottato qui dall’autore potrebbe cogliere impreparati, ma ha il grande merito di puntare il dito anzitutto contro l’occupazione, raccontata con franchezza nella propria brutale quotidianità fatta di check points, incursioni delle jeep militari, perquisizioni e umiliazioni di vario tipo (e chi ha messo piede in Cisgiordania almeno una volta, anche per poco tempo, sa bene che queste non sono fantasie da scrittori). Trattare un simile argomento equivale a camminare su un terreno minato per tanti motivi; tuttavia, penso che Colum McCann, nonostante alcune polemiche dopo l’uscita del volume, lo abbia affrontato con onestà; il risultato è un’opera coinvolgente e di assai ampio respiro che può dare il proprio valido contributo alla conoscenza di quanto realmente avviene in Palestina e smuovere, di conseguenza, la coscienza dell’opinione pubblica in generale. Affinché nessun bambino sia più l’inerme bersaglio del fucile di un soldato, al pari di una cisterna piena d’acqua, e nessuno debba più saltare in aria per mano di quella premeditata follia suicida che non potrà mai essere la soluzione all’ingiustizia e all’oppressione. Perché anche il soldato che preme il grilletto e i kamikaze imbottiti d’esplosivo, come sottolineano gli stessi Bassam e Rami, sono vittime dell’intero sistema di guerra perenne. Una lettura decisamente consigliata!
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Commenti
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Molto istruttiva.
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Il romanzo 'ibrido' è una tipologia di narrativa che mi piace.